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Elezioni francesi – L’occasione di Marine Le Pen

22 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Credo sia accaduto raramente, in Europa, che un appuntamento elettorale in un singolo paese attirasse tanta attenzione anche negli altri. È quello che sta succedendo con le elezioni francesi, che si svolgeranno in due turni, il 30 giugno e il 7 luglio.

Un motivo di interesse è sicuramente il fatto che la posta in gioco è simile, anche se non identica, a quella su cui si sta scommettendo a livello europeo, in questi giorni di grandi manovre per la scelta della Commissione e l’attribuzione degli incarichi più importanti: riusciranno le forze anti-destra a contenere l’avanzata delle destre, e a perpetuare la conventio ad excludendum che finora – in Francia come a livello europeo – è sempre riuscita ad escluderle dal potere?

In Europa, la questione riguarda l’inclusione nel perimetro della maggioranza dei riformisti conservatori (ECR) di Giorgia Meloni, che molti si ostinano a considerare una forza estremista, anti-europea, che deve ancora fare i conti con il fascismo. Il problema si pone perché l’elettorato ha premiato le forze di destra, ma i voti ECR non sono strettamente necessari per formare la nuova maggioranza che guiderà l’Europa.

In Francia la questione è più complessa, perché le poste in gioco sono almeno due, una a breve, l’altra a medio periodo. A breve, c’è l’esito delle imminenti elezioni dell’Assemblea Nazionale, che potrebbe consegnare il governo al partito di Marine Le Pen. A medio termine, incombono le elezioni presidenziali del 2027, che potrebbero essere vinte da Marine Le Pen. Un’eventualità tutt’altro che remota, se pensiamo che alle ultime presidenziali (nel 2022), aveva ottenuto il 41.5%, e da allora il suo partito – il Rassemblement National – ha quasi raddoppiato i consensi, passando dal 18.7% delle Legislative 2022 al 31.4% delle ultime Europee.

Ma le elezioni francesi sono interessanti anche per altri motivi, più strettamente politici.
I sondaggi dicono che, al primo turno, Marine le Pen e alleati dovrebbero ottenere circa il 33% dei consensi, Macron e i centristi circa il 18%, il Nuovo Fronte Popolare di sinistra (che include sia i socialisti di Glucksmann, sia i populisti di Mélenchon), circa il 28%. In concreto, questo significa che al secondo turno – quello che deciderà effettivamente chi verrà eletto e chi no – accederanno quasi esclusivamente candidati di estrema destra (sotto le insegne del Rassemblement National della Le Pen), e
candidati di sinistra (sotto le insegne del Nuovo Fronte Popolare che, oltre a socialisti e populisti, include comunisti ed ecologisti).

E qui sorge il problema politico. Nel Nuovo Fronte Popolare la forza largamente egemone è La France Insoumise (la Francia ribelle), il partito di Mélenchon, che di fatto è percepito come una formazione di estrema sinistra, con tratti populisti, sovranisti e anti-europei. Già questo pone qualche problema all’elettorato moderato, che non ama Marine Le Pen, ma nemmeno è incline a sostenere l’estrema sinistra di Jean Luc Mélenchon. Nei collegi, e non saranno pochi, in cui il Fronte Popolare dovesse essere rappresentato dal partito di Mélenchon, parte dei centristi potrebbero anche preferire l’astensione, e così favorire il successo della Le Pen.

Ma il vero problema, per il progetto “repubblicano” di sbarrare la strada a Marine Le Pen, è ancora un altro. Negli ultimi mesi, e segnatamente dopo la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre, sia il partito di Mélenchon sia quello di Le Pen hanno subito due
vere e proprie mutazioni. Il partito di Mélenchon si è rifiutato di condannare l’atto terroristico di Hamas, e ha accentuato sempre più il suo profilo “immigrazionista”, che punta ad allargare le maglie dell’accoglienza, anche attraverso il controverso concetto di “rifugiato climatico”. Una mossa, quest’ultima, che gli sta attirando durissime critiche dalla stampa conservatrice, ma anche da parte di Emmanuel Macron, che pure dovrebbe essergli alleato nella crociata contro la Le Pen. Simmetricamente, Marine le Pen ha invece condannato senza esitazione la strage di Hamas, e pochi mesi fa ha appoggiato la mossa di Macron di mettere in Costituzione il diritto all’interruzione di gravidanza.

Il risultato è che Marine Le Pen e il suo partito, ora guidato anche dal giovane Jordan Bardella, appaiono molto più digeribili di quanto lo fossero anche solo un anno fa. Il contrario di quel che sta capitando a Jean Luc Mélenchon, costretto a difendersi sia
dalle accuse di “immigrazionismo” mossegli da Macron, sia da quelle di antisemitismo provenienti dalla comunità ebraica. Il tutto complicato, nelle ultime ore, da un episodio – lo stupro di una ragazzina dodicenne ebrea a motivo del suo essere ebrea – che ha riportato al centro dell’attenzione il problema dell’antisemitismo e della sua diffusione nelle comunità islamiche in Francia.

La strada di Marine Le Pen, naturalmente, resta in salita come sempre. Ma il fatto che Macron sia in campagna elettorale contro Mélenchon, e quest’ultimo sia esposto alle accuse di anti-semitismo, fanno pensare che la partita sia aperta. Molto aperta.

[articolo uscito sul Messaggero il 21 giugno 2024]

Sinistre in fuga dal centro

17 Giugno 2024 - di Dino Cofrancesco

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Le elezioni europee dell’8-9 giugno hanno confermato la crisi profonda in cui versa la democrazia italiana: che si tratti di ’mal comune mezzo gaudio’ non consola molto, dimostrando solo come il nostro abbia reazioni sempre più simili a quelle degli altri paesi dell’area euro-occidentale.

Quali sono i sintomi più gravi della malattia? Ne elenco solo due.

Il primo è la spaccatura profonda che da anni divide ormai le nostre società civili. In Italia alla coalizione di centro-destra, egemonizzata da un partito postfascista che ha espresso una sincera adesione ai valori della democrazia liberale, e si trova a Palazzo Chigi, grazie a due alleati, Forza Italia – una formazione centrista della cui anima liberale nessuno potrebbe dubitare – e la Lega Salvini – un composito movimento populista che non ha affatto tradito le sue origini, come attestano le sue battaglie per le autonomie differenziate; corrisponde una coalizione egemonizzata da un PD, quello di Elly Schlein, sempre più lontana da una filosofia riformistica e costantemente tentata da un’alleanza, più o meno organica col Movimento 5 Stelle, che al suo qualunquismo (né destra/né sinistra) dovette i suoi inaspettati successi elettorali, e che oggi, con Giuseppe Conte, fa pensare a un neo-peronismo giustizialista. Ancora più a sinistra si colloca l’Alleanza Verdi Sinistra (vicina a un non trascurabile 7%) che con
il liberalismo classico non ha alcun rapporto (non è, a mio avviso, una colpa).

Le sinistre unite hanno retto all’onda lunga della destra grazie anche ai grandi quotidiani, che un tempo si dicevano dei padroni’, come quelli del Gruppo Gedi («Stampa», «Repubblica» etc.) e a una stampa furiosamente antigovernativa, tipo «Domani» e «Il Fatto quotidiano». Partiti, stampa, movimenti di protesta, finte associazioni ecologiche – che, in realtà riversano sul nemico di sempre, il capitalismo, le loro apprensioni per gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici – centri sociali vari, associazioni LGBT, pacifisti scatenati contro il sionismo, minoranze universitarie emule del ’68, aficionados di Ilaria Salis, parrocchie ribelli: è, questo, un mondo vario e composito che attesta che la sinistra è viva e vegeta e nulla ha perso delle sue caratteristiche d’antan.     È una constatazione, la mia, che non ha nulla di moralistico: il mondo è pieno di valori in conflitto e la loro dialettica è il sale della democrazia. E tuttavia, ci si chiede, può una democrazia ‘a norma’ sopravvivere quando gli attori principali in competizione trovano consensi elettorali allontanandosi dal centro? È una buona notizia che i riformisti e gli ex margheritini del PD siano destinati ad essere emarginati? Che le sinistre parlino con la voce di Claudia Fusani, di Daniela Preziosi, di Massimo
Giannini, di Ezio Mauro? Che le ali mediane del sistema politico, Azione di Carlo Calenda o Stati Uniti di Europa del duo Emma Bonino/Matteo Renzi non abbiano alcun potere di riassestare verso il centro l’asse della politica italiana? (Negli ultimi tempi della campagna elettorale, va pur detto, le loro critiche al governo erano così spietate da portare acqua al mulino di Elly Schlein, allontanando potenziali elettori, pur lontani dalla Meloni, ma vicini a un’opposizione corretta e non delegittimante).

L’altro dato emerso dalle urne è anch’esso poco rassicurante.

«In queste elezioni, ha scritto Augusto Minzolini – la politica estera, in presenza di due guerre, ha pesato come non mai in passato». Verissimo, ma fa sorridere l’analisi l’editorialista del «Giornale» quando parla di Un voto contro Putin (ma in quale beato paradiso caraibico vive Minzolini?) e giudica la più grave sconfitta di un partito di governo che si sia verificata dal dopoguerra a oggi – quella subita in Francia da Macron e in Germania da Scholz – il prezzo pagati per “qualche fuga in
avanti” (sic!). In realtà, la difesa a oltranza dell’Ucraina e gli Stati Uniti d’Europa sono stati i cavalli di battaglia di columnists e di scienziati politici dei grandi quotidiani ma non hanno toccato nessun cuore. Ma di quale Europa stiamo parlando se gli stati del vecchio continente sono tutti appiattiti (ammettiamo pure, con qualche buona ragione) sulle direttive di Washington e della Nato,
se nelle guerre che si stanno svolgendo sotto le nostre case i rappresentanti degli stati europei si sono astenuti da ogni iniziativa autonoma, da ogni tentativo di contribuire al farsi degli eventi, sia pure a fianco della Casa Bianca? Stati Uniti d’Europa! Siamo europei! ma davvero si poteva credere che, con queste genericità retoriche, si sarebbero ottenuti i voti dell’uomo della strada?     In un esemplare editoriale del «Corriere della Sera» dell’8 giugno u.s., L’Europa non è solo un’idea, Ernesto Galli della Loggia ha fatto rilevare: «le élite europee hanno finito per credere (…) che per radicarsi e legittimarsi nella coscienza dei propri cittadini, bastassero i grandi principi e i vantaggi concreti assicurati dall’Unione. Ma nessun corpo politico è stato mai tenuto insieme solo
da queste cose».

Non mi sembra che questa saggezza storica faccia parte della political culture dei Calenda, dei Renzi, dei Della Vedova. Il contrappeso centrista e moderato al trionfo della sinistra tendenzialmente illiberale è affidato alle mani di attori politici moralmente e intellettualmente affetti dal morbo di Parkinson.

[commento elettorale uscito su Paradoxa-Forum il 13 giugno]

Onda nera e dilemma migratorio

13 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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A guardarle da lontano, le elezioni europee forniscono un risultato molto chiaro: indietro liberali, verdi, socialisti, avanti tutte e tre le destre: Popolari di Ursula von der Leyen, Riformisti di Giorgia Meloni, Identitari di Marine Le Pen. E altrettanto
chiaro, anche se non a tutti, è il triplice messaggio che è stato recapitato a Bruxelles: non ci convince la velocità (eccessiva) della transizione green, non ci va l’inconcludenza in materia di flussi migratori irregolari, non ci piace il politicamente
corretto dei burocrati europei.

Complessivamente, gli equilibri politici si sono spostati verso destra, in alcuni casi in modo clamoroso: in Francia è crollato il partito di Macron, e quello di Marine Le Pen ha toccato la quota stratosferica del 32%; in Germania sono crollati i
Socialdemocratici del cancelliere Scholtz, superati dalla AFD (Alternative für Deutschland), un partito di destra così estrema da essere stato espulso da Identità e Democrazia, il gruppo più a destra del Parlamento Europeo. Tutto ciò ha suggerito ai
commentatori più pittoreschi di parlare di un’onda nera che starebbe sommergendo le fragili istituzioni europee.

A guardarle più da vicino, ovvero paese per paese, le elezioni europee raccontano una storia assai meno univoca, forse più interessante. Ci sono paesi, anche importanti, in cui i socialisti sono cresciuti sensibilmente: in Francia sono rinati, dopo essere quasi scomparsi nelle elezioni del 2022; in Italia, con il 24% del Pd, hanno ottenuto il miglior risultato dai tempi dell’exploit di Renzi, che rialse a dieci anni fa (41% alle Europee del 2014).

Anche il mito dell’onda nera andrebbe ridimensionato. Se, ad esempio, prendiamo i due paesi scandinavi (Finlandia e Svezia), attualmente governati da coalizioni di destra, non mancano le sorprese: in entrambi i paesi i partiti di estrema destra (Veri
Finlandesi e Democratici svedesi) hanno ottenuto risultati elettorali pessimi, a fronte di buoni risultati delle forze progressiste.

I casi più interessanti, però, a mio parere sono quelli della Danimarca e della Germania. Questi due paesi, infatti, illustrano bene quanto cruciale sia, per gli equilibri elettorali della sinistra, il modo in cui viene affrontato il tema migratorio.

In Danimarca, nel 2022, la premier socialdemocratica Mette Frederiksen aveva vinto le elezioni politiche su una linea securitaria, ventilando addirittura il trasferimento dei migranti irregolari in Ruanda, sulla linea del premier britannico Rishi Sunak. Il
risultato, però, è stato che due anni dopo, alle elezioni Europee, il suo partito è stato scavalcato dall’Alleanza di sinistra, un partito di sinistra-sinistra.

La vicenda è interessante perché ricalca, in un arco di tempo molto più breve, quel che in Italia è capitato al Pd nel decennio 2014-2024. La svolta riformista impressa da Renzi e Gentiloni con il Jobs Act e la linea dura sull’immigrazione (ministro Minniti) hanno innescato una progressiva crisi di rigetto, con la scissione di Leu, i tormenti del dopo-Renzi, la riconquista della “ditta” da parte di Bersani e compagni, la sconfitta di Bonaccini, l’ascesa finale di Elly Schlein, coronata dal successo alle Europee. La
differenza con il caso danese è che lì la reazione alla sinistra moderata e riformista è stata rapida e affidata a un a partito più a sinistra dei socialdemocratici, mentre da noi è stata lunga e affidata alla scalata interna al Partito Democratico.

In Germania le cose sono andate in un modo ancora più inedito. Qualche mese fa, di fronte alla irresolutezza dei socialdemocratici in tema di migranti, e al connesso deflusso di voti popolari verso l’AFD, Sahra Wagenknecht, politica proveniente dalla Linke (il partito più a sinistra della Germania), ha deciso di fondare un partito al tempo stesso di sinistra e anti-migranti. Alla prima prova elettorale, le Europee dei giorni scorsi, il suo partito nuovo di zecca ha totalizzato il 6.2%, che sommato al 15.9% della AFD porta oltre il 22% la quota di elettori che hanno espresso un voto innanzitutto anti-immigrati.

Il caso tedesco e il caso danese illustrano nel modo più chiaro la crucialità che, per la sinistra di governo, assume il dilemma migratorio. Snobbare o negare il problema aliena le simpatie dei ceti popolari, e finisce per ingrossare le file dei partiti di
estrema destra. Prenderlo su di sé, rende meno ardua la conquista del governo, ma alla lunga crea divisioni nel campo progressista, alimentando la crescita della sinistra-sinistra. Anche di questo, prima o poi, dovrà farsi carico Elly Schlein.

[articolo uscito sul Messaggero il 12 giugno 2024]

Requiem per il terzo polo

13 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Sarà magari una coincidenza, ma certo colpisce che i più clamorosi successi di queste elezioni europee siano tutti al femminile: grazie al successo dei rispettivi partiti, Ursula Von del Leyen, Giorgia Meloni, Marine le Pen, Elly Schlein avranno un ruolo
decisivo nei futuri assetti dell’unione Europea.

Ma anche in Italia l’esito del voto premia esclusivamente le liste a traino femminile: non solo Giorgia e Elly, ma anche la lista Verdi-Sinistra condotta a un clamoroso risultato (quasi il 7%) dalla candidatura di Ilaria Salis.

Ciascuno a suo modo, i tre risultati sono eccezionali. Il 28.8% di Meloni, in quanto il suo governo è l’unico fra quelli dei grandi paesi europei ad uscire vincente, per di più in un momento (elezioni intermedie) di solito non favorevole ai governi in carica. Il
24% di Elly Schlein, in quanto il Pd è l’unico partito (insieme a AVS) che aumenta i consensi anche in termini assoluti, e ci riesce a dispetto dei voti in libera uscita temporaneamente sottratti al Pd per sostenere la causa della Salis. Il 6.8% della lista AVS, perché – secondo i sondaggi – il superamento della soglia del 4% non era per niente sicuro.

Fra i tre risultati, tuttavia, quello più impattante è stato quello della Salis. In un colpo solo, la pasionaria della lista Verdi-sinistra è riuscita nel miracolo di escludere dal Parlamento Europeo sia la lista di Renzi-Bonino (Stati Uniti di Europa) sia, verosimilmente, quella di Calenda (Azione). È facile immaginare, infatti, che – in assenza del magnete Salis – molti dei voti AVS sarebbero finiti su quelle due liste, consentendo ad almeno una delle due di raggiungere il 4%. L’extra-risultato di Salis
si aggira infatti intorno al 3%, mentre i voti mancanti a Stati Uniti d’Europa sono pari appena allo 0.2 %, e quelli mancanti ad Azione allo 0.7%: due divari colmabili con 1/3 dei consensi che Salis ha portato a Bonelli e Fratoianni.

Visto da questa angolatura, il risultato di AVS è probabilmente il più influente sul futuro del nostro sistema politico. Dopo il flop europeo, sembra estremamente difficile che Renzi e Calenda riescano a mettere insieme i cocci del Terzo polo, che pure aveva guadagnato un non disprezzabile 7.8% alle elezioni politiche. Le recriminazioni reciproche, scattate subito dopo il voto, testimoniano dei limiti caratteriali e strategici dei due leader, e annunciano un futuro non proprio allegrissimo per il centro-sinistra. Se non interverrà qualche invenzione, o qualche nuovo imprenditore della politica, i cosiddetti elettori di centro, che pure esistono, e valgono più o meno il 15% del corpo elettorale, non avrà altra strada che rivolgersi alla neo-resuscitata Forza Italia, il cui leader Tajani da tempo ripete che “occupiamo lo spazio fra Giorgia Meloni e Elly Schlein”. Una simmetria che fino a ieri,
sussistendo i partiti di Renzi e Calenda, poteva apparire artificiosa e pure un po’ furbesca, ma che ora, implosi quei due partiti, suona piuttosto come una constatazione di realtà.

Così il successo di AVS rivela la sua duplice valenza. Da un lato consolida il patto d’acciaio fra PD e AVS, due forze sempre più simili tra loro, e sancisce la perifericità dei Cinque Stelle rispetto ai due partiti di sinistra-sinistra. Dall’altro scava un baratro
fra la sinistra e il centro, fornendo a Tajani le praterie di cui ha bisogno per espandere Forza Italia. Verso il 20%, dice lui. Ma anche il 15% basterebbe ad assicurare buona salute al partito che fu di Berlusconi, e lunga vita alla maggioranza di governo.

Meloni ringrazia.

[Articolo uscito sulla Ragione il 12 giugno 2024]

Europee, la vere incognita

5 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Fra pochi giorni si vota alle Europee, e ogni partito ha la sua linea Maginot, ovvero una soglia sotto la quale non può scendere senza sentirsi sconfitto. Per Fratelli d’Italia la soglia è il 26%, ossia il risultato delle elezioni politiche. Per il Pd la soglia
psicologica del 20%: al di sotto di quella cifra la leadership di Elly Schlein potrebbe scricchiolare. Per i Cinque Stelle la soglia dovrebbe situarsi intorno al 15%, tenuto conto che quello europeo non è il loro terreno di gioco preferito. Per Forza Italia la
soglia è il 10%, dopo le ripetuti promesse di Tajani di superarla. Per la Lega la soglia è non essere scavalcata da Forza Italia, e che il Generale Vannacci abbia un buon risultato.
E per tutti gli altri? Per tutte le altre liste, la soglia è il 4%, al di sotto della quale non si elegge nessun parlamentare europeo.      Ma quante sono le liste che, con un briciolo di buona sorte, potrebbero aspirare al 4%?

Sono almeno 3: Alleanza Verdi-Sinistra (che candida anche Ilaria Salis); Azione, capeggiata da Carlo Calenda; Stati Uniti di Europa, con Emma Bonino e Renzi. A queste, volendo e sperando, se ne possono aggiungere altre 2, ovvero la lista Pace
Terra Dignità, con Michele Santoro, e la lista Libertà, con Cateno De Luca e Laura Castelli (ex Cinquestelle).
Il risultato di queste 5 liste minori è ovviamente cruciale per loro stesse, dal momento che tutte rischiano di eleggere zero parlamentari, ma lo è anche per i 5 partiti maggiori, perché il numero di seggi a disposizione di questi ultimi potrebbe differire
sensibilmente a seconda del numero di liste minori che passeranno la soglia e del numero di parlamentari che il gioco delle circoscrizioni e delle preferenze consentirà a ciascuna di portare a casa.

Secondo alcune simulazioni, le liste minori potrebbero essere costrette ad accontentarsi di appena 2 seggi, secondo altre ne potrebbero conquistare addirittura 12. Poiché il numero totale dei seggi riservati all’Italia è costante, e pari a 76, i seggi per i 5 partiti maggiori potrebbero variare fra 64 e 74. Insomma, alcune possibili vittorie o sconfitte dei grandi potrebbero anche essere nient’altro che le conseguenze meccaniche delle alterne fortune dei piccoli.

Ma vediamo come potrebbero andare le cose per questi ultimi. Da un punto di vista puramente aritmetico, assumendo che i voti di questo bacino di elettori siano dell’ordine del 16% (come risulta dai sondaggi di qualche settimana fa), è possibile che nessuna lista minore raggiunga il quorum: se tutte prendessero poco più del 3%, nessuna passerebbe.                                                         Sempre da un punto di vista aritmetico, potrebbe anche succedere che il 4% venisse superato da 4 liste, tutte appena al di sopra del limite (4.1% x 4 =16.4%). Entrambe queste ipotesi (0 e 4 liste sopra la soglia) sono estremamente improbabili, quindi possiamo tranquillamente dire che quasi certamente il numero di liste che supereranno la soglia sarà compreso fra 1 e 3.
Ma quante e quali liste potrebbero farcela?

La mia idea (ma posso benissimo sbagliare) è che la presenza della Salis possa creare problemi – cioè sottrarre voti – alle liste affini, in particolare a Pace Terra Dignità, ma forse anche alla lista libertaria-europeista di Emma Bonino, ossia a Stati Uniti di
Europa, e in misura minore a quella di Carlo Calenda, che ha un profilo più liberal-tecnocratico.
Dovessi scommettere, direi che – realisticamente – le liste minori che passano la soglia dovrebbero essere o 2 o 3. Difficile che non ce la faccia il trio Salis-Bonelli-Fratoianni, possibile – ma non certo – è che una delle due liste europeiste (Azione o
Stati Uniti d’Europa) resti fuori per un pelo.

Resta il fatto che, per giudicare i guadagni o le perdite di seggi dei partiti maggiori sarà bene non tenere d’occhio solo quanti seggi avevano 5 anni fa, ma anche quanti erano allora e quanti sono oggi i seggi conquistati dalle liste minori. Allora il bottino
dei partiti maggiori fu notevole, perché le liste minori non conquistarono alcun seggio, e a un certo punto ai seggi conquistati sul campo si aggiunsero i seggi piovuti dal cielo per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Oggi tutto fa pensare che
le liste minori qualche seggio lo conquisteranno, assottigliando il bottino delle 5 liste maggiori.

Alla fine, non mi stupirei che Fratelli d’Italia fosse l’unico partito a guadagnare seggi.

[Articolo uscito sulla Ragione il 4 giugno 2024]

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