Il Gerrymandering e le bufale pre-elettorali

Finiti gli scontri sulla definizione e le regole della nuova legge elettorale, l’ormai ben noto “Rosatellum bis”, il mondo politico e giornalistico ha trovato un altro tema di polemica, quello riguardante la conformazione che devono avere i nuovi collegi elettorali. Il ritorno ai collegi uninominali, sia detto per inciso, è forse una delle poche cose buone che questa norma di voto ci ha restituito: un aggancio con il territorio che, sebbene molto più timido rispetto all’antico “Mattarellum” (come lo definì Giovanni Sartori), ha comunque il pregio di affiancare di nuovo il nostro paese alle modalità di voto delle principali democrazie occidentali, con la riconoscibilità delle candidature e una scelta forse più consapevole da parte degli elettori.

Qual è dunque il tema di questa nuova polemica? Nasce in buona sostanza dalla paura che il ritaglio territoriale che viene attuato nel disegno dei collegi possa determinare una sorta di “Gerrymandering” all’italiana. Elbridge Gerry era un governatore americano del Massachusetts che, nei primi anni del lontano Ottocento, disegnò i collegi del suo distretto elettorale in modo tale da massimizzare i voti per la sua parte politica (l’esempio classico è mostrato nella figura allegata). Dal momento che i confini dei nuovi collegi assomigliavano ad una salamandra (“salamander”, in inglese), i giornali dell’epoca coniarono questa infida pratica con l’appellativo, appunto, di Gerry-mander. Da allora questo termine si riferisce ad una pessima abitudine di alcuni legislatori di costruirsi i collegi a proprio uso e consumo, cosa che fecero in particolare i laburisti inglesi negli anni cinquanta del secolo scorso.

Per giorni sui nostri quotidiani si è discusso sulla possibilità che anche in Italia l’attuale ridisegno dei collegi, da parte dei partiti di maggioranza ed in particolare del Pd, potesse essere effettuato secondo queste cattive modalità, alimentando nuove polemiche su Matteo Renzi. Il caso maggiormente evidenziato è stato quello di Rignano, paese natale del segretario Pd, che era stato in un primo momento assegnato al collegio di Livorno, benché il comune sia territorialmente contiguo a Firenze mentre, dopo il suo intervento, si era proceduto a riunirlo al capoluogo regionale toscano. Era questa la prova evidente, secondo i critici, della volontà del legislatore di costruirsi i confini a proprio vantaggio, per massimizzare i propri consensi.

Ma sarà poi vero? O è la consueta bolla di sapone? Ricapitoliamo. In tutte le occasioni in cui si è cercato la scorciatoia del Gerrymandering la situazione elettorale era abbastanza stabile, talmente stabile che chi percorreva questa strada era ben consapevole dei probabili comportamenti di voto degli elettori residenti in quelle aree. In Italia, se vogliamo, un’operazione di questo stampo sarebbe stata produttiva negli anni Cinquanta o Sessanta, quando la mobilità elettorale era ai minimi termini, e ogni elezione ribadiva sostanzialmente quello che era accaduto negli anni precedenti, con soltanto lievi cambiamenti. Oggi non è più così.

Soprattutto dopo l’avvento del Movimento 5 Stelle ed il parallelo smottamento della fedeltà elettorale dei principali partiti italiani, tutte le occasioni elettorali che abbiamo avuto recentemente sono state una vera incognita: i tassi di astensionismo e di incertezza delle scelte dei cittadini sono sotto gli occhi di tutti. Fare previsioni, oltretutto a livello locale, è diventato quasi un terno al lotto, come ben sanno gli istituti di ricerca demoscopici, che trovano difficoltà sempre maggiori a produrre sondaggi attendibili, non certo per loro incapacità, ma per una montante indecisione dell’elettorato stesso.

In una situazione di questo genere, la costruzione a tavolino dei collegi – al fine di massimizzare il proprio consenso – potrebbe risultare alla fine un vero e proprio boomerang. Meglio lasciar perdere, e sperare nello stellone italico.

Pubblicato il 15 dicembre 2017



Riformisti e radicali/ Lezione tedesca per le sinistre di casa nostra

Pensavo che, alla fine, il tentativo di Piero Fassino di unire il centro-sinistra sarebbe andato in porto. E invece no, è stato un disastro su tutta la linea. Prima l’annuncio che Pietro Grasso avrebbe guidato una lista di sinistra “purosangue”, denominata Liberi e uguali, con dentro Mdp (Bersani-D’Alema-Speranza), Sinistra Italiana (Fratoianni), Possibile (Civati). Poi la notizia della rinuncia di Pisapia, che avrebbe dovuto guidare una lista di sinistra “meticcia”, su cui far confluire un segmento elettorale molto importante: quello di quanti non amano Renzi ma non vogliono disperdere il voto.

Questo doppio fallimento consegna al Pd e al suo leader un problema molto serio: come evitare che, con un Pd sempre più indistinguibile dalla figura di Renzi, l’elettorato di sinistra-sinistra si diriga verso i due unici sbocchi possibili, ovvero Liberi e uguali, il neo-nato partito di Pietro Grasso, e il Movimento Cinque Stelle, che non pochi elettori percepiscono come una formazione di sinistra anomala, ma pur sempre di sinistra. Una percezione, bisogna dire, che le ultime esternazioni di Di Maio rendono tutto sommato plausibile: tassare i ricchi, reintrodurre l’articolo 18, sussidiare i poveri, sono tutte misure che piacciono a una parte non trascurabile dell’elettorato progressista. Non ci fosse quella fastidiosa (e politicamente scorrettissima) critica delle politiche di accoglienza, non ci fosse quell’attenzione ai piccoli imprenditori e al lavoro autonomo, non ci fosse quella un po’ aberrante forma di democrazia del web, il partitone di sinistra-sinistra, sognato da milioni di nostalgici del tempo che fu, ci sarebbe già, perché ci ha pensato Grillo a fondarlo, giusto dieci anni fa.

Ma che cosa sposta, la nascita di Liberi e uguali, avvenuta quasi in simultanea con l’estinzione di Campo progressista, il movimento di Giuliano Pisapia?

La mia impressione è che l’effetto in termini di seggi complessivi per il centro-sinistra potrebbe essere modesto. L’esistenza di una lista di sinistra purosangue, che corre separata dal Pd, tende infatti a produrre due conseguenze di segno opposto: fa perdere seggi nella parte maggioritaria, ma ne fa guadagnare in quella proporzionale. Le simulazioni suggeriscono che diversi candidati Pd potrebbero non farcela a causa della concorrenza fratricida di Liberi e uguali, ma alcuni sondaggi suggeriscono anche che una parte dell’elettorato di sinistra potrebbe scegliere Liberi e uguali anziché il Movimento Cinque Stelle. Quale possa essere il saldo fra questi due movimenti nessuno lo sa, ma il paradosso è che un successo elettorale a due cifre della lista di Grasso dissanguerebbe non solo il Pd ma anche, o forse ancora più, il Movimento Cinque Stelle. Un meccanismo che è già visibile nei sondaggi delle ultime settimane, la maggior parte dei quali vedono i Cinque Stelle in costante discesa.

Ben più importante dell’impatto in termini di seggi, invece, potrebbe rivelarsi l’impatto della nuova lista sugli equilibri parlamentari complessivi, ossia, in definitiva, sul funzionamento del nostro sistema politico. Un successo a due cifre (intorno al 10%) di una lista di sinistra-sinistra, accompagnato da una prestazione mediocre del Pd (fra il 25 e il 30%), renderebbe improvvisamente lo stato della nostra sinistra alquanto simile a quello della sinistra in Germania negli ultimi 12 anni. Lì le forze riformiste, ovvero la somma di socialdemocratici (Spd) e Verdi, devono accontentarsi del 30% circa dei consensi, perché il 10% è congelato in una lista di estrema sinistra (la Linke), nata dalla fusione fra gli ex comunisti dell’Est e gli scissionisti duri e puri della Spd, guidati da Oskar Lafontaine.

E’ forse istruttivo ricordare come quella lista nacque. Oskar Lafontaine negli anni ’90 era stato il presidente della Spd, e aveva contribuito a portare al governo Gerhard Schröder, l’ultimo cancelliere socialdemocratico della storia tedesca prima del lungo regno di Angela Merkel. Ma quel cancelliere, nei primi anni 2000, avrebbe impresso alla politica tedesca una spinta riformista tanto decisiva per la salvezza dell’economia tedesca (allora la Germania era considerata “il malato d’Europa”), quanto indigeribile per la sinistra Spd, ostile alle riforme del mercato del lavoro (le famose riforme Hartz), attuate dal secondo governo Schröder fra il 2003 e il 2005. E’ contro questa svolta riformista radicale (e, aggiungo io, assai coraggiosa) che nasce, in Germania, una sinistra fondamentalista e anti-governativa, che riunisce gli ex comunisti dell’Est e gli scissionisti socialdemocratici.

Da allora la Germania è salva (è l’unico paese dell’euro che ha retto bene alla lunga crisi di questi anni), ma i benefici della svolta riformista sono stati in massima parte incassati dall’opposizione, ossia dal partito popolare (Cdu/Csu) di Angela Merkel, che regna incontrastata da 12 anni, ora con l’appoggio dei socialdemocratici (1° e 3° governo Merkel), ora con quello dei liberali (2° governo Merkel). Ai socialdemocratici, da allora, non è mai più stato possibile guidare un governo, e anche ora, dopo le elezioni del 2017 in cui hanno toccato il fondo (20.5% dei voti), il massimo in cui possono sperare è di partecipare al 4° governo della signora Merkel.

Non c’è bisogno di sottolineare le analogie con la situazione italiana, dove la nascita di una lista di sinistra-sinistra si deve in gran parte al rifiuto delle riforme del mercato del lavoro, peraltro assai più blande di quelle tedesche, attuate da governi di sinistra riformista, e specialmente dal governo Renzi con il Jobs Act; e dove è perfettamente possibile che la presenza stabile di una lista di sinistra purosangue, che sequestra il 10% dell’elettorato, sbarri per lungo tempo alla sinistra riformista l’accesso al governo.

Quel che è più interessante, semmai, sono le differenze con la situazione tedesca. La prima differenza è che, in Germania, le forze genuinamente populiste, rappresentate soprattutto da Alternative für Deutschland di Alice Weidel, raccolgono meno del 15% dell’elettorato, mentre in Italia, in base agli ultimi sondaggi, i tre partiti populisti (Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia) sfiorano il 50%.

La seconda differenza è che, in Germania, il baricentro delle forze riformiste è decisamente spostato a destra, dove i popolari della Merkel e i liberali attraggono il 45% dei consensi, contro il 30% circa di socialdemocratici e verdi, mentre in Italia il baricentro delle forze riformiste è a sinistra, dove il Pd attira il 25-30% dei consensi, e Forza Italia poco più del 15%. Questo significa che un ipotetico governo di Grosse-Koalition (ma, dati i numeri, sarebbe meglio cominciare a chiamarlo di Kleine Koalition, di piccola coalizione) in Italia sarebbe un governo di sinistra allargato alla destra, mentre in Germania – se riusciranno a vararlo – sarà un governo di destra allargato alla sinistra.

La differenza più importante, tuttavia, a me pare ancora un’altra: quando la Merkel ebbe ad insediarsi al potere (2005), il duro lavoro delle riforme più impopolari era già stato in gran parte compiuto dal suo predecessore socialdemocratico, il cancelliere Schröder. In Italia, invece, chiunque governi dopo Renzi erediterà un paese in cui qualcosa (non senza errori e concessioni alla ricerca del consenso) si è cominciato a fare, ma il più deve essere ancora fatto. Il debito pubblico è ancora lì; le tasse sono scese, ma di pochi decimali; il Pil è ripartito, ma ancora troppo lentamente; burocrazia e giustizia civile continuano ad essere un freno alla crescita. Insomma, in Italia il cantiere delle riforme è appena stato aperto, e ci vorranno parecchi anni per raccogliere i frutti del lavoro che si è iniziato a fare.

Quindi, in fondo, la questione è assai semplice. Salvo sorprese, la nascita di una Linke italiana renderà più difficile sia la formazione di un governo Cinque Stelle, sia la formazione di un governo di sinistra, guidato dal Pd. Questo significa che, se escludiamo l’ipotesi di un “governo di unità popolare”, guidato dalla troika Di Maio-Renzi-Grasso, le alternative realistiche in campo restano solo due: una vittoria del centro-destra, o la formazione di un governo di Kleine Koalition Pd-Forza Italia.

Ma in entrambi i casi la mission sarebbe la stessa: portare a termine un lavoro che, con le riforme di questi anni, è soltanto iniziato.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 9 dicembre 2017



L’anomalia italiana/ La Repubblica degli allenatori senza chances di governare

E’ un po’ di tempo che, nei palazzi della politica, e di riflesso sui mezzi di informazione, non si fa altro che parlare del candidato premier dei vari schieramenti. Sembra che sia vitale decidere chi è il candidato premier di ciascuno dei tre schieramenti, e qualcuno (Di Maio) è persino arrivato a ritirarsi da un confronto televisivo perché non era sicuro che il suo interlocutore (Renzi), da lui stesso sfidato a singolar tenzone, sarebbe effettivamente stato il candidato del centro-sinistra. Immagino che, con la stessa ferrea logica, Di Maio si sottrarrà anche al confronto con Berlusconi e Salvini, visto che il candidato premier del centro-destra si conoscerà solo dopo il voto, quando si saprà chi, fra i due, avrà ottenuto più voti.

E’ un dibattitto surreale, però. Non solo perché, finché la Costituzione resta quella che è, le elezioni non servono a scegliere un premier ma a formare un Parlamento, ma per il semplice motivo che chiunque sia scelto come candidato premier dal proprio schieramento ha pochissime possibilità di diventarlo effettivamente. Se uno aspira a diventare Presidente del Consiglio, non dovrebbe brigare per essere il prescelto, ma semmai implorare i suoi di non candidarlo.

E’ difficile, infatti, che nel prossimo parlamento uno dei tre schieramenti abbia la maggioranza dei seggi sia alla camera sia al Senato. Ed è ancora più difficile che, in mancanza di una maggioranza politica omogenea, il premier su cui i partiti dovranno convergere possa essere, anziché una figura di mediazione, il candidato premier di uno solo dei tre schieramenti. E’ questa, per inciso, la ragione per cui sempre più sovente si sente evocare la figura di Gentiloni, immagine vivente di prudenza, mediazione, moderazione, understatement.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui, a mio parere, l’ossessione per la designazione  dei candidati premier è abbastanza fuorviante. Il dibattitto sui candidati premier sembra ignorare che oggi quasi tutto il potere politico, inteso come potere di nomina e di investitura, è in mano a tre personaggi, ovvero Renzi, Grillo e Berlusconi, nessuno dei quali siede in Parlamento, e nessuno dei quali trae il suo potere dal ruolo di candidato premier.

Grillo non vuole fare il premier, Berlusconi non può farlo (la Corte di Strasburgo si pronuncerà fuori tempo massimo), a Renzi piacerebbe tantissimo ma sfortunatamente ha ottime possibilità di essere stoppato dai suoi, o dai suoi alleati, chiunque essi siano. Ve lo immaginate un governo Renzi sostenuto da Mdp? O un governo Renzi sostenuto da Forza Italia? O un governo Renzi con l’appoggio dei Cinque Stelle?

Forse dovremmo smettere di arrovellarci sull’indicazione del premier, come se fossimo ancora nella seconda Repubblica, in cui la finzione dell’elezione diretta, pur non avendo alcun appoggio nel nostro assetto costituzionale, almeno ne aveva uno nella legge elettorale, che in entrambe le sue varianti (mattarellum e porcellum) forniva un certo impulso al bipolarismo, nonché alla formazione di maggioranze in Parlamento.

Ma ora?

Ora, dicono alcuni, si torna alla prima Repubblica. La maggioranza che ci governerà sarà il frutto di accordi fra partiti, e anche il Capo dello Stato, cui spetta indicare il presidente del Consiglio, di quegli accordi dovrà prendere atto.

Apparentemente è proprio così. Però ci sono due novità cruciali, rispetto alla logica della prima Repubblica. La prima è che allora (fino al 1992), a fronte di un elettorato statico e diffidente con i comunisti, i governi erano effettivamente espressione delle scelte degli elettori, e quel che i partiti (attraverso il Parlamento) decidevano era solo il mix di satelliti che avrebbero ruotato intorno alla Dc. Ora invece, con un sistema politico tripolare, se nessuno dei tre schieramenti prevarrà sugli altri due, gli accordi parlamentari non decideranno i dettagli, bensì la sostanza. Oggi può sembrare fanta-politica, e tutti i diretti interessati si affretterebbero a escluderlo, ma in assenza di un vincitore i negoziati fra partiti potrebbero partorire tranquillamente: un governo Pd-Forza Italia, un governo Lega-Forza Italia-Pd, un governo Cinquestelle-Lega, un governo Cinquestelle-Mdp, un governo Pd-Cinquestelle.

C’è però anche un’altra, forse più importante novità, rispetto alla prima Repubblica: l’accentramento del potere di scelta dei candidati. Mentre ci chiediamo chi sarà il prossimo premier, rischiamo di non accorgerci che quella in cui stiamo entrando non è la prima Repubblica ma è, mi si permetta l’espressione, la Repubblica dei trainer. Dove i trainer, gli allenatori, sono tre-quattro leader, che per una ragione o per l’altra assai difficilmente faranno il premier, ma in compenso hanno potere di vita e di morte sulle carriere dei loro giocatori. Perché se è vero che chi entrerà in Parlamento lo decideranno gli elettori con il loro voto, è ancor più vero che il diritto di giocare la partita, e le possibilità di successo con cui la si gioca, sono nelle mani degli allenatori. Tutti rigorosamente fuori del Parlamento.

E’ sempre stato così? Sì, ma mai in questa misura, mi pare. Finché ci sono stati partiti veri, in Parlamento si arrivava al termine di un cursus honorum, fatto di tappe, responsabilità, esperienze amministrative. Oggi ci si arriva in modo più diretto e rapido, spesso per fedeltà a un capo, a una corrente, a una cordata, ma altrettanto repentinamente si può finire in panchina, o semplicemente fuori squadra. Tutto dipende dall’allenatore.

Articolo pubblicato su Il Messaggero



Adesso pensiamo alla Povertà

Sono convinto che, alle prossime elezioni politiche, si parlerà soprattutto di tre cose: immigrazione, flat tax, reddito di cittadinanza.

I discorsi sull’immigrazione sono prevedibili. La destra chiederà di fermare il caos degli ingressi, la sinistra dirà che è difficile, e abbiamo il dovere dell’accoglienza. Il copione è quello di sempre, solo i numeri sono radicalmente diversi da quelli del passato.

I discorsi sulla flat tax (stessa aliquota per tutti i redditi), invece, sono meno prevedibili, perché estremamente tecnici. Quel che è prevedibile è che il grande pubblico non riuscirà a capire quali proposte stanno in piedi e quali no. La sinistra dirà che la flat tax è incostituzionale, la destra spiegherà perché non è vero che lo sia. Gli appassionati discuteranno se l’aliquota di equilibrio possa essere il 15%, il 20% o il 25%, ma alla fine, probabilmente, non se ne farà nulla.

Diverso il caso del terzo tema, quello del reddito di cittadinanza. Tutto fa pensare che di questo parleremo a lungo e appassionatamente, per due buoni motivi. Il primo è che qualsiasi proposta di sostegno del reddito suscita interesse e può essere spiegata in modo comprensibile. Il secondo è che il tema è decisamente attuale, se non altro perché diversi partiti (fra cui il Movimento Cinque Stelle) hanno depositato proposte di legge.

Ecco perché è importante capire esattamente di che cosa parleremo, senza farsi ingannare dalle parole. Naturalmente ciascuno è libero di chiamare le cose come vuole, ma – se ci si vuole capire – non è mai una buona idea quella di chiamare in modo eguale cose diverse, o chiamare in modo diverso cose eguali. Meglio attenersi al significato ordinario, e quindi più condiviso, delle parole. Ecco dunque un piccolo glossario.

Per reddito di cittadinanza, o reddito di base, si intende un reddito che è fornito a tutti i cittadini, senza condizioni, e permanentemente. Il reddito di cittadinanza è erogato agli individui, ed è del tutto indipendente dalle condizioni economiche o di lavoro del singolo o della sua famiglia. Lo prende Berlusconi e lo prende il clochard, lo prende il politico e lo prende l’operaio.

Le definizioni più dettagliate di che cosa si debba intendere per reddito di cittadinanza possono differire solo su due punti importanti: da che età lo si percepisce (nascita, maggiore età) e che cosa succede quando si raggiunge l’età della pensione.

La proposta di Grillo di un “reddito di cittadinanza”, come vedremo fra poco, non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza vero e proprio.

Per reddito minimo, o reddito minimo garantito, si intende invece un reddito riservato a quanti si trovano sul mercato del lavoro e non raggiungono un livello di reddito sufficiente per vivere. La differenza principale con il reddito di cittadinanza è che per usufruire del reddito minimo occorre essere poveri (a livello individuale o familiare) e disponibili ad accettare proposte di lavoro o di formazione. A qualche forma di reddito minimo possono accedere i disoccupati e i sottoccupati, ma non casalinghe, studenti, e più in generale quanti, pur abili al lavoro e in condizione di povertà, non sono disposti ad accettare offerte di lavoro.

La proposta di Grillo di reddito di cittadinanza è, in buona sostanza, una proposta di reddito minimo garantito, anche se con alcune peculiarità.

Il reddito di cittadinanza non esiste in alcun paese del mondo, salvo l’Alaska in cui tuttavia quel che c’è non è un vero reddito di cittadinanza ma un bonus dell’ordine di 150 dollari al mese, largamente al di sotto della soglia di povertà.

Forme di reddito minimo esistono invece in tutti i paesi dell’Unione Europea, salvo la Grecia e l’Italia.

Quel che esiste nel nostro paese è una miriade di forme di sostegno del reddito, che tuttavia sono del tutto prive del requisito dell’universalità, in quanto riservate a specifiche categorie di persone individuate su base lavorativa, settoriale, residenziale, sanitaria. Nel loro insieme queste misure, a differenza di quelle previste dal reddito minimo, non sono sufficienti a proteggere gli individui e le famiglie dal rischio di cadere al di sotto della soglia di povertà. Possiamo chiamare reddito sub-minimo il sistema di sussidi previsto in paesi come l’Italia e la Grecia.

Le differenze fra reddito di cittadinanza e reddito minimo sono almeno tre. La prima è il costo dell’erogazione: in un paese come l’Italia qualsiasi forma di vero reddito di cittadinanza costerebbe circa 300 miliardi e sfascerebbe i conti dello Stato, mentre l’introduzione di qualche tipo di reddito minimo costerebbe fra i 10 e i 20 miliardi (la versione del Movimento Cinque Stelle ne costa 16). La seconda differenza è il costo di gestione: il reddito di cittadinanza, non essendo soggetto a verifiche di alcun tipo, ha un costo di gestione irrisorio, il reddito minimo ha un costo di gestione molto alto, perché inevitabilmente fa crescere un apparato di controlli, funzionari pubblici, scuole di formazione, centri per l’impiego che, rischi di corruzione e abusi di potere a parte, assorbe una frazione notevole delle risorse destinate al reddito minimo. Chi vuol farsi un’idea di quel che può succedere quando un apparato pubblico si occupa del nostro (presunto) benessere può vedere il film di Ken Loach, Io, David Blake, che puntualmente descrive le storture e le aberrazioni dei centri per l’impiego inglesi.

La differenza più importante, tuttavia, è la terza, ed è di natura filosofica. L’idea implicita nel reddito di cittadinanza, ossia di introiti fissi, permanenti e intoccabili, è di sottrarre la scelta di lavorare o meno a calcoli sui sussidi che si potrebbero acquisire o perdere a seconda delle proprie scelte lavorative. Il problema è che il reddito di cittadinanza costa troppo, mentre quello minimo porta inevitabilmente a extra-costi burocratici, nonché a innumerevoli storture e inefficienze.

La sfida è trovare un meccanismo che costi come il reddito minimo, ma funzioni in modo automatico come il reddito di cittadinanza. Sfortunatamente né la proposta Cinque Stelle, che è una proposta di reddito minimo iper-burocratica, né le misure varate dal Governo Renzi, che sono semplici misure di reddito sub-minimo, rispondono all’obiettivo che le politiche contro la povertà dovrebbero porsi: sradicare la povertà, farlo senza alimentare sprechi e comportamenti opportunistici.

Pubblicato su Panorama il 19 gennaio 2017



Non illudiamoci: il bipolarismo non ritornerà

I risultati delle elezioni amministrative dell’11 giugno (ancora parziali, in attesa degli esiti dei ballottaggi di domenica 25 giugno) hanno suscitato non poche sorprese.

Non tutti, ad esempio, si aspettavano il notevole recupero del centro destra, anche se alcuni sondaggi avevano già registrato una certa ripresa dei partiti che ne fanno parte (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia). Né era facile immaginare che il centro destra potesse risultasse nettamente in testa in due province liguri importanti come Genova e La Spezia.

Ma la vera sorpresa, credo un po’ per tutti, è stato il flop del Movimento Cinque Stelle. Dopo i grandi successi delle precedenti amministrative, con la conquista di Roma (Virginia Raggi) e Torino (Chiara Appendino), era difficile attendersi una piena conferma della forza del Movimento Cinque Stelle, se non altro per la manifesta inadeguatezza della sindaca della Capitale; ma altrettanto arduo era immaginare un tracollo di proporzioni così ampie come quelle fatte registrare domenica 11 giugno.

Perché?

Una ragione, tutto sommato la meno preoccupante per i Cinque Stelle, è che il radicamento del partito di Grillo è quello che è, ovvero quasi inesistente. La fede cieca nelle virtù (e nell’autosufficienza) del circuito chiuso della rete non ha certo favorito la presenza – presenza fisica, non virtuale – degli esponenti del movimento fra la gente. C’è poi la autolesionistica norma che limita il numero di mandati, e induce vari politici Cinque Stelle a cercare innanzitutto di arraffare un posto in Parlamento, prima che scada il tempo concesso a ciascuno di essi.

Però il fattore che dovrebbe preoccupare Grillo e i suoi è un altro. Le elezioni amministrative hanno dimostrato che l’elettorato italiano è fluido, fluidissimo. E l’elettorato Cinque Stelle lo è in sommo grado. Guardate che cosa è successo a Genova, dove il candidato del centro destra unito (dagli “estremisti” della Lega ai “moderati” di Alleanza Popolare) Marco Bucci è in testa. I flussi ricostruiti dall’Istituto Cattaneo con il cosiddetto modello di Goodman, un dispositivo matematico-statistico che permette di calcolare “chi ha votato chi”, ovvero quali sono stati gli spostamenti di voto fra due elezioni, mostrano che il candidato Cinque Stelle non è riuscito a intercettare nemmeno metà dei voti che avevano attirato i suoi predecessori, né in occasione delle precedenti comunali (2012), né in occasione delle precedenti politiche (2013). Molti voti Cinque Stelle delle comunali 2012 sono finiti al candidato del centro-destra, molti voti dei Cinque Stelle alle politiche 2013 sono finiti nell’astensione.

E’ questo, forse, il vero tallone d’Achille dei Cinque Stelle. Il voto al partito di Grillo è un voto che può espandersi in qualsiasi momento, complice il discredito degli altri partiti. Ma è anche un voto che in qualsiasi momento può contrarsi, sgonfiarsi, implodere. Come dimostrano gli insuccessi delle ultime amministrative, che hanno coinvolto anche il Sud, da qualche anno roccaforte elettorale dei grillini.

Questo, per i Cinque Stelle, è il vero rischio delle prossime elezioni politiche. E’ vero che, a livello nazionale, conterà di meno il radicamento nei territori, e conteranno di più le idee generali, che ai Cinque Stelle non mancano, e che sono in perfetta sintonia con l’umore del Paese: controllo dei flussi migratori, reddito garantito per chi non ha un lavoro. E’ anche vero, però, che per conferire a una forza politica o a una coalizione un mandato di governo nazionale i cittadini pretendono qualcosa di più di quanto i Cinque Stelle attualmente offrono.

E’ probabile che i prossimi mesi vedano un ritorno delle tensioni sui tassi di interesse dei titoli di Stato e sullo spread, innescato dalla cattiva gestione dei nostri conti pubblici (è di questi giorni la notizia di un ulteriore incremento del debito pubblico). Rispetto a questa spada di Damocle i Cinque Stelle sono scoperti, perché l’uscita dall’Euro non è certo la soluzione del problema del debito, e i leader che il Movimento sembra intenzionato a candidare alla guida del paese tutto sono tranne che figure di timonieri navigati e rassicuranti.

Forse, se qualcosa suggeriscono gli esiti delle amministrative, è che in una situazione in cui tutte le forze politiche hanno stancato l’elettore, la differenza la possono fare le persone. E’, in fondo, la lezione di Genova, dove i cittadini hanno conferito fiducia a un manager di successo. Ma è anche, forse, la lezione del voto francese, dove, quale che sia il nostro giudizio su Macron (il mio non è certo entusiasta), sta di fatto che il successo è dipeso dal singolo, non certo dal contorno di forze che l’hanno appoggiato.

Da questo punto di vista non solo i Cinque Stelle, ma tutti e tre i poli che si contendono il governo dell’Italia, non sono messi bene. La sinistra è guidata da un ex ragazzo, innamorato di sé stesso e del tutto incapace di vedersi dall’esterno (se lo fosse, farebbe meno battute, e non prevaricherebbe sistematicamente l’interlocutore). La destra è ostaggio dei conflitti fra Forza Italia e Lega, con due leader che si elidono a vicenda, e a quanto pare non intendono comprendere che solo una figura nuova, che si collochi al di fuori delle vecchie contrapposizioni, può ridare slancio al centro destra.

In questa situazione lo scenario più probabile mi pare questo: dopo i ballottaggi penseremo per un attimo che sia tornato il bipolarismo destra-sinistra, salvo risvegliarci fra un anno, dopo le elezioni politiche (marzo 2018?), con l’amara realtà di un parlamento tripolare, in cui non c’è alcuna maggioranza in grado di dare un governo al Paese.

Pubblicato su Panorama il 22 giugno 2017