Verso il tramonto della politica
“C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico” nel linguaggio politico del nostro tempo – sia dei professionisti del potere sia dei giornalisti e degli intellettuali opinion maker – ed è il ritorno di uno stile comunicativo, caratteristico soprattutto degli stati totalitari o teocratici, che abbatte i confini tra dimensioni dell’umano, che Benedetto Croce teneva distinte: il bello, il vero, l’utile e il buono.
Tra le distinzioni che stanno saltando la più preoccupante è quella tra il criminale e l’egoista. Si riteneva in passato che il criminale fosse colpevole di un reato punito dai codici e che l’egoista peccasse contro la morale e, se credente, contro Dio. Nessuno allora avrebbe portato in tribunale Ebenezer Scrooge, il protagonista del Racconto di Natale di Charles Dickens, ma quanti non avevano il suo cuore di pietra lo evitavano con cura, almeno prima della conversione. Col buonismo imperante, questo non sarebbe più possibile. Se ti rifiuti di soccorrere chi soffre la fame e il freddo, devi venir messo al bando dalla “società civile” e tanto meglio se si riesce a trovare una norma giuridica per farti riflettere al fresco sulla tua malvagità. Si allontanano i secoli in cui un Bernard de Mandeville poteva tessere l’elogio dell’egoismo, appellandosi al principio che se ciascuno pensasse al suo tornaconto, finiremmo per ritrovarci tutti più ricchi. Oggi se il medico-filosofo olandese, autore della Favola delle Api (1714), su licenza del Signore degli Abissi, tornasse sulla terra – come il don Giovanni dell’Occhio del diavolo di Ingmar Berman (1960) – troverebbe ad attenderlo don Lorenzo Milani, anche lui disceso sulla terra, questa volta per decreto dell’Altissimo, col compito di ricacciarlo tra le tenebre.
Intendiamoci, neppure a me piacciono gli egoisti ma mi terrorizza il pensiero che vengano trasformati in delinquenti comuni e che la perdita di stima e considerazione sociale alla quale vanno (giustamente) incontro debba scatenare nuove guerre civili.
Eppure è quanto si sta verificando nei nostri anni con la condanna solenne degli stati che chiudono le frontiere ai “dannati della Terra”, in cerca non di benessere ma di sicurezza. Non ci si chiede se chi prende una decisione senz’altro crudele, sia autorizzato legalmente a prenderla ma si passa subito alla denuncia accorata, alla gogna mediatica, con aggettivi forti (“vomitevole”) che non solo squalificano moralmente un governo ma lo delegittimano agli occhi dell’opinione pubblica europea e internazionale, chiamata a “prendere provvedimenti” nelle sedi nazionali e sovranazionali adatte. Col risultato sicuro di una eticizzazione della politica e del diritto che servirà solo – come nei ricordati regimi totalitari e teocratici – a rimuovere i problemi reali, ad azzerare il confronto tra le diverse strategie sociali, a far ricadere sulle mele marce tutti i disagi e le difficoltà legati all’incontro di “culture” diverse, lontane e spesso conflittuali. Con gli scellerati, infatti, non si dialoga ma li si smaschera come agenti di Satana.
Nella corruzione del linguaggio, un ruolo decisivo svolge ormai l’accusa di razzismo. Nella sua accezione forte e classica, il termine rinvia alla superiorità dell’uomo bianco sulle altre razze e al dovere di difendersene, ricorrendo anche allo sterminio, alla schiavitù o, nel miglior dei casi, all’apartheid. Definire razzista l’avversario politico, quindi, significa non riconoscergli alcun diritto alla parola e alcuna dignità, farne l’erede dei costruttori dei campi di sterminio nazisti. A chi fa osservare che di razzisti così nel nostro paese non se ne trovano – tranne qualche Obelix leghista o qualche intellettuale postcomunista, come la scrittrice che definì Condoleeza Rice una “scimmietta nera ammaestrata” – si risponde storicisticamente che oggi i razzisti sono costretti ad “attenuare i toni” giacché, se parlassero come i lettori della “Difesa della Razza”, finirebbero a mal partito.
In realtà, al fondo di tutto questo c’è una vasta operazione -soprattutto culturale- intesa a trasformare gli avversari in nemici. Chi non è con me, è contro di me. I campi sportivi in cui due squadre avversarie giocano la loro pacifica partita per stabilire chi debba governare si trasformano in trincee che vedono due eserciti nemici affrontarsi “l’un contro l’altro armati”. Sarà anche vero, come si legge sul Il Foglio di venerdì scorso, che «il discrimine fondamentale della politica italiana (…) oggi corre tra europeisti e sovranisti, pro o contro la strategia dell’integrazione continentale; e destra e sinistra su ciascuno dei due versanti di questo spartiacque, costituiscono solo due declinazioni di questa scelta fondamentale», ma se si presenta tale alternativa come la lotta tra Dio e il Diavolo, siamo al tramonto della politica ovvero alla fine della competizione civile che, in una democrazia reale, è sempre tra due (o più) progetti politici alternativi che riflettono valori e interessi diversi e rispettabili… e paure non tutte prive di fondamento, come ci ha insegnato Luca Ricolfi.
Personalmente sono più dalla parte degli europeisti che dei “sovranisti” ma perché dovrei ignorare quei pochi (o tanti) punti di forza che hanno portato i “barbari” a «svuotare la politica» e a dissanguare elettoralmente i vecchi partiti? Sono propenso a credere che non saranno i gialloverdi ad alleviare i disagi delle vittime della globalizzazione e condivido senz’altro i dubbi sugli “avvocati del popolo”. Non mi si dica, però, che gli elettori italiani sono stati raggirati da una masnada di falsi guaritori: i guaritori saranno pure falsi ma non sono stati loro gli untori che hanno diffuso la peste dell’antipolitica nel nostro paese: ad essa ha provveduto generosamente chi ci ha governato finora.