Perché non possiamo stupirci – Il ritorno dell’antisemitismo
Le piazze occidentali, prima ancora che scattasse la reazione israeliana all’eccidio del 7 ottobre, si sono riempite di manifestanti solidali con la causa palestinese, ferocemente ostili ad Israele, per niente critici con Hamas. Contemporaneamente, nei quartieri delle grandi città, intorno alle sinagoghe, nei cimiteri si sono moltiplicati i gesti esplicitamente antisemiti. Mai, dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla chiusura dei campi di sterminio hitleriani, si era sentito tanto odio verso gli ebrei, i loro simboli, le loro istituzioni.
Di fronte a tutto questo, la reazione di tanti liberali, più che di indignazione, è stata di incredulità. A molti è parso semplicemente inconcepibile che, dopo tanti anni passati a denunciare gli orrori della Shoah, le nostre avanzatissime società democratiche dovessero scoprire, improvvisamente, di non avere gli anticorpi per arginare l’antisemitismo. Ed è parso sconvolgente che i primi a non avere quegli anticorpi fossero proprio i più giovani e istruiti, a partire dagli studenti delle grandi università americane.
Ma è davvero stupefacente la marea antisemita che è montata in queste settimane? È davvero sconvolgente che, a tanti settori della sinistra, risulti impossibile denunciare la natura terroristica di Hamas? È davvero strano che, dopo decenni di politicamente corretto e di antirazzismo, il mondo progressista non senta il bisogno di scendere in piazza contro il moltiplicarsi degli episodi di antisemitismo?
Ebbene no. Non è affatto strano. Una ragione c’è, anzi ce ne sono parecchie. La più importante è che, in questi quasi 80 anni che ci separano dalla liberazione dal nazi-fascismo, la persecuzione degli ebrei è stata raccontata in modo storicamente fuorviante e ideologicamente strumentale.
Storicamente fuorviante perché è stata completamente omessa la storia delle innumerevoli persecuzioni degli ebrei nell’antichità, nel medioevo, nell’era moderna, prima e soprattutto dopo le leggi razziali e i campi di concentramento. Che cosa sanno i ragazzi, per stare solo agli ultimi due secoli, dei pogrom (stermini di massa) contro gli ebrei in Ucraina, in Bielorussia, in Unione sovietica, con e senza Stalin? Che cosa è stato loro raccontato dell’antisemitismo dei giorni nostri, in Europa come in Nordamerica?
Fondamentalmente, nulla. L’antisemitismo è stato raccontato come una follia del regime nazista, cui malauguratamente e colpevolmente aderì anche il fascismo. Dunque come un unicum, un colpo di testa della storia universale, per scongiurare il cui ripetersi era doveroso (e sufficiente) l’impegno antifascista e antinazista, la vigilanza permanente dei sinceri democratici contro i rigurgiti del regime. Come se l’antisemitismo fosse un’esclusiva del nazi-fascismo, e non un atteggiamento ad ampio spettro, che ha profondamente coinvolto anche altri paesi e altre ideologie, a partire dal comunismo, dal fanatismo islamico, dallo stesso cristianesimo. Il “dovere della memoria” rispetto alla tragedia di Auschwitz è stato ridotto e sminuito, strumentalmente, ad arma di lotta politica, senza preoccuparsi di trasmettere conoscenza e costruire consapevolezza sul dramma degli ebrei. Possiamo stupirci che, con queste premesse, l’occidente oggi si trovi senza anticorpi?
Si potrebbe obiettare che, almeno un aspetto delle vicende di questi giorni sia stupefacente, e cioè lo scambio di ruoli fra destra e sinistra, con la destra (presunta erede del fascismo) che difende Israele e si indigna per gli episodi di antisemitismo, e la sinistra che non ce la fa a condannare Hamas senza tentennamenti, precisazioni, distinguo. Ma anche questo non è strano, a pensarci bene. Non solo perché c’è, in una parte della sinistra, una lunga tradizione di ambiguità sulla legittimità della violenza, della lotta armata, del terrorismo, allorquando sono al servizio di una causa percepita come giusta; ma anche perché c’è – nella mentalità progressista – una fondamentale incapacità di vedere gli attori delle vicende umane come responsabili delle loro azioni.
L’uccisione di civili inermi, gli stupri, le decapitazioni, non vengono giudicate per quello che sono, ossia scelte di chi le compie, ma giustificate come reazioni – inevitabili, quasi meccaniche – dei più deboli di fronte a una condizione insostenibile dovuta alla prepotenza dei più forti. I terroristi non sono visti come esseri umani, cui chiedere conto delle proprie azioni, ma come macchine irresponsabili del loro operato,
deterministicamente mosse dalla situazione oggettiva in cui si trovano.
Ma non funziona così. Ce lo ha ricordato qualche giorno fa dalle colonne della Stampa il teologo Vito Mancuso, riprendendo la testimonianza dello psicologo viennese Victor Frankl (un sopravvissuto ad Auschwitz) sulle condizioni nel campo di sterminio: “per fortuna o sfortuna che sia, la libertà esiste davvero”; e “tutto ciò che accade all’anima dell’uomo è frutto di una decisione interna. In linea di principio ogni uomo, anche se condizionato da gravissime condizioni esterne, può in qualche modo decidere che cosa sarà di sé”.
I terroristi di Hamas, che cosa essere, lo hanno deciso: non esiste alcuna “situazione oggettiva” che può averli costretti a fare quel che hanno fatto.