Lo scivolamento a Sud delle Marche. Prima l’economia, adesso la politica

La mappa per regione dei risultati della recente consultazione elettorale divide l’Italia in due – fra centro-destra e movimento Cinque Stelle– sbiadendo o indebolendo l’idea di un’Italia divisa in tre: il nord-ovest, il nord-est centro e il mezzogiorno. Questa suddivisione era stata proposta nel 1977 dal sociologo Arnaldo Bagnasco, all’epoca all’Università di Firenze, in un libro che si intitolava appunto ‘Le tre Italie’. La tesi dello studio ribaltava l’idea, fino ad allora consolidata, di un’Italia divisa in due fra un nord sviluppato e un sud arretrato. Secondo Arnaldo Bagnasco, l’Italia era divisa in tre: da una parte il nord-ovest, area di prima industrializzazione dominata dalla grande impresa; dall’altra il sud, economicamente arretrato e con basso tasso di industrializzazione; in mezzo le regioni del nord-est e del centro. Che non erano semplicemente in una situazione intermedia fra le due ma erano caratterizzate da un peculiare modello economico, frutto di una più recente industrializzazione e basato su imprese di piccola e media dimensione.

L’idea non era del tutto nuova. Già nel 1974, in un convegno organizzato dalla Fondazione Aristide Merloni ad Ascoli Piceno si era parlato di ‘via Adriatica allo sviluppo’ notando le similitudini nell’organizzazione delle imprese e delle attività industriali nelle regioni che si affacciavano sull’Adriatico; a partire da quelle del Nord-est fino alle Marche. Queste prime intuizioni trovarono una più robusta sistemazione teorica nei primi anni ’80 con la stilizzazione del ‘modello NEC’ (Nord-est centro) da parte di Giorgio Fuà (fondatore della Facoltà di Economia ad Ancona) e con la riscoperta e rivitalizzazione della categoria del distretto industriale da parte di Giacomo Becattini (economista dell’Università di Firenze). In tutti questi autori era ben salda la convinzione che a caratterizzare la ‘terza Italia’ (come veniva definita nel libro di Bagnasco) non fosse solo l’economia, e in particolare la struttura industriale, ma anche l’organizzazione sociale e i valori fondanti le comunità locali. Non è un caso che tutti questi autori fanno risalire le peculiarità della terza Italia a caratteri strutturali di lungo periodo; in particolare l’organizzazione agricola preesistente all’espansione industriale, fondata sul sistema mezzadrile e sulla piccola proprietà coltivatrice. La famiglia colonica, diffusa in queste regioni, avrebbe fatto da incubatore del sistema di industrializzazione diffusa affermatosi nel secondo dopoguerra. Queste peculiarità dell’organizzazione economica e sociale si traducevano anche in specifici orientamenti politici, significativamente diversi nelle regioni della terza Italia rispetto a quelle delle altre due aree. Le differenze, come noto, erano particolarmente evidenti nelle regioni cosiddette ‘rosse’: Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche.

Non mancavano e non mancano, ovviamente, le differenze fra le regioni della terza Italia, sia sul piano dello sviluppo industriale sia sul piano sociale. Tuttavia, gli elementi di similitudine sembravano prevalenti. Fra questi anche la rilevanza delle istituzioni ‘intermedie’, dai partiti alle associazioni e alle istituzioni locali, che hanno svolto un ruolo rilevante di indirizzo e rappresentanza soprattutto nelle regioni, come le Marche, dove lo sviluppo industriale è avvenuto in assenza di significativi interventi da parte dello stato centrale.

I confini di questa ‘terza Italia’ sembrano del tutto cancellati dalla distribuzione delle quote fra i principali schieramenti nelle ultime elezioni politiche; se si eccettua la tenuta del centro- sinistra in alcuni collegi della Toscana e della Romagna. Per il resto prevale una spaccatura del paese fra centro destra al centro-nord e movimento cinque stelle al sud. Il taglio, però, non è lungo la linea est-ovest poiché la prevalenza del Movimento Cinque Stelle risale lungo la linea adriatica fino a Pesaro. Nella generale prevalenza della volontà di cambiamento le Marche sono accomunate alle regioni del sud nell’espressione del disagio sociale ed economico piuttosto che alle istanze delle regioni più sviluppate del nord.

Negli scorsi mesi alcuni commentatori su questo giornale (‘Corriere Adriatico’ ndr) hanno evidenziato il rischio di un progressivo ‘scivolamento’ delle Marche verso le regioni del sud Italia, per effetto delle difficoltà indotte dalla lunga crisi. I risultati elettorali sembrano fornire conforto a questa tesi. Non del tutto fondata se si considerano i livelli dei principali indicatori economici e sociali, che rimangono ancora decisamente superiori rispetto alle regioni del mezzogiorno. I risultati elettorali dimostrano però che non sono tanto i livelli degli indicatori a contare quanto piuttosto la loro variazione, che negli ultimi anni è stata quasi sempre in negativo. È mia convinzione che la situazione di disagio, sociale ed economico, è accentuata non solo dall’andamento recente dell’economia ma anche dalla mancanza di prospettive per il futuro. Alla crisi del ‘modello marchigiano’ non si è ancora sostituita una visione delle nuove prospettive di sviluppo; e, di conseguenza, di una strategia capace di indicare obiettivi e mobilitare risorse. È la principale sfida che attende le nuove élite politiche, al governo come all’opposizione.

Articolo pubblicato sul Corriere Adriatico il 7 marzo 2018



Elezioni, mai così difficile scegliere

Il sentimento che domina queste elezioni a me pare lo smarrimento. Non ho mai sentito così tante persone dubbiose, incerte, poco convinte. Inondati dalle promesse elettorali, la maggior parte degli italiani si apprestano ad andare al voto sapendo perfettamente che nessun partito potrà mantenerle, quelle promesse.

Ma il nostro scetticismo è, questa volta, alimentato anche da un elemento nuovo: non solo, come sempre, ben poco di ciò che si è promesso sarà mantenuto, ma è molto probabile che, la sera del voto, non avremo la minima idea di che governo si potrà insediare da lì a qualche settimana (sempre che il presidente della Repubblica non rimandi tutti a casa).

La ragione di questa incertezza è strutturale. Ed è che il nostro sistema politico, anche grazie alla nuova legge elettorale, è improvvisamente diventato quadripolare. Era bipolare durante la seconda Repubblica, ai bei tempi in cui dovevi solo scegliere fra destra e sinistra, era parso trasformarsi in un sistema tripolare con l’avanzata dei Cinque Stelle, ma oggi non è né l’una cosa né l’altra. Oggi non solo ci sono quattro partiti importanti, ovvero Cinque Stelle, Pd, Forza Italia, Lega, ma sono divenuti ben quattro i governi possibili: Forza Italia e Lega, Pd e Forza Italia, Cinque Stelle e Pd, Cinque stelle e Lega.

Ovviamente tutti i protagonisti lo negheranno risolutamente, ma questa è la realtà. Ed è una realtà che ha radici psicosociali profonde: è dal 1993 che, nelle teste degli elettori, lo spazio elettorale non è più unidimensionale, con tutti i partiti allineati sul continuum destra-sinistra, ma è bidimensionale. Accanto all’alternativa destra-sinistra la gente percepisce altre dicotomie: durante la seconda Repubblica soprattutto la dicotomia fra radicali e moderati, negli ultimi anni essenzialmente la contrapposizione fra populisti (anti-europei) e riformisti (pro-Europa) o, su un piano più astratto, la competizione fra forze della chiusura e forze dell’apertura, fra chi teme la globalizzazione e i suoi effetti e chi la percepisce prevalentemente come un’opportunità.

Per capire la situazione in cui ci troviamo conviene immaginare i quattro maggiori partiti come collocati intorno a una tavola rotonda, dove non esiste capotavola ma ogni commensale può stringere alleanze con uno dei suoi due vicini.

La geometria dello spazio elettorale

Partiamo dalla Lega: se si muove in senso orario incontra Forza Italia con cui condivide la collocazione a destra. Ma se si muove in senso antiorario incontra il Movimento Cinque Stelle, con cui condivide il populismo e l’ostilità alle autorità europee. A sua volta il movimento Cinque Stelle è “seduto” fra Lega e Pd, e quindi può muoversi sia verso la prima sia verso il secondo. Il Pd può guardare al Movimento Cinque Stelle (magari con l’intercessione di Liberi e Uguali) oppure verso Forza Italia, a seconda che voglia far prevalere la sua anima di sinistra o il proprio europeismo. E infine Forza Italia può stare con il suo alleato dichiarato, la Lega di Salvini, oppure con il suo cripto-alleato, il Pd di Renzi. In un sistema quadripolare, come il nostro è diventato, le uniche alleanze tassativamente escluse sono fra partiti che risultano opposti sia sull’asse destra-sinistra, sia su quello di populismo-europeismo. Di conseguenza le coppie incompatibili sono solo due: Cinque Stelle e Forza Italia, Pd e Lega.

Ne segue che ognuno dei 4 partiti principali ha 2 modi di andare al governo. È questo che rende difficile scegliere un partito. Se voti Cinque Stelle non sai se stai aiutando la formazione di un governissimo di sinistra o di un fronte populista con la Lega. Se dai il tuo voto alla Lega, non sai se lo userà per fare un governo con Forza Italia o con i Cinque Stelle. Se dai un voto al Pd non sai se ne verrà fuori un governissimo con i Cinque Stelle (magari con un nuovo segretario al posto di Renzi) oppure un governo di “strette intese”, o Kleine Koalition, Pd-Forza Italia. Se, infine, dai il tuo voto a Forza Italia non sai se verrà usato per fare un governo con la Lega o con il Pd.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in una repubblica parlamentare (con alte dosi di proporzionalismo), è sempre così: l’elettore esprime un voto, ma i giochi si fanno in Parlamento. C’è anche un precedente storico, quello della “politica dei due forni” praticata dal partito socialista, spesso alleato della Dc a livello nazionale, e al governo con il Partito comunista a livello locale. Ma il punto è che ora di forni ce ne sono ben quattro, e questo fa sì che quattro siano anche i partiti che possono aspirare a fungere da ago della bilancia.

Ecco perché ci sentiamo esautorati. Noi possiamo anche scegliere il partito che ci piace di più, ma non possiamo sapere con chi quel partito si alleerà. Questo è grave perché, per molti di noi, una delle sue due alleanze possibili è accettabile, l’altra no. Così ci ritroviamo coinvolti in una doppia scommessa: dobbiamo sperare che il nostro partito raccolga molti voti, ma anche che non li usi male, scegliendo quello che a noi pare l’alleato sbagliato. E, cosa importante, questo riguarda tutti e quatto i partiti principali, proprio perché, nella nostra tavola rotonda ideale, ogni commensale ha due vicini.

Che cosa possiamo fare, in questa situazione?

Solo una cosa, credo. Se abbiamo deciso di andare a votare, dobbiamo farci la domanda delle domande: non già qual è il partito che più ci piace, ma qual è quello che più ci inquieta, quello che riteniamo più dannoso per il paese. Perché, una volta che abbiamo risposto a questa domanda, anche la nostra scelta diventa relativamente agevole, per non dire obbligata: basta dare il voto all’unico partito che, per la sua “posizione a tavola”, non può allearsi con il nostro partito più temuto.

Tabella di decisione

Spiace ammetterlo, ma la realtà è proprio questa: è vero che votando uno dei quattro maggiori partiti rendiamo possibili ben due governi, ma è altrettanto vero che ne escludiamo altri due.

Il grave è che i governi che il voto di ognuno di noi contribuisce a rendere possibili non sono varianti del medesimo progetto politico, ma possono essere radicalmente diversi. E’ questa la più importante differenza fra oggi e il passato. Sono abbastanza vecchio da ricordare la campagna elettorale del 1963, quando si trattava di decidere se i socialisti sarebbero andati al governo con la Dc. E ricordo persino lo slogan del partito che meno desiderava quella soluzione, il partito liberale di Giovanni Malagodi: “la Dc dirà di no ai socialisti se voi direte di sì ai liberali”. Ma, come si vede, erano piccole differenze, che sarebbero completamente scomparse in futuro, quando, con il “pentapartito”, i socialisti e i liberali avrebbero finito per governare insieme.

Oggi no. Oggi il governo che può uscire dal nostro voto può essere molto, ma molto diverso da ciò che ci auguriamo. E’ questo che alimenta il nostro smarrimento. Ed è questo che deve farci riflettere: prima di dare il voto a un partito chiediamoci con chi potrebbe allearsi, e con chi non potrebbe farlo. Solo così possiamo proteggerci dalle delusioni più cocenti.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 03 marzo 2018.




Vademecum elettorale

In allegato il Vedemecum elettorale con l’analisi delle promesse dei partiti in vista delle prossime elezioni. L’allegato contiene anche i sei articoli pubblicati da Luca Ricolfi su “Il Messaggero” nelle ultime settimane.

Vademecum Elettorale per il 4 marzo

 




Tanti sondaggi, poche certezze

Escono in questi giorni gli ultimi sondaggi pre-elettorali, prima che il blackout informativo ne impedisca la pubblicazione, nei 15 giorni precedenti il voto del 4 marzo prossimo. Che questo silenzio giovi realmente agli elettori, per evitare che vengano condizionati, è materia discutibile. Tanto più che in questi ultimi tempi (ma spesso anche nel passato più remoto) le stime di voto vivono una forte crisi di credibilità, un po’ in tutto il mondo, e quindi il possibile condizionamento si baserebbe su risultati a volte poco attendibili.

L’esempio più eclatante lo abbiamo avuto proprio in occasione delle scorse politiche, quelle del 2013, quando le anticipazioni demoscopiche, ad un paio di settimane dalla consultazione, sovrastimarono di almeno cinque punti il Partito Democratico di Bersani, sottostimando nel contempo la performance del MoVimento 5 stelle. Previsioni non attendibili che effetto hanno dunque sugli indecisi?

In attesa di studi più articolati in merito, concentriamoci allora sulle cause degli errori di stima, che sono tante, e delle quali ho parlato qualche anno fa in un mio libricino (“Attenti al sondaggio!”) che è sempre utile rileggersi, in prossimità di una competizione elettorale. Tre sono forse le principali: la difficoltà di avere a disposizione campioni realmente rappresentativi della popolazione, soprattutto dopo l’avvento massiccio della telefonia mobile e l’utilizzo di interviste su Internet; l’indecisione o, a volte, le menzogne consce e inconsce dei rispondenti sul proprio orientamento di voto; il costo elevato di rilevazioni demoscopiche che debbano andare in profondità su ambiti territoriali molto ristretti, come ad esempio i collegi elettorali.

Sul primo fattore, sul tema della rappresentatività campionaria, sono corsi nel passato fiumi di parole, accademiche o giornalistiche, senza mai giungere a conclusioni utilizzabili dal punto di vista empirico. Per cui tutto è rimasto sostanzialmente identico al passato: campioni di un migliaio di casi, che rispecchino in qualche modo le caratteristiche principali della popolazione, sembrano ormai venir giudicati sufficienti per fornire stime attendibili. Che sia vero o meno, pare non importare più a nessuno, nemmeno dopo la grande rivoluzione provocata dalla costante decrescita dei telefoni fissi e dal crescente utilizzo di Internet come strumento di rilevazione.

Mutamenti questi ultimi che ci portano direttamente al secondo fattore, legato alle dichiarazioni di voto: chi maneggia i dati di sondaggio sa bene che i risultati delle indagini telefoniche sono spesso molto differenti da quelli desunti dalle risposte telematiche (i 5 stelle sono sempre più forti nel secondo caso, Pd e Forza Italia nel primo) e che il numero ed il tipo di dichiarazioni di astensione, o di indecisione, sono condizionate dalla presenza o meno di un intervistatore. Anche in questo caso, sappiamo poco degli effetti comparati dei due strumenti ma, di nuovo, facciamo a volte finta di nulla.

Infine, supponendo per un momento che si riescano a risolvere, in qualche modo, i due primi fattori di distorsione, è proprio il terzo punto quello su cui le difficoltà paiono a volte insormontabili. Negli ultimi mesi, dopo che è stato finalmente approntato lo schema definitivo del nuovo sistema elettorale del cosiddetto Rosatellum, non passa giorno che qualche quotidiano, on-line o cartaceo, non ci proponga una simulazione di quale potrebbe essere il risultato elettorale in ciascuno dei 232 collegi della camera o nei 116 del senato.

Come è possibile arrivare a tale stima? Di primo acchito, pare proprio impossibile. Per avere stime corrette degli oltre 200 collegi, occorrerebbe intervistare campioni significativi in ciascuno dei territori su cui gravitano questi collegi. Supponiamo che bastino un migliaio di interviste in ognuno di questi. E, per inciso, lo supponiamo solo, perché in realtà in ogni sondaggio elettorale abbiamo sempre una quota di circa il 35-40% di intervistati che si dichiara astensionista oppure incerto, e le nostre stime si baseranno su 600-650 rispondenti, oggettivamente un po’ poco.

Ma supponiamo per un momento che bastino. Dovremmo intervistare un numero di elettori pari a 232mila, mille per collegio. Dato che il costo di un sondaggio di un migliaio di casi non potrà essere inferiore a 5mila euro, anche perdendoci qualcosa, dovremmo avere a disposizione un budget complessivo di oltre un milione di euro. Sì, avete letto bene: per la precisione, si tratta di 1 milione e 160mila euro.

Ovviamente impossibile a realizzarsi. Come ci si orienta, dunque, per fornire comunque stime che dovrebbero essere attendibili? Con un paio di stratagemmi. Il primo è questo: si definiscono già sicuri un numero piuttosto elevato di collegi, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, e si effettuano sondaggi soltanto sui collegi incerti, in genere tra gli 80 e i 100. Anche in questo caso il costo, seppur più che dimezzato, sarebbe vicino al mezzo milione. E nessuno ha tutti questi soldi. Allora si dimezzano le interviste, producendo risultati altamente inattendibili: dato che il collegio è incerto, con 3-400 interviste valide quel collegio rimarrà sicuramente incerto, tranne in casi eccezionali.

Secondo stratagemma. Si prendono in considerazione i flussi di voto dall’ultima elezione agli orientamenti di voto odierno, a livello ad esempio regionale. Si applicano poi i risultati di ciascuna matrice di flusso ai singoli collegi di ognuna delle regioni. Anche in questo caso i risultati che usciranno saranno altamente aleatori, vista la competizione serrata in molti dei collegi uninominali, senza considerare il possibile richiamo che ognuno dei candidati potrebbe esercitare nel suo collegio.

L’unica strada alternativa da percorrere sarebbe quella di utilizzare le migliaia e migliaia di interviste effettuate nel corso degli ultimi due anni, e suddividerle per i 232 collegi. Ma pochissimi istituti di ricerca hanno un così ingente data-base su cui far riferimento, e anche in questo caso, poco sapremmo sugli eventuali cambiamenti nell’orientamento di voto dell’ultimo periodo pre-elettorale. Ecco perché a quello che ci raccontano, se non in casi sporadici, non possiamo credere troppo. Non ci resta che attendere tranquillamente i veri risultati delle elezioni. In fondo, non manca poi molto.

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 4 febbraio sul sito de “Gli Stati Generali”



A 40 giorni dal voto, un governo torna possibile

Le liste dei candidati sono ormai pronte. Le consuete polemiche (come peraltro sempre accadeva già ai tempi del Mattarellum) hanno accompagnato le scelte dei nomi e dei territori a questi associati. Polemiche che rientreranno in poco tempo, per concentrarsi sulle previsioni di voto in ciascun dei collegi, per comprendere le chance di vittoria una volta formalizzata l’offerta politica. Casini riuscirà a vincere nel senato bolognese? e Boschi convincerà gli elettori sudtirolesi? e Di Maio sarà profeta in patria? Domande che ci tormenteranno per qualche settimana.

Molti degli analisti elettorali –sia in privato che in pubblico- sembrano essere convinti che nella competizione per le prossime politiche i giochi siano ormai fatti, e che la campagna elettorale non riuscirà a modificare, se non in minima parte, le attuali tendenze di voto. Una campagna che resterà quindi tutto sommato ininfluente, nonostante le centinaia di promesse che quotidianamente tutte le forze politiche si affrettano ad elargire agli italiani.

I sondaggi ci raccontano dunque di un centro-destra in gran spolvero, destinato a vincere il duello maggioritario, quello che vede protagoniste le coalizioni, e di un Movimento 5 stelle ormai sicuro vincitore della tenzone proporzionale, dove protagoniste sono le liste, prese separatamente. Dunque: centro-destra oltre il 35% e M5s vicino al 30%, con il Pd ed il centro-sinistra in affanno, perdenti in entrambi i rami del Rosatellum.

Ma, in termini di seggi, tutti sono concordi che nessuna forza politica, né singola né coalizionale, potrà arrivare ad una soglia tale da permettere la formazione di un governo di maggioranza nel parlamento. Nessuno riuscirà quindi ad avvicinarsi a quel fatidico 40% dove ci sarebbe spazio per correre da soli. Ci aspetterebbero allora esecutivi di minoranza, ovvero un governo del Presidente, prevalentemente tecnico o di larghe intese, per andare presto a rivotare, forse con una nuova legge elettorale di stampo più maggioritario.

Molti sono di questo avviso, dicevo, ma non tutti. Il politologo Paolo Feltrin, ad esempio, non è completamente convinto che i giochi siano chiusi, anzi: ritiene infatti che le dichiarazioni di voto odierne nascondano orientamenti più profondi e sedimentati che usciranno più facilmente nel momento del voto. Citando la cosiddetta “fedeltà leggera”, egli ipotizza che una quota significativa tra gli elettori di centro-sinistra faticherà ad abbandonare la propria antica parte politica, Renzi o non-Renzi, a favore dei 5 stelle o dell’astensionismo.

Potrebbero nascondere la propria vera indole a chi li interroga, in un momento in cui il Pd non gode di buona stampa né di un clima di opinione favorevole, per uscire allo scoperto all’avvicinarsi del voto, preoccupati della deriva cui (secondo loro) rischierebbe di andare incontro il nostro paese. Al contrario, i potenziali elettori dei 5 stelle potrebbero non dar seguito alle dichiarazioni in loro favore, consci delle difficoltà che il movimento dovrebbe fronteggiare nell’ipotesi di un travagliato governo.

Le sue previsioni dunque sono di una risalita del Pd e del centro-sinistra, sia nel proporzionale che soprattutto nel maggioritario, di un ridimensionamento del numero di seggi vinti dal M5s e di un ulteriore incremento di Forza Italia. Tutto questo permetterebbe al duo Pd-Fi di avvicinarsi al numero fatidico di 315 seggi alla camera e, con qualche piccolo aiuto esterno, di riuscire a formare un governo (magari a scadenza programmata) che avvicinerebbe l’Italia alla situazione tedesca, dove l’alleanza tra Cdu-Csu e Spd pare funzionare.

Ed effettivamente le tendenze delle ultime ore paiono andare nella direzione indicata da Feltrin, e ci dicono due cose rilevanti: la prima, che la coalizione di centro-destra appare in lieve crisi; la seconda, che viceversa quella di centro-sinistra sembra leggermente in ripresa. Due elementi interessanti, soprattutto in vista di una possibile (eventuale) maggioranza di governo. Perché? Vediamo di capirlo.

Il centro-destra perde complessivamente un po’ di consensi soprattutto per due fattori: il primo è che la Lega di Salvini non sembra funzionare particolarmente bene tra gli elettori delle aree meridionali del paese, che magari la citano nei sondaggi ma al momento del voto preferiscono altro. Come ad esempio in Sicilia, dove in tandem con Fratelli d’Italia non riuscì ad andare oltre il 5% dei suffragi, molto meno di quanto i sondaggi ipotizzavano.

Il secondo fattore è legato al numero di liste che la coalizione presenterà: dalle 3-4 preventivate, oggi si parla di un’unica lista di appoggio, quella di Fitto-Lupi-Tosi. Avere più liste che non superano il 3% serve infatti per incrementare i voti per la coalizione e per i suoi partiti maggiori, dando loro più seggi e più rappresentanza parlamentare. Così, secondo le ultime stime, il centro-destra potrà avere intorno a 275 seggi, oltre 40 seggi in meno della maggioranza alla camera.

Al contrario, il centro-sinistra pare godere di migliore salute, non tanto per la performance del Pd, sempre deficitaria, quanto per l’acquisto di 3 liste (con l’arrivo della Bonino) che probabilmente non supereranno il 3% (forse con l’eccezione della stessa Bonino), ma che complessivamente aggiungeranno al Partito Democratico un ulteriore 4% di voti, portandolo ad un numero di seggi totale vicino ai 160.

Dunque, la ventilata coalizione Pd-Forza Italia, pur se negata da tutti i protagonisti, potrebbe essere vicina a realizzarsi, almeno potenzialmente. I 160 seggi del Pd, uniti ai possibili 140 del partito di Berlusconi, darebbe una somma intorno a 300, a soli 15 seggi dalla maggioranza alla camera. Ingaggiare qualche fuoriuscito da altre forze politiche potrebbe non essere, a quel punto, particolarmente difficoltoso, dando luogo ad un governo capace di durare (almeno un po’) nel tempo.