La coerenza non è più una virtù, né tra i politici né tra gli elettori

Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, per non credere (troppo) alle opinioni che vengono espresse in una indagine demoscopica.

Uno di questi motivi, che diventa talvolta cruciale nel campo della comunicazione politica, è quello della mancanza di opinioni “costanti” da parte degli elettori: nell’epoca in cui regnavano incontrastate le ideologie, esisteva una sorta di pensiero esclusivo, opinioni e atteggiamenti pressoché costanti nell’accostarsi ai fenomeni sociali o politici, guidati dalla propria ideologia, dalla
propria visione del mondo, che difficilmente mutavano: parallelamente alla fedeltà di voto, rimaneva fedele anche il modo di vedere le cose, di manifestare la propria adesione quasi incondizionata ad una scelta specifica. Come cantava Giorgio Gaber: “Mio nonno si è scelto una parte che non cambia in ogni momento, voglio dire che c’ha un solo atteggiamento” (Gaber, G., Il
comportamento, 1976). Ma poi, con la fine delle ideologie, con la secolarizzazione, con il costante aumento dei mezzi di
informazione e di comunicazione (soprattutto sul Web), con il progressivo indebolirsi delle tradizionali agenzie di socializzazione primarie e secondarie (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), con la atomizzazione lavorativa e dei rapporti individuali le cose sono cambiate. La frammentazione delle esperienze e l’atomizzazione sociale rendono l’individuo più debole nelle sue certezze più
profonde, e propenso a sperimentare identità e opinioni differenti, in una sequenza sempre più rapida e per forza di cose più superficiale. Così, in questo periodo politico-sociale, le possibili visioni del mondo si fanno sempre più labili, aleatorie, preda della “narrazione”, dello story-telling dei leader politici che, anch’essi, cambiano repentinamente idee e opinioni a seconda delle conseguenze o dei mutati scenari politici.

È forse Matteo Salvini l’emblema più riconosciuto dell’incoerenza nel tempo delle proprie opinioni, l’uomo politico che più si è rimangiato affermazioni apodittiche su molti argomenti. Nel corso dell’ultimo decennio, sono state parecchie le idee da lui espresse su alcuni temi che verranno completamente ribaltate dopo poco tempo. Tra i numerosi ultimi esempi, quello sul
ponte sullo Stretto: pochi anni orsono il segretario leghista si era dichiarato fermamente contrario alla sua costruzione, mentre da qualche mese continua – ai giorni nostri – ad esserne il principale sponsor. Ancora più ravvicinato nel tempo il cambiamento di opinione sull’abbassamento dei limiti di velocità nelle grandi città: giusto un anno fa ha indicato come prima cosa “l’implementazione di zone 30”, al fine di “mitigare le differenze di velocità esistenti tra pedoni e traffico motorizzato”; oggi si scaglia in maniera veemente contro Bologna, in particolare, paradossalmente rea di aver aderito e applicato proprio la sua direttiva. Un comportamento che somiglia molto allo stesso trasformismo della Lega, tempo fa soltanto “Nordista” e con una netta ostilità nei confronti della destra estrema e neo-fascista, oggi coalizzata con tutte le forze politiche europee di quell’area: una “Lega Nazionale”. Ma poi ancora, dopo il recente provvedimento sull’autonomia differenziata, paiono ritornare presenti le “bandiere” regionaliste, in un continuo ribaltamento degli accenti. Ma ammettiamo pure che un leader politico possa mutare opinione su una serie di argomenti, spesso difendendo questo mutamento con l’idea che soltanto gli stolti non cambiano mai idea, il che è tutto da dimostrare, peraltro.

La cosa però interessante, e forse un po’ preoccupante, è che nel tempo anche il suo elettorato tenda poco alla volta ad uniformarsi anch’esso alla “nuova” opinione che professa il suo partito o il suo segretario. Gli esempi che si possono fare sono alquanto indicativi, e non riguardano soltanto Salvini e il suo partito, ma anche molte delle altre forze politiche. Il Partito Democratico, ad esempio, quando nel 2019 venne ratificato il Reddito di Cittadinanza, votò a sfavore con dichiarazioni molto pregnanti e sdegnate, come se fosse un’elemosina di stato; poi nell’ultimo anno, quando il governo Meloni lo abolì, si schierò al contrario contro l’abolizione, anche in questo caso con prese di posizione molto sdegnate. Ebbene, l’elettorato del PD nel corso degli ultimi tre-quattro anni ha progressivamente mutato anch’esso il proprio pensiero, passando da un livello di favore per il reddito di cittadinanza del 25% nel 2020 alla quota del 70% espresso nel momento della sua abolizione del 2023 (Tab.1).

Tab. 1 – GIUDIZIO SUL REDDITO DI CITTADINANZA – ELETTORATO PARTITO DEMOCRATICO

 

 

 

Allo stesso modo, le opinioni prevalenti nell’elettorato Pd qualche settimana dopo l’invasione russa (marzo 2022) parevano nettamente contrarie all’invio di aiuti militari all’Ucraina, mentre oggi la stragrande maggioranza, dopo la costante campagna favorevole del partito, è dell’idea praticamente opposta (tab.2).

Tab. 2 – SOSTENERE LA RESISTENZA UCRAINA FORNENDO AIUTI MILITARI ELETTORATO PD

 

 

 

L’elettorato del Partito Democratico, ovviamente, non è certo il solo a venir condizionato così fortemente dalle giravolte dei vertici di partito. Sempre a proposito della guerra in Ucraina, gli elettori vicini al Movimento 5 stelle erano inizialmente allineati con il resto degli italiani nell’appoggiare l’impegno ucraino nella resistenza contro l’invasione russa (78%); passati alcuni mesi, con la ripetuta presa di posizione di Giuseppe Conte contro il coinvolgimento italiano, la maggioranza dei pentastellati passa in maniera evidente su posizioni “equi-distanti”, molto più favorevoli ad un abbandono delle armi da parte degli ucraini (72%), rispetto al passato.

Ma il caso certamente più eclatante di cambiamento di opinione è quello degli elettori di Fratelli d’Italia, da sempre contrari – con una maggioranza vicina al 65% – a restare nella UE e nell’orbita Euro, ma approdati dopo la svolta atlantista ed europeista di Giorgia Meloni alla rapida accettazione di entrambi gli obiettivi. Una situazione molto simile a quella dei simpatizzanti per il
Movimento 5 stelle, protagonisti di una veloce trasmigrazione dal No-Euro al Sì-Euro, sebbene rimanga ancora qualche remora, nel 20-25% degli attuali votanti di Giuseppe Conte (Tab.3). Per tacere infine sulle opinioni relative alla guerra in Ucraina o sul conflitto tra Israele e Hamas, opinioni mutevoli a volte solamente per avallare mutazioni di convenienza politica.

Tab. 3 – FAVOREVOLI ALLA PERMANENZA DELL’ITALIA NEL SISTEMA DELL’EURO , IN %

 

 

 

Una situazione come si è visto abbastanza paradossale: se i leader politici cambiano spesso idea per motivi più che altro tattici o strategici, non certo per profonde conversioni, rimane piuttosto difficoltoso comprendere queste stesse ri-conversioni in cittadini, uomini e donne, che non sono chiamati a rispondere in prima persona a progetti o alleanze tra le forze politiche che a volte
“impongono” queste micro-rivoluzioni di pensiero. È come se gli elettori non avessero maturato opinioni nel profondo e, solamente, si adeguino a ciò che per loro decidono i loro partiti di riferimento: una volta, si diceva che questi ultimi “dettavano la linea” cui occorreva adeguarsi, rinunciando alle proprie idee, se per caso ci fossero state. Pensiamo ad esempio all’evidente
conflitto sul divorzio che esisteva tra elettori democristiani (ma anche comunisti) e vertici di DC e PCI.
Ma se allora esistevano ancora Weltanscauung, visioni del mondo forti, solide e discriminanti, oggi pare che gli elettorati di (quasi) tutte le forze politiche, senza più grandi ideologie di riferimento, siano in balìa dello storytelling dei propri leader, a volte in perenne mutazione.

Fonte dei dati: Ipsos




I due elettorati del nuovo governo

Dopo il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, e l’avvio nel giugno 2018 di quella inedita collaborazione, gli analisti hanno cercato di comprendere se e quanto le due forze politiche protagoniste dell’intesa avessero decisivi elementi in comune, dal punto di vista del programma e delle scelte politiche che intendevano effettuare in questo loro primo cammino comune. Elementi che, se presenti, potessero effettivamente prefigurare la formazione di un’alleanza più stabile, al di là delle esigenze più contingenti di dotare il nostro paese di un esecutivo dotato di una forte maggioranza parlamentare, e potesse dunque durare nel tempo, prendendo la forma di una proposta politica unitaria.

All’indomani della consultazione elettorale del 2018, era stato sottolineato come il bipolarismo M5s-Lega avrebbe potuto divenire una originale frattura politica: da una parte una nuova destra “sociale”, che cerca di porre un freno, almeno contingente, a mutamenti epocali, che non possono peraltro essere fermati con qualche provvedimento estemporaneo; dall’altra un movimento di “cittadini”, che si presenta quasi come una sommatoria di proposte mono-tematiche, aliena nel contempo di un progetto complessivo di società, di nuove regole economiche e di welfare. Sarà questa la contrapposizione futura del nostro paese, si chiedevano in molti? o non assisteremo al contrario a ciò che numerosi commentatori ipotizzano, vale a dire una frattura elettorale tra i cosiddetti “sovranisti” e gli “europeisti”? Una netta contrapposizione cioè tra partiti che credono (ancora) nelle capacità di una Unione Europea di farsi interprete delle politiche economiche e sociali del vecchio continente, da una parte, e partiti o movimenti che tendono a rivalutare l’alveo nazionale, senza farsi troppo condizionare dai dettati della Banca Centrale Europea e della stessa UE, dall’altra.

L’avvio del nuovo governo M5s-Lega, varato pur tra molte difficoltà tre mesi dopo le elezioni, darebbe per il momento ragione alla seconda ipotesi, in attesa di comprendere l’evoluzione del quadro politico e della politica delle alleanze future, o degli intenti comuni, a partire già dal prossimo importante appuntamento elettorale, le europee del 2019.

Al di là del “contratto di governo” stipulato tra i vertici dei partiti, è interessante interrogarsi sul livello di vicinanza o di lontananza tra i loro rispettivi elettorati. Vediamo innanzitutto come viene giudicato l’attuale partner di governo. Occorre sottolineare che i dati si riferiscono a indagini compiute da Ipsos durante gli ultimi tre mesi di campagna elettorale, quando cioè gli accordi tra le due forze di governo attuale erano difficilmente pronosticabili. In generale, valutazioni positive sugli altri partiti vengono espresse solamente dal 5% dei pentastellati (oltre 10 punti in meno della media nazionale, già molto bassa). L’unico che riscuote un buon successo è proprio la Lega, giudicata favorevolmente da oltre un terzo degli elettori 5 stelle. È questa peraltro la più rilevante trasformazione intercorsa tra il 2013 ed il 2018: il differente appeal leghista tra i votanti del M5s, che cinque anni prima giudicavano al contrario il partito – allora di Maroni – in maniera non dissimile da quello di Berlusconi, individuando nelle due principali forze politiche di centro-destra una forte comunità di intenti. È probabile che l’avvento del nuovo segretario leghista Matteo Salvini, con l’abbandono dell’enfasi nordista e le sue parole d’ordine maggiormente pragmatiche e meno “ideologiche”, abbiano prodotto un effetto positivo anche nelle opinioni di una parte molto significativa degli elettori pentastellati. La stessa (limitata) positività si riscontra anche per l’elettorato leghista, tra cui il M5s ottiene valutazioni comunque egregie, considerando che era il principale nemico da battere nelle imminenti elezioni, di poco inferiori al giudizio sull’alleato di Forza Italia.

Esistono poi alcune sotterranee sintonie tra i due elettorati, al di là delle evidenti differenziazioni territoriali e, di conseguenza, dell’enfasi delle proposte politiche che hanno come differenti bacini elettorali di riferimento. Tra queste, sono sicuramente le più indicative il tipo di rapporto con l’Unione Europea e la moneta unica; l’interesse per le fasce relativamente più deboli della popolazione, declinate nelle forme più consone alle aree geografiche di riferimento; l’alterità nei confronti dei presunti “poteri forti” ai quali il popolo, e con loro i loro rappresentanti, dovrebbe apertamente ribellarsi. Accanto a queste, ci sono però importanti tematiche che allontano in maniera significata i rispettivi elettorati, e che sottolineano l’impossibilità di attribuire facili valutazioni di stampo “populista” a coloro che hanno scelto il Movimento 5 stelle.

Sono nello specifico gli atteggiamenti nei confronti dei diritti civili, della pena di morte e, in parte, dell’immigrazione che differenziano l’elettorato pentastellato in particolare da quello della Lega, ma in generale anche dalle opinioni medie della popolazione nel suo complesso, il che getta una luce forse inedita sulla diffusa percezione della natura dei votanti 5 stelle. Se non tutte, sono diverse le “anime” che popolano i 5 stelle ad essere attente alla modernizzazione della società in senso più liberal; occorre sottolineare come sia parzialmente errato guardare a questo nuovo movimento politico come si trattasse di un “blocco” elettorale unico e compatto, e non invece composto da diversi tipi di cittadini, alcuni più progressisti accanto ad altri certamente più conservatori.

I diritti per le coppie di fatto devono essere identiche a quelle sposate per quasi l’85% degli elettori a 5 stelle (10 punti in più della media della popolazione italiana e ben 15 in più rispetto ai leghisti); la pena di morte per i crimini più gravi è accettabile soltanto dal 45% dei pentastellati (5 punti in meno della popolazione e 20 in meno dei leghisti); la loro opinione infine sugli eccessivi livelli di immigrazione non si discosta da quella degli italiani (70%), ma è inferiore di ben 20 punti rispetto all’elettorato che ha votato Lega.

Difficile ipotizzare se nel futuro questo tipo di alleanza possa durare, o si andrà incontro al contrario a decisive contrapposizioni su alcune politiche non del tutto condivise (quanto meno dai rispettivi elettorati) come ad esempio quelle più sopra citate relative ai diritti civili. Quello che è certo è che numerose sono le basi per una possibile convergenza, magari limitata nel tempo, pur accanto a temi che evidenziano alcune differenze di fondo tra i votanti leghisti e pentastellati. Forse, l’elemento maggiormente dirimente è proprio la diffusa volontà di cambiamenti importanti e decisivi nella gestione della cosa pubblica, con una netta cesura con le esperienze dei governi passati e con le tradizionali forze politiche, che accomunava Lega e M5s già al momento del voto.

* Una versione ridotta di questo articolo è uscita il 3 giugno sul sito de “Gli Stati Generali”



Gli elettori 5 stelle e le bufale sulle regionali

Si sono da poco consumate le prime consultazioni elettorali dopo il terremoto delle politiche. In Molise e in Friuli-Venezia Giulia, i verdetti delle elezioni regionali hanno ampiamente rispettato ciò che gli analisti politici più attenti avevano previsto alla vigilia, con in entrambi i casi una vittoria larga (in Friuli) e di misura (in Molise) della coalizione di centro-destra, ormai decisamente a trazione leghista.

Ma i media non hanno perso l’occasione per sprecare titoloni su risultati che, tutto sommato, erano sicuramente preventivabili. L’iniziale strillo da prima pagina, in attesa degli scrutini, riguardava l’ipotetico crollo dell’affluenza: “C’è un vincitore assoluto, l’astensione. Oltre venti punti in meno rispetto alle politiche!”. Una notizia ovviamente falsa, come tutte quelle che riguardano la partecipazione alle amministrative, perché in quel tipo di elezione sono conteggiati come elettori potenziali tutti, anche chi risiede all’estero, mentre alle politiche questi ultimi entrano a far parte dei votanti non considerati nel territorio italiano.

Per cui in Molise, ad esempio, dove hanno votato soltanto 10mila persone in meno rispetto al 4 marzo, il calo reale è limitato a 4 punti percentuali, concentrati nei paesetti e nelle valli. Un po’ poco per gridare alla disaffezione. Un calo più considerevole si è effettivamente registrato in Friuli, ma non certo della portata evidenziata (-26%), bensì di poco più del 16%, la stessa quota di votanti delle scorse regionali del 2013, quando si votava peraltro in due giornate.

Seconda piccola bufala: crollano i 5 stelle, che perdono nettamente la sfida con il centro-destra! Ora, il fatto che abbiano perso è senz’altro vero, ma è altamente opinabile che questo sia da collegare, come molti hanno fatto, con il comportamento ondivago di Di Maio, incerto sull’alleanza di governo tra il centro-destra ed il Partito Democratico, o con un improvviso calo di consensi del movimento. La realtà è che l’elettorato dei 5 stelle è molto particolare, e non può essere equiparato tout-court a quello delle altre forze politiche.

L’elettorato pentastellato modula infatti la propria partecipazione elettorale, nelle diverse occasioni di voto, in riferimento alla loro salienza: più le consultazioni vengono percepite come importanti, decisive dal punto di vista dell’assetto complessivo del paese, più la loro partecipazione tende a crescere; più invece ci troviamo in presenza di consultazioni di secondo livello (come le europee) o di terzo livello (come le amministrative, regionali o comunali), più cresce al contrario la defezione alle urne. Questa sorta di partecipazione intermittente, quanto meno di una parte significativa dei votanti 5 stelle, diviene quindi il tratto distintivo di un elettorato la cui mobilitazione selettiva influisce in maniera determinante sul risultato complessivo.

È parzialmente fuorviante quindi affrontare l’analisi del voto, confrontando tra loro elezioni di diverso ordine, attraverso il classico approccio dell’incremento o del decremento nei valori percentuali di ciascun partito come indicatori del mutamento dei consensi, dell’appeal delle diverse forze politiche in campo. Ciò che funziona (ancora) per i partiti più tradizionali non pare poter essere applicato al Movimento 5 stelle, per il quale è invece determinante –come si è detto- il giudizio di una parte del suo elettorato sull’importanza percepita della consultazione elettorale.

Nel caso della Sicilia, ad esempio, nelle regionali di novembre 2017 il M5s ha ottenuto una quota di voti nettamente inferiore a quella delle successive politiche: a distanza di solo tre mesi, l’incremento dei consensi per i 5 stelle è stato di oltre 400mila voti, con un parallelo incremento del numero dei votanti (+350mila). Una situazione simile, seppur posposta, si registra per le due consultazioni regionali tenutesi meno di due mesi dopo il voto del 4 marzo. In Molise, il M5s perde dalle politiche quasi 13mila voti, con un decremento dei votanti di circa 8mila; in Friuli Venezia Giulia, il M5s perde 110mila voti, ed il decremento complessivo dei votanti si attesta a circa 150mila unità.

Difficile non leggere quei risultati partendo dal ricordato astensionismo selettivo che vede come principale protagonista l’elettore 5 stelle, motivato da stimoli di partecipazione fortemente influenzati non tanto dal clima di opinione prevalente, quanto dall’importanza da loro attribuita alla specifica elezione. Perché, tradizionalmente, le formazioni uscite vincenti da una consultazione elettorale, vivono nei mesi successivi una sorta di “euforia” della vittoria, che porta spesso nuovi adepti sulla scia del cosiddetto “effetto bandwagon”.

Nel caso dei 5 stelle, che pur registra un incremento di appeal nelle dichiarazioni di voto delle indagini demoscopiche, questo non si verifica al contrario nei veri appuntamenti di voto. Il motivo prevalente deve farsi necessariamente risalire a quanto argomentato più sopra: una sorta di disaffezione selettiva alle urne, che non intacca invece gli altri elettorati che, a sostanziale parità del numero dei propri elettori, o soltanto con un lieve incremento, ottengono percentuali nettamente superiori nelle amministrative rispetto alle politiche.

È dunque questo un elemento chiave che caratterizza l’elettorato più vicino ai 5 stelle: si tratta di cittadini che manifestano una elevata fedeltà di voto al proprio referente politico, con ridotti livello di “tradimento” a favore di altre formazioni politiche, ma con una tendenza molto accentuata alla defezione, a disertare cioè le urne nel caso di elezioni reputate non decisive. Come dire: quando decido di andare a votare, scelgo sicuramente i 5 stelle, ma il costo della mia mobilitazione deve valere la posta in gioco, altrimenti preferisco rimanere a casa.




Pd e Forza Italia, verso l’estinzione?

Secondo gli ultimi sondaggi, Cinque Stelle e Lega, ossia i vincitori di queste elezioni, stanno accrescendo ancora i loro consensi. Simmetricamente, Pd e Forza Italia li stanno riducendo. Il Pd sta scendendo pericolosamente verso la soglia del 15%, mentre Forza Italia sta scivolando addirittura verso quella del 10%, oltre la quale si entra inesorabilmente nel regno dei partitini.

È vero che, dopo un successo elettorale, c’è sempre un po’ di effetto band-wagon, ovvero “salita sul carro del vincitore”, ma è anche vero che, da qualche tempo, in Europa, i cambiamenti di umore degli elettorati sono diventati repentini e molto ampi. Un partito o un leader possono affermarsi in un baleno, come Macron in Francia, ma pure, altrettanto rapidamente, sparire dalla scena, come Hollande e il partito socialista (sempre in Francia). Non siamo, in altre parole, in tempi di lenti declini o graduali ascese, bensì in tempi di improvvisi e drammatici uragani politici. Ecco perché, forse, non è fuori luogo porci la domanda: la crisi del Pd e di Forza Italia è una parentesi passeggera, o è l’inizio di un processo irreversibile, che li condannerà presto all’irrilevanza?

Credo che questa domanda sia importante non solo in sé (dopotutto stiamo parlando delle due forze politiche che hanno dominato la vita politica nella seconda Repubblica), ma perché, se non ce la poniamo, diventa difficile capire tutte le mosse che i partiti stanno mettendo in atto in questa tormentata fase di ricerca di una maggioranza e di un accordo di governo. Le mosse dei vincitori (Cinque Stelle e Lega) sono dettate dall’ovvio desiderio di accrescere il proprio potere, ma quelle dei perdenti (Pd e Forza Italia) non possono non essere dettate anche da un istinto ben più basico, quello della pura e semplice sopravvivenza. Perché, che lo riconoscano o lo neghino più o meno sdegnosamente, questo l’hanno capito sia i dirigenti del Pd che quelli di Forza Italia: fra qualche anno i loro partiti potrebbero scomparire (è appena successo a Ncd e a Scelta civica), o precipitare nel limbo dei partiti piccoli e marginali.

Ma veniamo al nocciolo della questione: ce la possono fare a sopravvivere, o addirittura a tornare sopra il 20% dei consensi?

La mia impressione è che, se nulla cambia, la risposta sia negativa. Con queste classi dirigenti, con questo immobilismo culturale, con questa mancanza di idee nuove, non ce la possono fare. Per salvarsi, entrambi dovrebbero attuare una sorta di rivoluzione nei rispettivi mondi, rivoluzione che, per definizione, l’establishment di un partito non può essere portato a fare.

Non è solo questo, però. Sia Forza Italia, sia il Pd, scontano anche altri due fattori di debolezza. Il primo è il rischio di frammentazione legato alla nascita di un nuovo governo. Se ci sarà un accordo Di Maio-Salvini, è possibile che una parte di Forza Italia non ci stia (Brunetta lo ha già annunciato esplicitamente, parlando di sé). Se ci sarà un governo Cinque Stelle – Pd, è praticamente certo che una parte del Pd non ci starà (il che creerà degli enormi problemi di governabilità, visti i numeri in Senato). Per non parlare della ferita che si aprirebbe nel Pd ove, grazie ai suoi voti, si dovesse formare un governo di centro-destra.

Ma il fattore di debolezza maggiore, e il rischio di estinzione più serio, viene da un altro fronte ancora, e cioè quello dell’elettorato. Può piacerci o no (a me non piace), ma sta di fatto che, in una parte molto rilevante dell’elettorato, Movimento Cinque Stelle e Lega sono visti come declinazioni più pure, più chiare, più comprensibili di quel che partiti come Pd e Forza Italia dovrebbero rappresentare. Per molti elettori il Movimento Cinque Stelle, con il suo impegno contro la povertà, il suo giustizialismo, il suo moralismo anti-casta, il suo anti-berlusconiano, è una sorta di sinistra più sana, più genuina, meno innamorata del potere. E, specularmente, per molti elettori la Lega, con il suo programma radicale contro l’immigrazione irregolare, contro la legge Fornero, per una flat tax ultra-piatta (aliquota unica al 15%), è una sorta destra più netta, più chiara, meno disposta al compromesso.

Se Pd e Forza Italia saranno fagocitati da Cinque Stelle e Lega sarà per tanti motivi, compresi gli incredibili errori e le sorprendenti inadeguatezze delle rispettive classi dirigenti, ma verosimilmente sarà innanzitutto per l’ultima ragione di cui abbiamo parlato: l’incapacità di essere, ma forse sarebbe meglio dire di apparire, una vera sinistra e una vera destra.