La Ley Trans contro le imprese

Quando si parla di diritti LGBT+, di norma lo si fa in termini sociali, giuridici o culturali. Per quanto riguarda, in particolare, il diritto a cambiare genere a piacimento, divenuto effettivo in Spagna dal marzo dell’anno scorso con la cosiddetta Ley Trans, le questioni di cui si discute sono del tipo: è giusto che i minorenni (over 16) possano cambiare genere senza il consenso dei genitori? è giusto che gli atleti maschi transitati a femmina gareggino nelle competizioni femminili? è accettabile che i carcerati biologicamente maschi accedano ai reparti femminili? è ammissibile cambiare genere per evitare il carcere in un processo per stupro? è giusto che le quote rosa siano occupate da maschi che si percepiscono come femmine?

Molta meno attenzione ha ricevuto il lato economico della faccenda. Che non consiste solo nel fatto che i passaggi da maschio a femmina possono essere sfruttati opportunisticamente per usufruire di benefici riservati alle donne, ma riguarda direttamente i conti delle imprese. È di questi giorni la notizia che a breve entreranno in vigore varie norme che comporteranno nuovi e pesanti obblighi per le imprese sopra i 50 addetti. Ad esempio: istituire iniziative di formazione e sensibilizzazione ai diritti LGBT+, redigere report annuali sulle politiche aziendali in materia, concedere speciali permessi retribuiti, promuovere la “eterogeneità della forza lavoro”, ovvero garantire una adeguata rappresentanza a determinate minoranze sessuali.

Si potrebbe pensare che, in questo, la Spagna sia particolarmente avanti rispetto agli altri paesi occidentali. In realtà è semmai vero il contrario. Linee guida pro-inclusione analoghe a quelle spagnole sono state adottate da moltissime imprese americane
soprattutto dopo il 2020 (anno dell’uccisione di George Floyd, e conseguente decollo del movimento Black Lives Matter), ma sono entrate in crisi nel 2023 e sono ora in precipitosa ritirata. La Spagna, in altre parole, sta facendo con 4 anni di ritardo un
esperimento – quello delle politiche DEI: Diversity, Equity, Inclusion – che è già ampiamente fallito negli Stati Uniti.

Perché è fallito?

È molto semplice: perché danneggia pesantemente la competitività delle imprese. Quando le politiche DEI sono prese sul serio, e non si riducono a qualche banale misura di facciata, il loro impatto sui conti economici aziendali può risultare molto severo.

Tre sono i meccanismi fondamentali che minano la salute e la vitalità delle imprese.

Il primo è l’aumento dei costi fissi, perché le politiche DEI possono essere molto dispendiose: assumere personale dedicato, pagare esperti e consulenti, fare indagini interne, attuare misure di sorveglianza, istituire corsi di sensibilizzazione, comporta
sia cospicui costi diretti, sia non trascurabili costi indiretti, sotto forma di tempo sottratto ad attività aziendali vere e proprie.

Il secondo meccanismo riguarda le politiche di assunzione. Il fatto di avere vincoli o obiettivi di rispetto di quote (tot posti per minoranze di vario tipo), nella misura in cui impedisce all’impresa di assumere i dipendenti valutandoli solo per l’adeguatezza a
ricoprire determinate mansioni, impatta inevitabilmente sulla produttività del lavoro, ovvero sul valore aggiunto per addetto.

Il terzo meccanismo è la comparsa di un disincentivo a superare i 50 addetti se l’impresa è di poco sotto la soglia, e – simmetricamente – la comparsa di un incentivo a ridurre l’occupazione se è appena al di sopra dei 50 addetti.

Non a caso, da tempo le imprese spagnole e i loro rappresentati manifestano dubbi e preoccupazioni in vista dell’entrata in vigore delle norme della Ley Trans che impattano sui bilanci aziendali. I due tempi dell’esperienza americana – prima adesione entusiastica, poi precipitosa retromarcia – suggeriscono che quei dubbi e quelle preoccupazioni non siano campate per aria.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 ottobre 2024]




L’illusione fiscale

C’è un ritornello, che sento da almeno trent’anni, più o meno da quando finì la prima Repubblica e l’Italia smise di crescere più della media delle economie avanzate. Il ritornello dice: se la (sacrosanta) lotta all’evasione fiscale avesse successo, e tutti pagassero le tasse dovute, l’Italia risolverebbe d’incanto tutti i suoi maggior problemi; con quei 100 miliardi di gettito addizionale, infatti, potremmo abbattere le liste d’attesa negli ospedali, costruire asili nido, pagare di più gli insegnanti, combattere la povertà.

Sembra un discorso ineccepibile, ma è del tutto sbagliato. Far pagare le tasse agli evasori è opportuno, oltreché giusto, ma le conseguenze di un fisco implacabile non sarebbero quelle attese, per vari motivi.

Intanto, perché una parte dell’evasione è “di sopravvivenza” (copyright: Stefano Fassina, economista e politico di sinistra). Ci sono operatori economici che semplicemente chiuderebbero, se dovessero pagare le tasse fino all’ultimo centesimo. Farli fallire è senz’altro una buona cosa in un’ottica liberista e schumpeteriana, per cui l’uscita dal mercato delle imprese inefficienti è il prezzo per alzare la produttività media (si chiama “distruzione creatrice”), ma si deve sapere che l’effetto immediato sarebbe la distruzione di centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Ma c’è anche un altro motivo di riflessione. Anche ammesso che nessuna attività economica sia costretta a chiudere, l’effetto aggregato di un azzeramento dell’evasione sarebbe uno spaventoso aumento della pressione fiscale, già oggi una delle più alte fra le società avanzate. Oggi è circa il 43%, ma sfiorerebbe il 50% se al gettito attuale si dovesse aggiungere quello mancato a causa dell’evasione. Ma nessuna società avanzata raggiunge o sfiora il 50% di pressione fiscale, perché se ciò accadesse si arresterebbe completamente la crescita.

Dobbiamo dunque rinunciare a combattere l’evasione fiscale?

Assolutamente no. Quello cui dobbiamo rinunciare è l’illusione che la lotta all’evasione possa finanziare altra spesa pubblica. L’unica destinazione ragionevole delle maggiori entrate è l’abbassamento delle aliquote a chi già paga le tasse, a partire dalle imprese, che oggi hanno una tassazione globale (tasse + contributi sociali) che sfiora il 60%, superata solo da quella della Francia.

E i problemi del nostro stato sociale? Se il gettito recuperato non può essere destinato a rinforzare il welfare, come se ne esce?

Se vogliamo essere realisti, temo che dobbiamo rassegnarci ad alcune verità amare, presumibilmente indigeribili per qualsiasi leader politico. La prima è che la spesa pubblica corrente non può aumentare più del Pil, e quindi – falliti quasi tutti i tentativi di spending review – la via maestra per rafforzare lo stato sociale è tornare a crescere a un ritmo apprezzabile (cosa impensabile senza un drastico abbassamento della pressione fiscale sulle imprese). L’altra verità, documentata già un quarto di secolo fa dal rapporto Onofri (febbraio 1997), è che il male primario del nostro stato sociale è il suo squilibrio: la spesa previdenziale (pensioni) fa la parte del leone, soffocando tutto il resto. Se la spesa per le pensioni fosse allineata alla media europea, potremmo permetterci migliori ospedali, migliori scuole, migliori università, migliori servizi ai cittadini.

Ma questo è un altro, difficile, discorso: la demagogia in materia di pensioni, e la connessa rinuncia a puntare sulla previdenza complementare, è fra le colpe maggiori delle nostre classi dirigenti, fin dai tempi della prima Repubblica (ricordate gli insegnanti in pensione a 40 anni?). Un male aggravato dall’invecchiamento della popolazione, e da un tasso di occupazione che, nonostante i recenti progressi, resta il più basso dell’occidente.

Sarà un caso che, fra le società avanzate, siamo – contemporaneamente – quella con il tasso di occupazione più basso e quella che più si accanisce su chi produce?




Economia cannibale

Per migliaia di anni le più antiche comunità umane hanno praticato il cannibalismo, o fatto ricorso a sacrifici umani a scopo rituale. Poi si sono stabiliti dei tabù e queste pratiche sono state messe al bando per sempre. Per questa ragione dobbiamo essere ottimisti sulla possibilità di riuscire a superare, nella faticosa strada del divenire umani, anche quella che Jean Daniel Rainhorn, professore dell’Università di Ginevra, chiama ‘economia cannibale’.

Rientrano in questa categoria le pratiche di economia globalizzata neo-liberale che hanno per oggetto di scambio, singole parti del corpo umano o corpi nella loro interezza. Banche -non a caso si chiamano così- del seme e degli ovociti, uteri in affitto per la maternità surrogata, compravendita di gameti, di organi e di patrimonio genetico, traffico di esseri umani per la loro riduzione in schiavitù e/o prostituzione. È una nuova branca dell’economia che cannibalizza gli esseri viventi. Il corpo degli umani è considerato puro assemblaggio di organi e il vivente diventa una risorsa materiale. A chi può permettersi di acquistarlo è riconosciuto il ‘diritto’ o la facoltà di farlo. Questa economia neo-liberale ha progressivamente ridotto gli esseri umani a ‘risorse biologiche’ introducendo un processo di reificazione e riduzione a merce dei soggetti.

Il processo è cominciato negli anni ’80 del Novecento con la pratica della brevettabilità. Sulla spinta di società di bio-ingegneria coadiuvate da genetisti di fama e da una certa lobby di medici sono stati depositati brevetti su organismi viventi, geneticamente modificati e non, e su intere sequenze genetiche, comprese quelle umane.

La filiera del mercato globale per la produzione di bambini come prodotti di qualità (quelli difettosi sono scartati e le madri surrogate in questo caso non vengono pagate) è -dopo la riduzione in schiavitù -la più grande violenza che si possa immaginare fatta a donne e bambini. Ma l’economia cannibale produce enormi profitti.

Un altro ramo fiorente di questa economia è quello legato ai percorsi di transizione da maschio a femmina e viceversa. Percorsi che richiedono un precoce bombardamento ormonale di bambine e bambine al fine di adeguare attraverso la chimica il senso di sé al corpo considerato ‘sbagliato’.

Alcune di queste pratiche sono intimamente legate al filone di pensiero conosciuto come transumanesimo. Se vogliamo sconfiggerle e metterle al bando per sempre è necessario fare un passo indietro e risalire alle riflessioni di alcune pensatrici che con le loro teorie hanno fortemente contribuito all’affermazione di questa deriva .

Donna Haraway col suo Manifesto cyborg (1985) e Judith Butler col suo Gender trouble (1990) hanno ingaggiato vere e proprie colluttazioni teoriche con la carne umana come ha acutamente osservato M.Terragni in un recente articolo.

Judith Butler ha sempre sostenuto che il sesso è costruito culturalmente proprio come il genere, frutto di un atto linguistico performativo. Anche il corpo è dunque una costruzione e non ha un significato prima di essere ‘marcato’ dal punto di vista del genere. La realtà del corpo ha perso ogni consistenza fino a scomparire. E il primo corpo a dover scomparire è quello della donna. Ma il dato biologico cacciato dalla porta finisce col rientrare dalla finestra quando si teorizza la ‘vulnerabilità’ dei corpi viventi (Bodies that matter). Essa non è una costruzione linguistica ma attiene strettamente alla fragilità e mortalità dell’essere umano.

Donna Haraway invece ha spinto fino in fondo le sue riflessioni sulle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita degli esseri umani. Il cyborg, organismo cibernetico, ibrido tra macchina ed essere umano permette di comprendere come la pretesa ‘naturalità’ dell’uomo sia in realtà una costruzione culturale. Il corpo diventa territorio sperimentazione e di manipolazione. Il corpo smette dunque di essere inalterato e intoccabile: può essere trasformato e gestito a piacimento. Cade il mito che vede il corpo come sede di una naturalità opposta all’artificiosità e crolla di conseguenza il sistema di pensiero occidentale incentrato sulla contrapposizione degli opposti. Il cyborg non è né macchina né uomo, né maschio né femmina. Cadono tutti i confini e tutti i dualismi. Uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente, umano /animale ecc. In questo percorso Donna Haraway è cosi approdata a quella che J.F. Braunstein definisce zoofilia cosmica. Nel suo ‘Manifesto delle specie compagne’ e nel successivo ‘Quando le specie si incontrano’ esalta la relazione sessuale molto soddisfacente con la sua cagnetta Cayenne Pepper e i suoi baci profondi e umidi. Siamo quindi arrivati a una sorta di butlerismo reale egemonizzato dal mercato che ha saputo intercettare i desideri e le fantasie circolanti per farne prodotti liberamente acquistabili.

Il lavoro da fare per superare le risposte del mercato neoliberale capitalistico è quello di una battaglia culturale e politica profonda e senza compromessi. ‘Liberi di…liberi da ‘ lo slogan che faceva presagire una mitica età dell’oro in cui tutto sarebbe stato concesso (fors’anche l’immortalità) e non ci sarebbero stati vincoli di sorta al desiderio di onnipotenza, ha mostrato crepe insanabili.

Ci si può liberare dagli stereotipi e dalle costrizioni con un assiduo lavoro di introspezione, ma c’è una cosa da cui in nessun modo ci si può liberare: la condizione umana. Quella che Hannah Arendt ha messo al centro della sua riflessione in Vita Activa. ’La condizione umana designa ciò che segna il nostro essere al mondo, quel che non dipende da noi, che ci è dato senza averlo scelto. Ciò da cui si parte. Essa condiziona qualsiasi posizione noi assumiamo nei suoi confronti, compresa quella della sua negazione. Detto in altri termini la sua caratteristica è l’irriducibilità, rappresenta di fatto il limite primo costitutivo da cui non si può prescindere in quanto oltrepassa il nostro controllo e la nostra presa’( D.Sartori).

Questo non impedisce beninteso la nostra libertà che si sperimenta come realtà concreta nello spazio pubblico, nell’agire politico con gli altri esseri umani dando inizio a qualcosa di inedito e di inatteso. É la natalità che designa questo aspetto della condizione umana in virtù della quale siamo capaci di introdurre qualcosa di nuovo .

Per tornare alla differenza sessuale da cui siamo partiti essa non è riducibile al discorso e al linguaggio ma è un dato reale nell’accezione corrente del termine. Le teorie del gender si sono affermate e imposte sulla scia dei rivolgimenti seguiti all’onda lunga del ’68, al ‘vietato vietare’, ’l’immaginazione al potere’….come un vero e proprio imperialismo culturale. Esse hanno cancellato con un colpo di spugna il senso della differenza sessuale, che non attiene soltanto all’ordine simbolico, ma all’ordine di quei dati di fatto irriducibili che lo stesso ordine simbolico deve assumere muovendosi tra la condizione di necessità e quella di libertà. Il taglio della differenza sessuale operato dal femminismo ha rimesso in gioco la linea di demarcazione tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Non siamo liberi dalla condizione data ma liberi nell’attribuzione di senso di quella condizione. Dobbiamo tenere insieme i due poli, necessità/ libertà, sapendo riconoscere quel che dipende da noi e quel che non dipende da noi.

La teoria gender ha finito per dimenticare il corpo, ma il corpo è il primo confine. E non bisogna dimenticare mai che non c’è simmetria tra i sessi. C’è solo un corpo che ha la capacità di generare, quello delle donne, e non sarà certo il linguaggio che invoca un presunto ‘diritto di procreare’ a cambiare il dato puro e semplice.

Il pensiero queer, che prende le mosse da quello gender, punta all’indifferenza sessuale esaltando l’egualitarismo. In questo modo la differenza sessuale diventa una sorta di variabile corporea buona per tutti gli usi che se ne vogliano fare in continuità col sogno prometeico di liberarsi dal peso del corpo superando quella che Gunther Anders chiamava la vergogna di non essersi fatti da sé.

Il pensiero della differenza ci ha reso libere dalla coercizione di ruoli imposti e accettati come destino naturale dovuto alla nostra differenza ma ci ha ha anche liberato dalla ossessione emancipazionista che ci vuole uguali agli uomini in tutto e per tutto, neutre, rendendo insignificante la nostra differenza. Noi però non abbiamo mai dimenticato che la nostra libertà non è onnipotente, non è incondizionata ma è capace di riconoscere la condizione umana incarnata che può fondare un nuovo umanesimo a radice materna, dove la relazione madre/figli sia nuovamente centrale nel percorso del divenire umani.

Luciana Piddiu
Ferney Voltaire 31 Maggio 2023




Nel segno dell’inflazione

Che l’inflazione sia, in questo momento, il nostro maggior problema economico-sociale è cosa di cui pochi dubitano. Dove invece i pareri divergono è sulle sue cause, le sue prospettive, le sue conseguenze sociali, i mezzi per combatterla.

Le cause. Temporalmente, l’inflazione dei prezzi al consumo è esplosa quest’anno, in corrispondenza con lo scoppio della guerra in Ucraina. Ma l’impulso che l’ha alimentata, spesso ce ne dimentichiamo, risale a circa due anni prima, quando – nella primavera del 2020 – è partita la corsa dei prezzi delle materie prime (specialmente metalli, gas, petrolio) e sono iniziate le prime difficoltà di approvvigionamento globale legate alla pandemia, e successivamente anche al blocco del canale di Suez. C’è voluto circa un anno perché gli aumenti si trasferissero sui prezzi all’importazione e sui costi di produzione delle imprese, e un ulteriore anno perché si scaricassero sui prezzi al consumo. È quel che è successo nel 2022, e continua nel 2023. La guerra ha ovviamente peggiorato le cose, ma non è l’origine delle tensioni attuali sui prezzi, che risentono anche della ripresa della domanda, favorita dagli stimoli fiscali dei governi e dall’ingente risparmio accumulato durante la pandemia.

Le prospettive. Su questo, come quasi sempre accade, gli economisti sono divisi. Se l’inflazione è prevalentemente da domanda, ha ragione la Bce che tenta di raffreddarla con l’aumento dei tassi di interesse, ma se invece è da costi, allora le politiche restrittive rischiano di essere poco efficaci, se non controproducenti. Per il 2023 la previsione dominante è di un rallentamento della corsa dei prezzi, ma sulla sua entità c’è grande incertezza. Contrariamente a una percezione molto diffusa, i prezzi del petrolio attuali non sono particolarmente alti, e il problema, semmai, è che sono destinati a salire in corso d’anno (così Davide Tabarelli, uno dei nostri massimi esperti di questioni energetiche). Il rischio che al 10-12% di inflazione attuale si aggiunga un 5-6% nei prossimi mesi è reale.

Le conseguenze sociali. Se, come non è inverosimile, il biennio 2022-2023 dovesse registrare un aumento (cumulativo) dei prezzi al consumo prossimo a 20% (rispetto al 2021), a fronte di un aumento del Pil nominale di poco superiore al 10%, dovremmo attenderci una erosione del potere di acquisto compresa fra il 5 e il 10%.

Ma chi pagherà il conto?

La risposta standard è: i pensionati e i lavoratori dipendenti che, a differenza delle imprese e dei lavoratori autonomi, non possono trasferire sui prezzi gli aumenti dei costi. Ma è una risposta un po’ affrettata, che non fa i conti con la complessità del tessuto produttivo del paese e con la legislazione vigente.

Per quanto riguarda i pensionati, ad esempio, occorre notare che le fasce basse saranno protette dalla indicizzazione delle pensioni al costo della vita (mantenuta dal governo Meloni), mentre a perdere pesantemente potere di acquisto saranno le fasce alte e medie, per le quali l’indicizzazione è stata attenuata dalla legge di Bilancio.

Riguardo ai lavoratori dipendenti, non è detto che il loro destino sarà peggiore di quello dei lavoratori autonomi. Il fatto è che entrambe le categorie sono molto eterogenee al loro interno. Fra i lavoratori dipendenti rischiano di più i lavoratori a termine e gli addetti delle piccole imprese, poco coperti dalla contrattazione sindacale e dallo Statuto dei lavoratori. Fra i lavoratori autonomi rischiano di più quanti, operando sul mercato internazionale, non possono scaricare sui prezzi di vendita l’aumento dei costi. Per questi lavoratori, e per i loro dipendenti, la spada di Damocle non è una riduzione del 5 o del 10% del loro potere di acquisto, bensì la perdita del posto di lavoro conseguente alla chiusura dell’attività. La vera frattura, in Italia, non è fra lavoro autonomo e lavoro dipendente, ma fra chi opera nella società delle garanzie (dipendenti pubblici e lavoratori stabili delle imprese medio-grandi) e chi opera nella società del rischio (lavoratori autonomi e loro dipendenti).

Che fare. Se l’obiettivo è contenere l’aumento dei prezzi, forse sarebbe saggio prendere atto della realtà: a dispetto delle campagne contro gli speculatori, l’inflazione italiana, come quella degli altri paesi europei, è un fenomeno esogeno, su cui i governi nazionali hanno pochissima influenza. Fondamentalmente, l’andamento dei prezzi dipenderà dalla guerra in Ucraina, dalle scelte della Russia, dalla pandemia, dalla Bce, dalle misure più o meno protezionistiche adottate dagli Usa e dalle contromosse europee. Inutile pensare che l’Italia, da sola, possa spostare il tasso di inflazione interno più di uno o due decimali. Tanto più che un’inflazione elevata è un toccasana per i conti pubblici dei paesi più indebitati.

Dove invece qualcosa si può fare, è nella gestione delle conseguenze dell’inflazione. Ma che cosa, posto che non possiamo indebitarci ancora di più?

Forse, se il rischio maggiore che corriamo è un’ulteriore riduzione della base produttiva, con chiusura di imprese e perdita di posti di lavoro, le poche risorse disponibili potrebbero essere concentrate su due obiettivi, circoscritti ma di grande importanza.

Il primo potrebbe essere di stimolare la formazione di nuovi posti di lavoro con massicce riduzioni del cuneo fiscale concentrate sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Il secondo obiettivo potrebbe essere di garantire uno speciale supporto ai lavoratori (autonomi e dipendenti) i cui redditi andranno a zero come effetto di fallimenti e chiusure. Un’operazione, questa, che sarebbe naturale condurre nell’ambito della annunciata ristrutturazione del reddito di cittadinanza: dopotutto, proprio perché hanno appena perso il lavoro, quei lavoratori sono sicuramente occupabili, nonché provvisti di qualche professionalità.




Altro che modello italiano sulla pandemia. Intervista a Luca Ricolfi

Un anno particolare, segnato dalla pandemia e da una crisi economica senza precedenti. Dove si torna a discutere del ruolo dello stato sociale e soprattutto della scuola e della sanità pubblica in una società, quella italiana, per la quale Luca Ricolfi, politologo e sociologo, ha coniato l’espressione “società signorile di massa” (una società dove molti consumano ma pochi producono perché si fonda sulla ricchezza accumulata dai padri).

Professor Ricolfi, mancano meno di due settimane all’inizio dell’anno scolastico. Lo considera l’ultimo banco di prova della tenuta dello stato di emergenza? Si sente ottimista?
Né ottimista né pessimista, perché purtroppo mancano (o meglio sono secretati) i dati che permetterebbero di formulare previsioni solide. Quello che posso dire, con i pochi dati che la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità rilasciano, sono essenzialmente due cose.
La prima è che fra i paesi avanzati, che sono una trentina, solo tre – Belgio, Spagna e Regno Unito – hanno un bilancio complessivo di morti (per abitante) peggiore di quello dell’Italia.
La seconda è che, se guardiamo al solo mese di agosto, le cose vanno un po’ meglio per noi: l’Italia è intorno alla metà della classifica fra i paesi avanzati, e fra i grandi paesi solo Germania, Giappone, Corea del Sud, presentano tassi di mortalità più bassi dei nostri.

Didattica a distanza, cattedre vuote, edilizia scolastica in condizioni critiche, è il momento di ripensare tutto il modello della nostra istruzione pubblica oppure non c’è spazio che per la gestione dell’emergenza?
Veramente è da mezzo secolo che sarebbe il momento di ripensare il sistema dell’istruzione. Magari non pensando solo all’edilizia e alle graduatorie dei precari ma anche al fatto che la qualità dell’istruzione (e dei docenti) si è abbassata drammaticamente, e ora con la didattica a distanza si appresta a ricevere il colpo di grazia. Travolte dalle pressioni a promuovere, per dare all’Europa i numeri che pretende, scuola e università sono diventate macchine per produrre false certificazioni, o meglio certificati veri indistinguibili da quelli falsi.

Altri Paesi adesso guardano con interesse al modello Italia, almeno per la gestione sanitaria del Covid-19.  Crede che la nostra consapevolezza e la profilassi ormai entrata nelle abitudini quotidiane ci eviteranno un ritorno al lockdown?
A giudicare dai risultati, sconsiglierei qualsiasi paese di seguire il modello italiano, fatto di ritardi, disorganizzazione, leggerezza nel far rispettare le regole, incapacità di far ripartire l’economia. Siamo al 4° posto in Europa come numero di morti per abitante, e all’ultimo come andamento del Pil 2020. Come si fa a parlare di modello italiano?
Se dovessi additare dei modelli, citerei piuttosto quello della Germania e quello della Corea del Sud, due paesi che molti media stanno descrivendo come attualmente più inguaiati di noi, ma che in realtà si stanno comportando meglio: anche considerando il solo mese di agosto, il numero di morti per abitante della Germania è poco più della metà di quello dell’Italia, e quello della Corea del Sud è circa un sesto.

Emergenza sanitaria ed economia non sono mai stati così correlati. Quando saremo fuori dal pericolo del contagio tornerà il modello economico che è entrato ora in crisi o cambierà qualcosa?
Una cosa nuova ci sarà di sicuro, anche se la pandemia dovesse miracolosamente sparire nel 2021: il mondo occidentale si troverà ad avere perso ulteriori posizioni nella competizione con la Cina.
Sul fatto che possa tornare il modello economico precedente, ho i miei dubbi, almeno per l’Italia. Noi eravamo già una “società signorile di massa” in declino. Questi mesi li abbiamo usati per tappare le falle e congelare tutto, senza la minima attenzione a creare le condizioni di una ripartenza. Quel che mi aspetto, quindi, è un brusco risveglio nel primo semestre 2021, quando ci si accorgerà che non si può andare avanti in eterno con i sussidi e il blocco dei licenziamenti.

Lo smart working secondo lei cambierà il volto delle nostre città e il settore dei servizi?
Sì, lo cambierà, con un abbattimento parallelo dei costi e della qualità.

Più volte lei ha lamentato in passato il rischio di finanziamenti a pioggia per riparare i danni economici di questa crisi. Ma è davvero possibile in un momento simile pianificare interventi a lungo termine?
Certo che è possibile, basta togliere la parola “pianificare”. Non si tratta di pianificare, ma di creare un ambiente – meno tasse e meno burocrazia – che consenta ai produttori di restare sul mercato o di entrarvi. L’alternativa è di diventare una “società parassita di massa”, in cui una piccola minoranza lavora e la maggioranza vive di trasferimenti.

Dalle prime misure di marzo a oggi il governo ha dovuto prendere decisioni poco popolari. Ora che siamo tornati in campagna elettorale crede sia difficile conquistare il consenso degli elettori senza perdere di vista il bene comune?
Era già impossibile prima, figuriamoci oggi. Il governo Conte è un mirabile esempio di esecutivo basato esclusivamente sulla massimizzazione del consenso, anzi del consenso di breve periodo.

A proposito di elezioni, cosa pensa del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari?
Penso che qualsiasi cosa si voti si sbaglia. Votando sì, si legittima il qualunquismo grillino, e si rafforza un governo che ha già notevolmente compromesso il nostro futuro. Votando no ci si accoda a un penoso tentativo di vestire di nobili intenzioni (la Costituzione, la Democrazia, ecc.) la fame di posti del ceto politico.

Le Regionali in piena pandemia e durante una conclamata crisi economica che banco di prova rappresentano per il governo?
Nessuno può saperlo. Se hanno avuto il fegato di fare un governo che se ne infischia di un voto politico (quello del 2018), non mi stupirei restassero abbarbicati al potere di fronte a un voto amministrativo, anche dovessero perdere in 6 Regioni su 6. Se proprio devo immaginare degli scenari capaci di mettere in crisi l’attuale governo, le eventualità che mi vengono in mente sono altre, nessuna auspicabile: 1 milione di posti di lavoro distrutti, una tempesta finanziaria, una nuova chiusura di scuole e università, una proliferazione dei focolai e dei connessi lockdown.

Intervista di Pierfrancesco Borgia  a Luca Ricolfi, Il Giornale, 2 settembre 2020