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Immigrazione ed elezioni europee – Perché la destra è in pole position

6 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Mancano 9 mesi alle prossime elezioni Europee, e si sente dire che la relativa campagna elettorale è già iniziata. Non mi sembra esatto, almeno in Italia. Quel che si osserva, negli ultimi mesi, è semmai un penoso tentativo dei partiti (specie quelli di governo) di differenziarsi sulla politica interna, mentre quasi nulla sulle grandi tematiche europee – dal patto di stabilità all’immigrazione – né sul problema politico fondamentale: con quale maggioranza la Commissione europea governerà il Vecchio continente?

Eppure questo è il punto cruciale. Accade infatti che, per la prima volta dal 1979 (primo Parlamento Europeo), esiste la concreta possibilità che l’alleanza Popolari-Liberali-Socialisti, che ci ha governati per 45 anni, non abbia più i numeri per governare.  È tutt’altro da escludere, infatti, che i due raggruppamenti di destra (Identità e Democrazia, Conservatori e Riformisti), che attualmente occupano il 18% dei seggi, si rafforzino al punto da rendere numericamente possibile una maggioranza con i Popolari, attualmente al 25%: lo spostamento elettorale necessario per tale ribaltamento è dell’ordine di 7 punti percentuali, che sono tanti ma non tantissimi. Questa eventualità, più che regalarci un governo di destra (impraticabile finché il Partito Popolare manterrà lo sbarramento contro l’estrema destra), si tradurrebbe in una fortissima instabilità, fino alla sostanziale paralisi delle istituzioni europee. Una prospettiva non proprio esaltante.

Ma che cosa rende verosimile l’ipotesi di un successo delle destre in Europa?

Fondamentalmente il combinato disposto di due circostanze: l’aggravamento del problema migratorio, particolarmente acuto in Italia; la rimozione del problema da parte dei maggiori partiti progressisti europei.

Che il problema migratorio sia in cima alle preoccupazioni di alcune opinioni pubbliche europee si indovina dai risultati elettorali e dai sondaggi più recenti, che segnalano il rafforzamento dei partiti ostili all’immigrazione. Oltre al recente successo della coalizione di destra guidata da Giorgia Meloni, si debbono ricordare: l’avanzata di Alternative für Deutschland in Germania (elezioni politiche e sondaggi), il rafforzamento del Rassemblement National in Francia (elezioni legislative), le recenti clamorose vittorie delle destre in Svezia, Finlandia, Grecia. In apparente controtendenza, i risultati elettorali in Spagna (dove il partito xenofobo Vox ha perso colpi) e in Danimarca (dove la premier socialdemocratica Mette Frederiksen è tornata a guidare il paese).  Dico “apparente” controtendenza perché sia in Spagna sia in Danimarca il consenso elettorale complessivo ai partiti di destra e centro-destra è in realtà aumentato, sia pure di poco.

Il caso danese merita una speciale attenzione. In Danimarca i socialdemocratici, con il 27.5% dei consensi, hanno ottenuto il miglior risultato di sempre, e hanno scelto di formare un governo di grande coalizione (“né rossa né blu”, secondo la premier) con gli altri due maggiori partiti, ossia liberali e i moderati. Il punto interessante, però, è con che tipo di messaggio i socialdemocratici hanno affrontato – e vinto – la prova elettorale. Per mesi, al centro del dibattito politico danese vi è stata la proposta, caldeggiata dai socialdemocratici stessi, di collocare in Rwanda o in qualche territorio straniero una parte dei migranti.

Ed ecco il punto chiave: anche se con ogni probabilità la proposta non sarà attuata, o sarà annacquata in qualcosa d’altro, il fatto è che i socialdemocratici hanno riconquistato la fiducia dell’elettorato mostrando che prendono sul serio il problema dell’immigrazione. Una sorta di variante nordica della “linea Minniti”, che in Italia ebbe breve durata, almeno a sinistra.

Nulla di tutto ciò pare muoversi nelle altre socialdemocrazie europee. Anzi, l’atteggiamento della Commissione è di “comprendere” l’esistenza del problema, ma di essere decisa a non far nulla prima del rinnovo del Parlamento europeo, il prossimo giugno. Ecco perché penso che i partiti di destra, radicale o estrema, abbiamo ottime possibilità di fare un grosso risultato alle prossime elezioni europee. Negare o sottovalutare il problema dei migranti è il più grande regalo che i partiti di sinistra possano fare alle forze politiche di destra.

Astensioni e delusioni

22 Febbraio 2023 - di Paolo Natale

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Trascorso qualche giorno dalle considerazioni sorprese dei commentatori e dalle spiegazioni a caldo del fenomeno del deciso incremento dell’astensionismo, il tema è un po’ evaporato, come accade troppo sovente nel nostro paese. Possiamo e dobbiamo invece tornare a parlarne ora in maniera forse meno emotiva e più razionale, cercando di identificarne le cause più profonde, quanto meno in Italia, senza peraltro dimenticare che questa tendenza si manifesta a volte ancora più evidente in molte delle altre democrazie occidentali.

 I dati di fatto sono presto riassunti: nel Lazio e in Lombardia hanno votato alle ultime regionali tre milioni di persone in meno rispetto alle elezioni politiche di settembre, già demarcate da un forte calo di votanti rispetto alle politiche precedenti (un ulteriore milione in meno nelle due regioni), e la stessa lista di Fratelli d’Italia, ilpartito certamente vincitore anche di questa tornata, ha lasciato a casa un milione di voti in poco più di quattro mesi.

Questi dati non paiono casuali, come forse poteva essere giudicato il tracollo della partecipazione in Emilia-Romagna nel 2014, quando votò soltanto poco più del 37% degli aventi diritto, un po’ come nel Lazio di quest’anno. Cinque anni più tardi, così come cinque anni prima, la l’affluenza registrava infatti valori prossimi al 70%. Quella sorta di indicente di percorso, in una regione peraltro dove il turnout è costantemente tra i primi del paese, non fu mai chiaramente analizzato, ma è probabile fosse dovuto ad un improvviso disinteresse per una consultazione il cui risultato non era mai stato messo in dubbio, in un periodo in cui il Pd per una volta nella sua storia stava vivendo un momento di grandissimo consenso elettorale ed aveva appena trionfato, con Renzi, alle recenti Europee.

Oggi il deficit di partecipazione non pare in alcun modo casuale, o legato a circostanze contingenti, e ha bisogno di una spiegazione esaustiva; le sue cause possono essere ricondotte ad almeno cinque elementi.

Per prima cosa occorre sottolineare il fatto che il dato sull’astensionismo alle amministrative è gonfiato daun particolare tecnico: nelle elezioni regionali, come pure in quelle comunali, fanno parte del corpo elettorale diriferimento anche tutti coloro che sono residenti all’estero, cosa che non accade né alle politiche né alle europee, quando sono invece scorporati perché possono votare all’estero. Alle ultime politiche, ad esempio, gli elettori lombardi che non vivono in Italia erano mezzo milione in meno di quelli delle regionali: aumentando la “base” di riferimento per il calcolo degli astenuti, è ovvio che questi ultimi sembrino di più, alle amministrative. Il dato “vero” del voto sarebbe dunque del 45% in Lombardia e del 41% nel Lazio, circa 4 punti in più di quello che appare. Pur con questo caveat, è peraltro indubbia la sua significativa decrescita.

Un secondo elemento importante da sottolineare è che questo tipo di processo è un processo che sostanzialmente va avanti da almeno 10-12 anni; ultimamente si è certo un po’ accresciuto, anche rispetto alle politiche, ma nella realtà il fenomeno dell’astensionismo in Italia, che si sta in qualche modo avvicinando al fenomeno che si verifica anche nel resto delle democrazie occidentali, risale probabilmente al 2012-2013, gli anni cioè dell’avvento del Movimento 5 stelle. Questa nuova forza politica sia nel 2013 che nel 2018 ha drenato una quota consistente di potenziale astensionisti col suo messaggio palesemente anticasta,antipolitica e contro i partiti tradizionali (“apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno”): i 5 stelle presero il 25% nel 2013 e addirittura il 33% nel 2018, e molto probabilmente una loro quota significativa,almeno la metà, si sarebbe astenuta in mancanza della presenza del movimento di Grillo.

Nella cosiddetta prima Repubblica l’astensionismo era bassissimo, come si sa, perché il voto era legato soprattutto ad appartenenze subculturali (cattoliche o socialcomunista) e quindi ovviamente il voto diventava proprio una sorta di manifesto di appartenenza a una delle due culture prevalenti; nella seconda Repubblica la crescita di astensionismo è stata limitata da quella che ho chiamato “fedeltà leggera”, la manifestazione elettorale pro o contro Berlusconi, non più una cosa di anima ma di testa, di opinione. Con il tramonto politico di Berlusconi, dal 2011 in poi, non ci sono più né vecchie appartenenze né una certa polarizzazione berlusconiana o anti-berlusconiana; nel contempo, sempre più forte e presente si manifesta il distacco tra cittadini e politica e i suoi rappresentanti: i politici hanno come noto un indice di gradimento intorno al 15- 20%; esaurito l’innamoramento per i 5 stelle, vissuti ormai come parte del sistema che prima criticavano, l’alterità nei confronti del mondo politico si incarna nel rifiuto, nell’astensione.

La scelta di recarsi alle urne, in qualche modo, potrebbe essere vista come una sorta di scelta più matura,non più condizionata da fattori esterni, ma legata soprattutto alla propria vicinanza alle idee politiche di questo o quel partito. Per inciso, una scelta che in questo periodo favorisce maggiormente il centro-destra, i cui elettori sono oggi più interessati al voto, ma che fino a pochi anni fa favoriva al contrario il centro-sinistra.

Ma esistono infine gli ultimi tre fattori che hanno condizionato la scarsa affluenza. Il terzo elemento è paradossalmente legato ad una ritrovata fiducia nel mondo demoscopico: ultimamente i sondaggi ci azzeccano abbastanza nelle loro stime di comportamento di voto, e gli elettori “sanno” già quale sarà lo scenario principale che uscirà dalle urne; un risultato già scontato, come la vittoria delle destre alle politiche e ancor più nelle regionali, ha probabilmente dissuaso una parte significativa della popolazione elettorale dall’andare a votare.

Inoltre, un’offerta politica priva di figure di grande appeal, come in parte poteva essere stata la stessa Meloni alle politiche, non è riuscita a dare stimoli ad un elettorato che, lo sappiamo, è oggi molto più sensibile alle figure dei leader che non a quella dei partiti.

Infine, last but not least, è esistito soprattutto in quest’ultima tornata regionale un vero problema di informazione e comunicazione dell’evento elettorale, un po’ da tutti gli attori legati al rinnovo delle amministrazioni di Lazio e Lombardia, che già di per sé non suscita un interesse spasmodico. Una mancanza informativa da una parte e di specifico interesse dall’altra che può venir facilmente riassunta in questo episodio, piccolo ma simbolicamente significativo, vissuto da me in prima persona: due giorni prima del voto, mia lezione a Scienze Politiche (non Numismatica!), a Milano, al biennio magistrale. Chiedo ai miei studenti: andate a votare domenica? Risposta prevalente: perché, prof, per cosa si vota…? Ecco.

Per finire, e se consideriamo quello che accade negli altri paesi europei, soprattutto al Nord, vediamo che anche lì spesso si assiste ad un astensionismo intorno al 50% se non di più, in alcune occasioni soprattutto quelle più amministrative: pare dunque questa una tendenza che accomuna ormai l’Italia al resto d’Europa. Mail vero problema è che effettivamente mentre negli altri paesi a volte non si vota perché si ha fiducia comunque in entrambe le parti politiche (penso alla Svezia, o alla Danimarca: chiunque vinca so che amministrerà responsabilmente), forse in Italia si vota meno proprio perché si ritiene che le parti politiche siano sempre meno degne di fiducia. Ecco, questo forse è qualcosa che dovrebbe dare qualche preoccupazione in più.

Oggi la destra dice cose di sinistra

12 Ottobre 2022 - di fondazioneHume

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Intervista di Luca Telese a Luca Ricolfi (pubblicata su TPI, 30 settembre 2022)

Professor Ricolfi, lei nel 2005 fece discutere con un provocatorio saggio sulla sinistra: ”Perché siamo antipatici?”. Alla luce di questo voto si sente un po’ profeta? 

Non più di prima, ormai il problema base non è l’antipatia della sinistra ufficiale ma la sua mancanza di idee, e di rispetto per l’avversario politico. Spiace dirlo, ma la sinistra ufficiale (Pd e dintorni), ha un deficit di maturità democratica. Tollera le ingerenze straniere, e non rispetta le scelte della maggioranza. Non sono pronti per la democrazia.

Sono passati 17 anni da quel libro, si evoca ancora la categoria relazione che lei ha definito come politica, “l’antipatia”, per spiegare questo risultato.  É così anche per lei? 

No, il risultato è dovuto al vuoto di idee, al disprezzo per la sensibilità popolare, e alla mancanza di capacità strategica di tutti i leader, non solo del povero Letta.

La situazione é migliorata o peggiorata per via delle leadership o delle alleanze?

Per tutte e due, leadership e alleanze sono strettamente connesse: con questi leader, non si riescono a fare alleanze.

Cos’è diventata oggi questa “antipatia”? 

E’ diventata distanza: chiunque vede a occhio nudo che i politici di sinistra, con alcune importanti eccezioni (Pierluigi Bersani, Tommaso Cerno, ad esempio), non vivono nella realtà.

Secondo le indagini gli elettori del Pd sono statisticamente quelli con un titolo scolare migliore, e quelli con un reddito più alto. Si è ribaltata la composizione storica della sinistra italiana, secondo lei perché? 

Ho scritto un libro per spiegarlo (Sinistra e popolo), e ne sto per pubblicare un altro (La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra). Purtroppo non c’è una spiegazione semplice, perché lo swap fra gli elettorati della destra e della sinistra è avvenuto gradualmente, a partire dal 1965, con due accelerazioni: la caduta del Muro di Berlino, la crisi finanziaria 2007-2012.

Lei dice che il centrosinistra negli ultimi anni è stato il motore della disuguaglianza, non il suo nemico.

Nella scuola e nell’università è così, ho provato a dimostrarlo in termini matematico-statistici rigorosi nel libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguglianza, scritto con mia moglie Paola Mastrocola.

Cosa pensa del cosiddetto terzo polo? 

Tutto il bene e tutto il male del mondo. Tutto il bene perché rappresentano (molto imperfettamente) la sinistra liberale, che è quella che piacerebbe a me, se esistesse. Tutto il male perché non credo – come Renzi e Calenda – nelle virtù dei governi tecnici, e trovo anti-democratica la previsione/minaccia di far cadere il governo Meloni entro sei mesi.

Come valuta Il risultato di Renzi e Calenda, e perché non la convincono (se è così)? 

Il risultato non è malaccio, spero che facciano un’opposizione costruttiva.

Lei è un allievo di due dei più prestigiosi padri nobili della sinistra intellettuale: Luciano Gallino Claudio Napoleoni, ma adesso viene considerato un pensatore vicino alla nuova destra: come spiegherebbe la sua evoluzione politica?

E’ la nuova destra (ma mi riferisco solo a quella della Meloni) ad avere assunto tratti di sinistra: difesa della libertà di espressione, protezione dei ceti deboli e dei perdenti della globalizzazione, anti-assistenzialismo, politiche fiscali keynesiane. Che cosa può volere di più un uomo di sinistra?

Lei dice: “sono e rimango di sinistra”. Quanto ci ha pensato prima di intervenire al convention di Fratelli d’Italia?

Nemmeno un secondo. Se mi invitano a parlare dei temi che mi stanno a cuore io ci vado. Il problema è che, negli ultimi 30 anni, ho ricevuto inviti (peratro rari) solo da destra. E poi c’è la stima per Giorgia Meloni, che dura da quando l’ho conosciuta personalmente, otto anni fa.

Cosa pensa di Giorgia Meloni, come leader? 

E’ “la migliore”, come Togliatti.

Ha un rapporto personale con lei? 

Ogni tanto ci scriviamo o facciamo una video-call.

Chi rappresenta oggi – dal punto di vista sociale e politico –  il primo partito italiano, Fratelli d’Italia? 

I dati dicono che è’ abbastanza interclassista, con prevalenza dei ceti bassi.

Considera  Giuseppe Conte un leader di sinistra? 

No, per me l’assistenzialismo non è di sinistra. Però devo ammettere che i Cinque Stelle la questione sociale la prendono sul serio, non come il Pd che pensa solo agli immigrati e alle istanze LGBT.

Ritiene giusto abolire il reddito di cittadinanza?  

Come tutte le persone non ideologizzate penso che vada corretto, separando (anche giuridicamente) il sostegno ai poveri che non possono lavorare dal sostegno a coloro che possono lavorare.

Il Sole 24 ha pubblicato un diagramma per dimostrare un rapporto diretto tra il voto al M5S e i percettori del reddito, crede a questa relazione? 

Non c’era bisogno del diagramma per capire che il nesso c’è, ed è parecchio stretto.

Era davvero possibile un campo largo che tenesse insieme tutte le attuali opposizioni?

Non lo so, Letta non lo voleva, Conte non so se lo avrebbe accettato.

La preoccupa o la diverte il fatto che si faccia il suo nome come possibile ministro della Pubblica Istruzione? 

Non mi preoccupa e non mi diverte. E’ la solita costruzione giornalistica: non è un mestiere che saprei fare. Ma se ne fossi capace, non esiterei a dare una mano a Giorgia Meloni.

Un altro falso pluralista, Massimo Recalcati

10 Ottobre 2022 - di Dino Cofrancesco

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Sono convinto dell’inutilità di questo commento all’articolo di Massimo Recalcati, La sinistra e le parole da ritrovare uscito su ‘La Repubblica’ del 30 settembre u.s. A volte, però,  il messaggio nella bottiglia può avere un valore di testimonianza. Per i posteri altrimenti indotti a credere che lo spirito di un’epoca, della nostra epoca, condizioni tutti coloro che l’hanno vissuta. Recalcati è uno dei tanti intellettuali che, il giorno dopo la sconfitta del PD, vorrebbero ridare un’anima alla sinistra, facendole ritrovare le parole giuste. Quanto scrive è spesso condivisibile. È verissimo, ad es., che “se gli italiani hanno votato per Giorgia Meloni non significa che essi desiderino il ritorno del fascismo” e che, pertanto, “il grande collante dell’antifascismo non è più sufficiente a definire l’identità politica e culturale della sinistra” (scritto su un quotidiano come ‘La Repubblica’ ferma alla linea politico-culturale di Ezio Mauro non è poco). Il disaccordo comincia quando Recalcati parla della destra, delle sue parole d’ordine (Dio, Patria e Famiglia) “vincolate a una ideologia patriarcale al tramonto” della difesa degli interessi nazionali, presidio dei confini, della tutela dell’ordine sociale.

Per lo psicoanalista si tratta di valori arcaici ma che nutrono quella nostalgia che ha fatto vincere il centro destra e alla quale il PD non ha saputo contrapporre ‘la propria identità ideale’. Quest’ultima avrebbe richiesto un’idea alternativa di Dio, Patria, Famiglia ma non s’è visto nulla del genere. Per quanto riguarda Dio, si trattava, in so-stanza, di proseguire sulla via indicata dai Lumi: “credere nella ricerca, nell’istruzione, nel pluralismo contro ogni forma idolatrica di dogmatismo”. Per quanto riguarda la patria, la sinistra avrebbe dovuto “ripensare radicalmente l’Europa come nuova patria”.

E infine, venendo alla famiglia, si doveva chiaramente emancipare il legame famiglia-re dalla “logica materialistica della biologia”, liberandosi dagli stereotipi retorici che l’esperienza clinica e la medicina avrebbero spazzato via. Insomma è Monica Cirinnà che avrebbe dovuto guidare il PD in queste elezioni.

Intendiamoci, trovo legittimi tutti gli obiettivi per i quali si battono Recalcati e il mainstream culturale che ormai domina negli Atenei, nella stampa, nei mass media. E qualche volta li condivido, come nella richiesta di una legge umana sul fine vita. Ma il punto non è questo, bensì il falso pluralismo di cui si ammanta Recalcati. Se avesse letto Isaiah Berlin si sarebbe reso conto (forse) che i valori sono tanti e che “la piena dignità politica dei propri avversari” che, giustamente, vuole riconosciuta dalla sinistra, comporta comprenderne il senso e il loro radicamento nell’umano, rinunciando a considerarli spazzatura della storia. Porto qualche esempio: “la patria non si può identificare con il suolo e con il sangue”. “Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?/Non è questo il mio nido/ ove nudrito fui sí dolcemente?/Non è questa la patria in ch’io mi fido/madre benigna et pia,/che copre l’un et l’altro mio parente?”, cantava Francesco Petrarca nella sua canzone All’Italia., scolpendo, nei suoi bellissimi versi un sentimento universale.

Certo, per il neoilluminista conta solo la Gesellschaft—la societas in cui esseri razio-nali si accordano, mediante contratti equi, per soddisfare i loro interessi e garantirsi reciproci diritti; si veda, del resto, la voce ‘Patria’ nel Dizionario Filosofico di Voltaire; ma nel cuore del tradizionalista sta la Gemeinschaft—la communitas fondata non sul principio di prestazione (‘do ut des’) ma sul principio della solidarietà, dell’ ‘uno per tutti e tutti per uno’. Non sono valori entrambi? Certo si può discutere sul modo in cui, nell’uno e nell’altro campo, vengono fatti valere: la comunità, è stato rilevato più volte, porta al Lager e la ‘società’ al Gulag, ma qui stiamo sul terreno dell’etica politica non della storia.

Altro esempio: pensare che una famiglia debba essere composta di genitori di sesso diverso, ovvero eticizzare il dato biologico può non trovare tutti d’accordo e si può capire ma perché anche qui non riconoscere che ci troviamo dinanzi a valori forti che si contrappongono ad altri che stanno, a ragione o a torto, diffondendosi nel mondo (a Cuba, dove al tempo di Fidel Castro venivano giustiziati i gay, un referendum popolare ha riformato il diritto civile)? Si dirà che ormai antropologia e medicina hanno dimostrato che i costumi, alle origini di comportamenti e di pregiudizi che non si fondano sulla scienza, non debbono essere tollerati dai codici ma questo non è puro e semplice cognitivismo etico ovvero la deduzione dei doveri morali dai comandi di un’entità superiore che li impone—ieri Dio, oggi la Scienza? Ho forti dubbi sul concetto di ‘normalità’- specie in campo medico-antropologico–ma anche se le scienze all’unanimità dovessero definirlo una volta per sempre resterebbe la mia libertà di proclamare: “Tutti lo sono ma io non voglio essere normale”. Non era, in fondo questa, la lezione di uno dei pochi liberali espressi dal Partito d’Azione, Guido Calogero?

Insomma ho l’impressione che l’esaltazione del pluralismo, nella nostra cultura, sia pura e semplice retorica, purtroppo non innocua. In realtà, ci è impossibile pensare che i nostri progetti politici non siano superiori a quelli dei nostri avversari ideologici, rinunciando “all’idea ‘religiosa’” della nostra “superiorità morale”. E forse la causa di ciò sta nella riluttanza ad ammettere che i valori non solo sono tanti, come si è detto, ma spesso risultano conflittuali e incomponibili. Le ‘benedizioni della modernità’, come le chiamava il grande Albert Hirschman—l’Europa, l’atlantismo, la globalizza-zione, il modello americano—non sono tali per tutti e molti ne farebbero volentieri a meno. Nostalgia di un mondo perduto? E se così fosse? Non c’è anche un diritto alla nostalgia? Democrazia non è ‘andare sempre avanti’ ma è anche prendere atto che qualcuno vorrebbe fermarsi se non tornare indietro: contano i voti e le maggioranze. Peraltro le democrazie che storicamente hanno avuto successo sono quelle che hanno tenuto in equilibrio Lumi e Tradizione, Destra e Sinistra, l’Antico e il Nuovo.

Se non vinciamo sempre ‘noi’ ma vincono ‘loro’, qualche ragione ci sarà ma non troviamola, per carità negli ‘atavismi culturali’ che spesso designano i valori che non sono i nostri…

 

Dino Colafrancesco

Novità o carisma?

6 Ottobre 2022 - di Luca Ricolfi

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Sull’exploit di Giorgia Meloni e del suo partito alle elezioni del 25 settembre circolano teorie curiose. La prima attribuisce il successo alla scelta di stare all’opposizione del governo Draghi, una scelta che avrebbe penalizzato soprattutto la Lega di Salvini. Questa teoria è illogica, perché all’opposizione del governo Draghi c’è stata pure Sinistra Italiana di Fratoianni, che invece ha ottenuto un risultato modesto, di poco sopra la soglia del 3% (insieme ai Versi), senza intaccare minimamente i consensi dei partiti di sinistra governisti. Ma soprattutto  è incompatibile con i dati: il prof. Paolo Natale, uno dei massimi specialisti di analisi elettorale, ha dimostrato in un recente contributo che l’erosione dei voti leghisti da parte del partito di Giorgia Meloni era iniziata ben prima della nascita del governo Draghi, ed è semplicemente proseguita durante il governo tecnico. Dunque non può essere la scelta di stare all’opposizione ad aver fatto la differenza fra Fratelli d’Italia e Lega.

Più ragionevole è la teoria che attribuisce il successo del partito di Giorgia Meloni al fatto di non essere mai entrato in un governo, anche quando avrebbe potuto (nel 2018 e nel 2021). Molti dicono: gli italiani amano le novità, dal 1994 in poi hanno provato di tutto, restava solo da provare lei. C’è del vero in questa lettura, ma manca un tassello fondamentale: il carisma.

Sono passati esattamente 100 anni da quando Max Weber, in Economia e società, introdusse nel lessico delle scienze sociali il concetto di carisma e di leadership carismatica, mutuandolo dall’ambito religioso, in cui allude alla grazia, ossia a un dono straordinario concesso da Dio a una persona a vantaggio di una comunità (la parola carisma deriva da χάρις, che in greco significa grazia). In ambito politico il carisma è molto difficile da definire, ma per lo più allude alla capacità di trasmettere una visione della realtà e di stabilire un contatto emotivo con le masse cui ci si rivolge.

Che cosa si debba intendere oggi per leader carismatico è ovviamente controverso, ma credo che – quale che sia la definizione di carisma che si preferisce – sia difficile negare che nelle ultime elezioni Giorgia Meloni sia stata l’unica leader che ne fosse dotata.

Come mai?

Penso che la risposta sia che, in politica, il carisma molto raramente è un carattere permanente del leader. Il carisma si può benissimo perdere. Di leader politici intrinsecamente, e quindi permanentemente, carismatici, nella ormai lunga storia della Repubblica ne ricordo solo due: Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer. Tutti gli altri condottieri che, a un certo punto della loro storia, sono parsi toccati dalla grazia, hanno finito per perderla. Nella storia della seconda Repubblica il carisma si è posato su Berlusconi, con la promessa della rivoluzione liberale; su Veltroni, con il sogno della “bella politica”; su Renzi, con il mito della modernizzazione del sistema; su Beppe Grillo, con la rivolta anti-casta.

Ma per tutti, a un certo punto, sia pure con modalità molto diverse, è calato il sipario. Berlusconi ha perso la grazia perché non ha mantenuto le promesse, e non è stato capace di innovarsi. Veltroni ha tardato troppo a scendere in campo, e quando lo ha fatto è stato messo fuori gioco dalle faide interne del suo partito. Renzi si è autoaffondato per arroganza ed eccesso di sicurezza. Beppe Grillo è stato sommerso dal qualunquismo e dalla pochezza della sua creatura.

Non sarebbe stato un problema se, usciti di scena tutti i leader un tempo carismatici, al loro posto ne fossero emersi di nuovi. Ma non è andata così. Né a sinistra, né a destra. La sinistra si è presentata alle elezioni senza alcun leader carismatico, se si eccettua lo pseudo-carisma (da reddito di cittadinanza) di Conte nel Mezzogiorno. Quanto alla destra, né Berlusconi né Salvini paiono aver capito che la stanca ripetizione di una raffica di slogan e di parole d’ordine vecchie di vent’anni non può scaldare i cuori.

In questo deserto, alle parole di Giorgia Meloni non è stato difficile arrivare ai cuori e alle menti dell’elettorato di centro-destra, cui la visione tradizionalista di Giorgia Meloni, mai così esplicita in una campagna elettorale, è parsa più congeniale delle promesse liberiste dei soliti Salvini e Berlusconi.

Per lei il difficile comincia ora. Perché ci aspetta l’autunno più drammatico dalla fine della seconda guerra mondiale, e la storia insegna che il carisma è più facile conquistarlo che conservarlo.

Luca Ricolfi

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