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Fra guerra e pace – Verso le elezioni anticipate?

9 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Nessuno può escludere che fra qualche mese un raggio di sole accarezzi il mondo. La guerra in Ucraina finisce, in Israele c’è una tregua, l’Europa raggiunge un accordo commerciale con gli Stati Uniti, le borse recuperano il terreno perduto. Il riarmo dell’Europa torna in secondo piano. Insomma, la gente smette di avere paura della guerra e dell’inflazione.

Questo però non è lo scenario più verosimile. Lo scenario più verosimile, purtroppo, è che, comunque evolvano le cose, la paura della guerra e lo spettro della recessione ci accompagnino ancora per un po’. Diciamo (almeno) per due o tre anni.

Ebbene, se questo dovesse essere lo scenario prevalente, il quadro politico potrebbe mutare sensibilmente, e i rapporti di forza fra i partiti al momento delle prossime elezioni politiche (previste per il 2027) potrebbero cambiare drasticamente. E potrebbero farlo nella direzione che, lentamente e quasi impercettibilmente, si sta profilando già in questi giorni.

A segnalare i primi scricchioli è stato l’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli, che fin dagli ultimi giorni di marzo, sul Corriere della Sera, avvertiva che Fratelli d’Italia stava perdendo colpi e soprattutto che, contrariamente a quanto affermato dalla maggior parte degli istituti rivali, era largamente al di sotto del 30% di consensi, e semmai si stava pericolosamente planando verso quota 26%, ossia al risultato elettorale del 2022.

Poi negli ultimissimi giorni è intervenuta la supermedia dei sondaggi calcolata da You Trend, che apparentemente non ha rivelato cambiamenti clamorosi ma in realtà, a leggere attentamente le variazioni rispetto a due settimane prima, non solo conferma il calo di Fratelli d’Italia (più che comprensibile date le evidenti difficoltà di Giorgia Meloni in politica estera) ma mostra che le micro-variazioni in atto negli altri partiti hanno un segno preciso e delineano (forse) una tendenza.

Quale tendenza?

Fondamentalmente il riallineamento del sistema politico lungo la frattura fra partiti europeisti (quasi sempre al governo in Europa) e partiti euroscettici (quasi sempre all’opposizione in Europa). Credo non sia un caso che il segno meno caratterizzi i consensi a Pd, Forza Italia, +Europa, Azione, Noi moderati, e il segno + caratterizzi i consensi a Lega, Movimento Cinque Stelle, Alleanza Verdi-Sinistra. Quel che differenzia i due blocchi è che i primi hanno assunto una posizione sostanzialmente favorevole al riarmo, mentre i secondi ne hanno preso univocamente le distanze non solo a Bruxelles, ma anche nelle piazze (vedi la grande manifestazione di sabato convocata da Conte).

Ebbene, se l’incubo della guerra dovesse perdurare, tutto questo potrebbe preludere ad alcuni cambiamenti importanti sia nella coalizione di governo sia nelle opposizioni.

Nella coalizione di governo la competizione fra Forza Italia e la Lega per la posizione di maggiore alleato del partito della Meloni potrebbe volgere a favore della Lega, unico partito in grado di offrire un approdo al pacifismo di destra. Nel fronte dell’opposizione potrebbe riaprirsi la competizione per la leadership fra Schlein e Conte. Oggi il Pd ha il 22.7% dei consensi, contro il 12.1% dei Cinque Stelle. Sembra un abisso, ma se anche solo il 3% dell’elettorato, in quanto nettamente contrario al riarmo, transitasse dal Pd ai Cinque Stelle, il partito di Schlein scenderebbe sotto il 20%, e quello di Conte salirebbe sopra il 15%. Con un distacco di 5 punti scarsi, e venti di guerra all’orizzonte, la partita per la leadership si riaprirebbe.

Ma il pericolo maggiore, fra tutti i partiti, probabilmente lo correrebbe Fratelli d’Italia: la spina nel fianco pacifista è più dolorosa per chi guida il governo che per chi sta all’opposizione. Un Salvini che superasse il 10% diventerebbe una spina nel fianco per il governo Meloni, specie se il trend di ridimensionamento di Fratelli d’Italia, concordemente rilevato dalla maggior parte degli ultimi sondaggi, dovesse persistere. In quel caso, a meno di un insperato, rocambolesco soccorso del partito di Calenda, il ritorno anticipato alle urne non sarebbe così impossibile come appare oggi.

[articolo inviato alla Ragione il 6 aprile 2025]

Elezioni in Germania – Grosse Koalition alla prova

26 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Apparentemente le elezioni in Germania non hanno riservato sorprese.

Le previsioni dei sondaggi sono state sostanzialmente rispettate, i popolari della CDU/CSU del futuro cancelliere Friedrich Merz hanno vinto, i socialdemocratici dell’SPD e i liberali della FDP sono crollati, il temuto partito di estrema destra AfD ha superato il 20%, miglior risultato dalla sua fondazione nel 2013. I popolari della CDU/CSU e i socialdemocratici della SPD (partito del cancelliere uscente Olaf Scholz) si apprestano ad avviare le trattative per formare un governo di Grosse Koalition.

A guardar bene, però, di risultati non scontati ve ne sono parecchi. Non era scontato, ad esempio, che i liberali e il nuovo partito di Sahra Wagenknecht (BSW) sarebbero rimasti fuori del parlamento, non raggiungendo la soglia del 5%. Se la BSW avesse raggiunto il 5% (vi è andata vicinissima, con il 4.97%), il neo-cancelliere sarebbe stato costretto ad allearsi anche con i Verdi (o con la BSW stessa), varando un governo più eterogeneo e quindi più instabile: con i Verdi al governo, ad esempio, la promessa marcia indietro sulle politiche green sarebbe stata meno facile da attuare, e più foriera di tensioni entro il nuovo esecutivo.

Anche le percentuali dei vincitori, pur abbastanza vicine a quelle previste dai sondaggi, non erano così scontate. Il nuovo cancelliere aveva chiesto agli elettori di dargli forza contrattuale (verso la SPD) conferendogli almeno il 30% dei voti, ma si è dovuto accontentare del 28.5%. Quando alla AfD di Alice Weidel, non erano in pochi – dopo gli ultimi attentati in Germania e in Europa – a scommettere su uno sfondamento più ampio della barriera del 20% (ha ottenuto “solo” il 20.8%).

Ancora meno scontata era la resurrezione della Linke, il partito di estrema sinistra guidato da Heidi Reichinnek, che ha preso l’8.8% (i sondaggi gli davano solo il 7%), quasi raddoppiando i consensi delle precedenti elezioni politiche. Un successo che, verosimilmente, ha determinato l’esclusone dal parlamento della BSW di Sahra Wagenknecht e la disfatta dei Verdi, che hanno ottenuto ancora meno voti di quanti gliene assegnassero i sondaggi.

Ma la vera sorpresa, che nessuno aveva previsto nelle dimensioni in cui si è manifestata, è l’exploit della partecipazione elettorale, passata dal 76.4% delle ultime elezioni politiche all’82.5%, il valore più alto dai tempi dell’unificazione tedesca. Tutto lascia pensare che, alla radice del boom dei votanti, vi sia il timore per l’avanzata della AfD, un timore che ha richiamato alle urne elettori che normalmente non votano, ma che sono sensibili ai richiami anti-fascisti e anti-nazisti. Sono questi quasi 4 milioni di elettori in più che hanno conferito ai risultati la loro specifica curvatura, non sempre evidente nei commenti delle ultime ore. Se Afd non è andata molto oltre il 20% e l’estrema sinistra (linke + BSW) ha triplicato il suo peso elettorale rispetto alle ultime elezioni è perché la matrice del surplus di mobilitazione è stata prevalentemente progressista.

Il risultato complessivo di questi sommovimenti è che, nel giro di meno di 4 anni (dal settembre 2021 a oggi), l’elettorato tedesco si è enormemente radicalizzato e polarizzato. I partiti anti-sistema (Afd, Linke, BSW), tutti guidati da donne carismatiche e fortemente sostenuti dall’elettorato giovanile, raccolgono oggi quasi il 35% dei voti, contro il 15% di 4 anni fa. Specularmente, i due partiti cardine del sistema (SPD e CDU/CSU), che si apprestano a formare il governo, raccolgono appena il 45% dei consensi, ancora meno di quanti (il 50% scarso) ne raccogliessero nel 2021.

Vista da questa angolatura la vicenda tedesca è singolare, anche se non unica (qualcosa di simile è in corso in Francia). Il sistema politico si polarizza, i partiti di sistema implodono, scendendo al di sotto del 50% dei consensi, ma al governo riescono ad andarci lo stesso perché si coalizzano tra loro e perché la legge elettorale li premia. In Germania CDU/CSU e SPD controllano il 52% dei seggi con appena il 45% dei voti.

In Francia centristi e forze moderate governano, ma il consenso popolare premia le ali estreme (Marine Le Pen e Mélanchon). In entrambi i casi, il governo delle forze pro-sistema è il frutto della dottrina del “cordone sanitario” (in tedesco: Brandmauer, muro tagliafuoco), che sbarra la strada del governo all’estrema destra, ma al tempo stesso non riesce a stabilire solide alleanze con l’estrema sinistra.

In queste condizioni, è arduo profetizzare al governo tedesco un cammino sereno. Se vorrà mantenere le promesse elettorali sui migranti e sulle politiche green, il cancelliere Merz potrà essere costretto ad accettare i voti dell’estrema destra. Ma se farà marcia indietro su entrambi i versanti per compiacere l’alleato di governo, difficilmente potrà evitare, alle prossime elezioni, un’ulteriore avanzata dell’Afd.

Non è una novità, bensì il solito, irrisolto, dilemma dell’antifascismo: provare a normalizzare le destre radicali associandole al governo, o tenerle lontane a costo di rafforzarle?

Germania e Francia sembrano aver imboccato quest’ultima strada, quella dell’arroccamento dei partiti moderati. Quanto all’Italia, il diritto di governare le destre se lo sono conquistato con il voto. E, per ora, nulla di drammatico pare esserne seguito.

[articolo uscito sul Messaggero il 25 febbraio 2025]

Lezioni americane

11 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Sul fatto che le follie del politicamente corretto abbiano aiutato Trump, in questa elezione come in quella del 2016, quasi tutti convengono. Meno chiaro, invece, è quali lezioni, dalla vittoria di Trump e dalla sconfitta di Harris, possano trarre la sinistra e la destra in Europa.

A prima vista, chi ha più da imparare è la sinistra. Per lei, la lezione principale è che l’adesione acritica alle istanze del politicamente corretto (cultura woke, ideologia gender, cancel culture) è una zavorra elettorale insostenibile, tanto più se – come
accade in Italia, Francia, Germania – il mondo progressista è lacerato da profonde divisioni. È vero che la cosiddetta cultura dei diritti è diventata, da almeno tre decenni, il principale cemento identitario della sinistra e del suo sentimento di superiorità morale, ma bisognerà prima o poi prendere atto che continuare su quella strada la allontana sempre più non solo dai ceti popolari (che hanno altre priorità, a partire dalla sicurezza) ma anche da una parte del mondo femminile, che non vede di buon occhio le istanze dell’attivismo trans, specie quando comportano invasione degli spazi delle donne (carceri, competizioni sportive, centri anti-violenza, eccetera), rischi di indottrinamento nel mondo della scuola, transizioni di genere precoci per i minorenni, promozione della GPA (utero in affitto). Se vuole tornare a vincere, la sinistra dovrebbe smettere di attribuire ogni sconfitta alla disinformazione e ai poteri forti, e semmai prendere atto che aveva ragione Norberto Bobbio quando, a metà degli anni ’90, la avvertiva che rinunciare alla stella polare dell’uguaglianza a favore di quella dell’inclusione, come le suggeriva il sociologo Alessandro Pizzorno, era un errore, foriero di arretramenti e sconfitte.

Ma forse anche la destra avrebbe qualcosa da imparare, specie in Italia. Visto da destra, il follemente corretto di cui la sinistra si è resa prigioniera può diventare una straordinaria opportunità di definizione di sé stessa per così dire “a contrario”.

Culturalmente, la destra è sempre di più, non solo in Italia, l’unico argine significativo alla deriva woke negli innumerevoli campi in cui si manifesta. Anziché puntare sul controllo dell’informazione, sull’occupazione di posizioni nel mondo della cultura, su improbabili incursioni nello star system – più in generale: sul velleitario progetto di ribaltare l’egemonia culturale della sinistra – alla destra converrebbe forse prendere atto che la sua forza non sta nell’occupazione più o meno maldestra delle istituzioni, ma nell’aderenza alle istanze e alle visioni del mondo di ampi settori delle società capitalistiche avanzate.

Se le forze di destra stanno avanzando in Europa, e alcune loro istanze (come il controllo dell’immigrazione) si stanno manifestando anche a sinistra (emblematico il successo del partito di Sahra Wagenknecht in Germania), è perché quello in atto è un profondo smottamento della sensibilità collettiva. Uno smottamento che, fondamentalmente, consiste in una presa di distanze dalla cultura dei diritti e dai suoi eccessi, e si traduce in una richiesta di porre limiti, argini, freni ad alcune tendenze del nostro tempo. È dentro questa cornice che prendono forma la richiesta di contenere l’immigrazione illegale, garantire la sicurezza, ma anche frenare l’espansione di diritti percepiti come arbitrari (la scelta soggettiva del genere), o pericolosi (cambi di sesso degli adolescenti), o contrari all’ordine naturale delle cose (utero in affitto), o semplicemente pericolosi per le donne (invasione degli spazi femminili).

Già, le donne. Pochi ne parlano, ma uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni sono i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo, e più in generale nel comportamento elettorale delle donne. Nella campagna per le presidenziali americane è successo, per la prima volta, che una parte delle femministe, negli Stati Uniti (Kara Dansky) ma anche nel Regno Unito (Julie Bindel), si siano poste la domanda fatidica, fino a ieri inconcepibile: dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi di votare conservatore?

E non è tutto. Anche sul piano delle leadership, il panorama si sta facendo interessante. Dopo la recentissima ascesa di Kemi Adegoke, donna nera di origini nigeriane, a leader del partito conservatore britannico, sono immancabilmente donne
a guidare la destra nei quattro più grandi paesi europei: Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel in Germania, Giorgia Meloni in Italia, e appunto Kemi Adegoke nel Regno Unito.

Insomma, sia sinistra sia a destra, il materiale di riflessione non manca.

[articolo uscito sul Messaggero il 10 novembre 2024]

A proposito delle elezioni austriache – Il fantasma di Hitler

2 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

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E così, anche in Austria, come poche settimane fa in Sassonia, Turingia e Brandeburgo (3 länder della Germani Est), le elezioni le hanno stravinte due partiti che la maggior parte dei media definiscono neo-nazisti. Nel caso della Germania il partito vincente è Alternative für Deutschland (AfD), nel caso austriaco è il Partito della libertà (FPÖ), una formazione euroscettica che 25 anni fa, quando era guidata da Jörg Haider, ebbe a creare non pochi problemi a Bruxelles.

La vittoria del Partito della libertà (28.9%), quasi 4 punti in più che alle Europee di pochi mesi fa) è particolarmente significativa perché non avviene a scapito del Partito popolare (conservatore e moderato), che anzi guadagna 2 punti rispetto al risultato delle Europee, ma a scapito dei socialdemocratici (-2 punti) e dei Verdi (-3 punti).

Mai, nella storia elettorale dell’Austria, lo scarto fra i consensi alla destra e quelli alla sinistra era stato così forte: giusto per fare un paragone, in Italia le forze di destra superano quelle di sinistra di circa 6 punti, in Austria di 36.

Ciononostante, è probabile che il Partito della libertà e il suo leader Herbert Kickl (a suo tempo ghost writer di Haider) restino fuori del governo, in base alla dottrina del “cordone sanitario” contro l’estrema destra (come in Francia e Germania): Popolari e
Socialdemocratici austriaci, infatti, hanno seggi a sufficienza per formare un governo, anche senza l’aiuto dei partiti minori (Verdi e Neos, di orientamento liberale).

Ma quali sono le idee di fondo del Partito della libertà austriaco?

Direi che sono fondamentalmente quattro: ostilità alle chiusure durante il Covid; opposizione alle politiche green; contrarietà all’invio di armi in Ucraina (anche perché l’Austria dipende fortemente dal gas russo); difesa dei confini e rimpatrio degli stranieri irregolari (“remigration”).

Come è facile immaginare, il punto più importante è quest’ultimo. Secondo diversi osservatori, l’ostilità verso gli immigrati tipica dei partiti di estrema destra sarebbe connessa a pulsioni razziste, con venature nazionaliste e antisemite. E il fatto che
simili pulsioni si manifestino in area germanica, ossia in due paesi con un passato nazista, è fonte di ulteriori e più gravi preoccupazioni. Preoccupazioni che non possono non ricevere ulteriore impulso dalle ripetute (ancorché isolate) esternazioni
nostalgiche e nazisteggianti di alcuni esponenti del Partito della libertà (e pure di quelli di AfD): sul trionfo elettorale del Partito della libertà, insomma, aleggia il fantasma di Hitler.

Sono giustificate quelle preoccupazioni?

Per certi versi sì. Il passato nazista, con i suoi simboli e i suoi richiami, può offrire alla protesta populista un immaginario inquietante e aggressivo, e alimentare tentazioni di farsi giustizia da sé, innanzitutto contro gli immigrati percepiti come una
minaccia alla sicurezza e ai valori comunitari. In questo senso sì, la vittoria del Partito della Libertà è inquietante.

Per altri versi, però, l’accostamento fra FPÖ e nazismo è fuorviante. Se guardiamo all’ideologia e agli obiettivi del partito di Kickl, non possiamo non notare almeno tre differenze significative con il partito hitleriano. Primo, il nazionalismo dell’FPÖ è pacifista, e tutt’altro che aggressivo o guerrafondaio verso gli stati confinanti. Secondo, nel caleidoscopio ideologico dell’FPÖ una componente essenziale è il libertarismo, come testimoniano le sue battaglie contro le restrizioni Covid, e come suggeriscono le sue origini (fino al 1993 ha fatto parte dell’Internazionale liberale). Terzo, il bersaglio principale sono gli immigrati, in particolare gli islamici, non certo gli ebrei.

Insomma, il paragone con il Nazismo non regge: si può essere pericolosi senza essere nazisti.

Il vero problema è che nessun partito, né in Austria, né in Germania, né altrove in Europa, ha una soluzione per il paradosso migratorio: gli immigrati sono troppi (o troppo poco integrati), per assicurare ordine e sicurezza, ma sono troppo pochi per coprire la domanda di lavoro, specie qualificato. Il tutto complicato dai vincoli legislativi, soprattutto di carattere internazionale e umanitario, che rendono estremamente difficoltose anche modeste misure di espulsione degli irregolari, e persino degli autori di gravi reati.

La realtà, temo, è che chiunque governi – Popolari, Conservatori, Socialisti, “estremisti” di destra – non ha gli strumenti per risolvere il problema migratorio, finché le regole sono quelle attuali. Con un’aggravante, nel caso austriaco: gli stranieri in rapporto alla popolazione sono più del doppio che in Italia (20% contro 9%).

In queste condizioni, è normale che chi – come il partito di Kickl – non ha responsabilità di governo intercetti buona parte della protesta anti-immigrati, e riesca a farlo anche nelle realtà urbane tradizionalmente più favorevoli alla sinistra: nel
territorio autonomo di Vienna, dove la percentuale di immigrati è oltre il 30%, la FPÖ è riuscita a sfondare il tetto del 20%, un risultato eccezionale in una roccaforte progressista.

Di qui il dilemma di socialdemocratici e popolari: imbarcare gli estremisti, rinunciando alla logica del cordone sanitario, o tenerli fuori del governo, con il rischio che – alle prossime elezioni – siano ancora più forti di prima.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]

Elezioni in Francia e Regno Unito – Starmer e la sinistra blu

9 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Una settimana fa il primo turno delle elezioni legislative in Francia. Pochi giorni fa elezioni nazionali nel Regno Unito. Oggi secondo turno delle elezioni in Francia. Non ricordo vi sia stata, in Europa, una settimana più densa di appuntamenti elettorali
importanti.

Se le previsioni degli istituti di sondaggio francesi si riveleranno azzeccate, domani diremo che il Fronte Repubblicano ha fermato Marine Le Pen, così come oggi diciamo che Keir Starmer – leader dei laburisti – ha posto fine al lungo primato dei Conservatori nel Regno Unito, un primato durato ben 14 anni. L’aritmetica dei seggi dice che i laburisti hanno una maggioranza schiacciante in
Parlamento, mentre – grazie alla desistenza – il Rassemblement National potrebbe non avere abbastanza seggi per governare. Sul piano politico è tutto, perché i seggi sono l’essenziale.

Ma se quel che ci chiediamo non è chi governerà, bensì dove vadano le opinioni pubbliche dei due paesi, il quadro si fa molto meno nitido. Con i sistemi maggioritari, è normale che la distribuzione dei seggi in Parlamento e le sue variazioni nel tempo
non riflettano i movimenti profondi dell’elettorato. E talora li contraddicano. I recenti casi della Francia e del Regno Unito non fanno eccezione.

In Francia il dato di opinione cruciale è che il consenso a Marine Le Pen è al massimo storico: ai ballottaggi per le presidenziali era al 33.9% nel 2017, salito al 41.5% nel 2022. E fra il 1° turno delle Legislative 2022 e il 1° turno delle Legislative 2024 il suo consenso in termini di voti è ulteriormente salito (quasi un raddoppio in due anni). In breve: quale che sia il risultato dei ballottaggi odierni nei collegi uninominali, è verosimile che il consenso a Marine Le Pen si aggiri intorno al 50%.

Ancora più intricata la situazione nel Regno Unito. Qui il “trionfo” di Keir Starmer in termini di seggi coesiste con una modestissima avanzata in termini di voti. Nel 2019 Corbyn, il leder laburista di allora, aveva perso le elezioni con il 32.1%, oggi il suo successore le ha stravinte con il 33.7%, nemmeno 2 punti percentuali in più. In sostanza: i laburisti, con 1/3 dei voti, governeranno con 2/3 dei seggi. A ulteriore riprova del fatto che, con un sistema elettorale maggioritario, può accadere che voti e
seggi raccontino due storie profondamente diverse. Si potrebbe osservare che, quantomeno, il voto inglese segnala un netto spostamento a sinistra dell’opinione pubblica, visto che i Conservatori quasi dimezzano i loro consensi (dal 43.6% del 2019 al 23.7% attuale). Ma anche questa conclusione andrebbe ponderata e qualificata. Intanto perché il deflusso di voti dal partito Conservatore ha premiato innanzitutto il partito anti-europeo di Farage (Reform UK), che è ancora più a destra. E poi per una
ragione più fondamentale: quello che ha vinto le elezioni nel Regno Unito è un partito laburista molto particolare, diverso da quello estremista di Corbyn, ma anche (almeno in parte) da quello di Tony Blair, stella polare dei riformisti e dei teorici
della Terza via.

Il partito che Keir Starmer ha pazientemente forgiato nel corso degli ultimi anni si riallaccia, semmai, al cosiddetto Blue Labour, una componente del Labour Party nata una quindicina di anni fa con il proposito di recuperare il consenso dei “colletti blu”, e di farlo anche con idee spesso considerate conservatrici, come famiglia, fede, vita di comunità e, soprattutto, limiti all’immigrazione irregolare. E infatti, nel programma di Starmer, il controllo dell’immigrazione illegale occupa un posto tutt’altro che marginale. Il rifiuto della soluzione-Sunak (deportare i migranti illegali in Ruanda) non si accompagna a benevole proposte di apertura dei confini o di rafforzamento dell’accoglienza, ma punta semmai all’introduzione di misure radicali di contrasto degli arrivi illegali, come il conferimento alle forze dell’ordine di super-poteri, analoghi a quelli previsti nella lotta al terrorismo. Detto più esplicitamente: la critica alle politiche dei Conservatori in materia migratoria non è di principio, quanto di efficacia: siete stati 14 anni al governo, e il problema dell’immigrazione siete solo riusciti ad aggravarlo. Ecco perché la lettura dei dati britannici non è semplice.

Hanno qualche ragione i riformisti a compiacersi dell’abbandono del massimalismo di Corbyn, e del parziale ritorno alle idee di Tony Blair. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è che i laburisti hanno raccolto solo 1/3 dei consensi, e lo hanno fatto anche grazie a idee che siamo abituati a considerare ben poco progressiste.

[articolo uscito sul “Messaggero” il 7 luglio 2024]

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