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Il maschilismo è anche in noi donne?

28 Novembre 2024 - di Paola Mastrocola

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Se vivessimo in un sistema patriarcale, noi donne saremmo tutte chiuse in casa. A pranzo e a cena serviremmo i nostri mariti e parleremmo solo se interrogate. Invece andiamo ogni giorno dove ci pare e parliamo ovunque e a chiunque, dicendo quel che pensiamo.

Se vivessimo in uno stato fascista, saremmo costretti ad andare alle adunate e, se ci opponessimo al regime verremmo incarcerati, torturati e uccisi. Invece mi pare che godiamo ancora e ampiamente di libertà di azione, di pensiero e di parola (sempre che la parola non ce la tolgano dei facinorosi invasati: ma questo è un altro discorso).

Stiamo attenti a usare bene le parole. Se le cause per cui vogliamo combattere sono giuste, non vanifichiamo le nostre lotte usando le parole sbagliate, perché le parole sbagliate rischiano di inficiare la giustezza delle nostre cause.

Se al bell’articolo di Viola Ardone, apparso su La Stampa tre giorni fa, sostituiamo la parola patriarcato con la parola maschilismo, tutto torna. Se non la sostituiamo, in alcuni di noi lettori può insinuarsi qualche perplessità. Per una semplice e banale ragione lessicale, e cioè perché nella parola patriarcato c’è sì la parola àrchein che vuol dire detenere il potere, comandare; ma c’è anche la parola pater. E se c’è una cosa che è sparita da decenni nel nostro mondo, è proprio il potere del padre. Già
solo andando a una sessantina d’anni fa, se penso a mio padre, non mi viene in mente la parola patriarcato. Mio padre, abruzzese, figlio di contadini, emigrato a Torino e poi grazie alle scuole serali ragioniere assunto alla Fiat, non m’impediva né di uscire né di parlare. Mi imponeva di tornare a mezzanotte, questo sì. Non era un patriarca, però faceva il padre. Un padre severo che educa i figli ponendo delle regole, ovvero insegnando loro l’esistenza di un limite: se lo oltrepassi, avrai un rimprovero o una punizione. Punto e basta. Allora esistevano i padri. Oggi fior di studiosi e psicanalisti ci avvertono da tempo che la figura del padre è evaporata. E questo è, semmai, uno dei problemi che affligge la nostra attuale società.

Che certe frange di patriarcato ancora esistano, in qualche anfratto del mondo occidentale e quindi anche da noi in Italia, non si può negare. Certamente esiste un macroscopico patriarcato nel mondo islamico, e quindi nelle famiglie di origine islamica che vivono da noi in Italia. Ed è terribile che non stiamo facendo niente per contrastarlo. È la loro cultura, diciamo. Quindi, in nome del nostro illuminato multiculturalismo, lasciamo imperterriti che certe atrocità dei maschi contro le donne si compiano sotto i nostri occhi. Imperterriti. Indifferenti. E, aggiungerei, ipocriti.

Di maschilismo invece è sacrosanto parlare. Non solo, è sacrosanto combatterlo.

Il maschilismo è un concetto più sfuggente e sottile, legato anche, a fattori naturali insiti nell’essere umano. È il risultato di una combinazione complessa di tratti storici, psicologici, sociali, ma anche biologici. E introdurre nel dibattito il fattore natura non ci piace. Preferiamo pensare che la civiltà sia un fatto solo di cultura. Anzi, che la cultura consista proprio nel riuscire a debellare quei rimasugli di natura che ancora restano in noi.

Maschilismo è l’idea che l’uomo debba essere virile, forte, dominante.

Da cui la violenza sulle donne, ma anche certa avversione o fastidio, ancora ahimè serpeggiante, verso il mondo omosessuale che palesemente contravviene a tale modello.

Combattiamo dunque il maschilismo. Ma in che modo?

Siamo sicure, noi donne, di combatterlo sempre e in ogni forma?

Penso alla nostra accettazione passiva di fronte ai messaggi pubblicitari che inondano ogni giorno le nostre vite, attraverso la televisione, i giornali e i social su cui passiamo tanto amenamente ore intere. Lì domina un’immagine della donna inequivocabile: femmina oggetto delle brame maschili, dove strumento primo e unico della seduzione è la bellezza, intesa in senso univoco e totalizzante, una bellezza dove giocano un ruolo principale il trucco, gli abiti, il corpo esposto. È un’immagine che portiamo
stampata dentro durante la nostra giornata, quando siamo al lavoro, a scuola, a casa, al bar, in palestra. Ovunque. Un modello a cui, forse inconsapevolmente, aderiamo in molte, un modello che abbiamo introiettato e a cui non ci sogniamo minimamente di opporci. Noi ci adeguiamo a quel modello, lo facciamo nostro. Se no perché mai decideremmo di uscire, di andare al cinema, al ristorante o a un convegno, truccandoci per ore, mettendo i tacchi 12, e scegliendo abiti con spacchi e scollature?

Non mi si venga a dire che lo facciamo per piacere a noi stesse. Non ci mettiamo i tacchi 12 per stare tutto il giorno in casa da sole a leggerci un libro. Lo facciamo per piacere agli altri, maschi o femmine che siano. E questo va benissimo, s’intende. La cosa deleteria è che pensiamo che, per piacere agli altri, occorra uniformarsi al modello femminile imperante. Eccolo, l’impero del maschio, il dominio maschile, il maschilismo: che è prima di tutto in noi donne.

Se volessimo combattere il maschilismo, ci sarebbe una strada più facile e ben più efficace che scendere in piazza con gli striscioni contro il patriarcato riempiendoci la bocca di slogan. Sarebbe uscire vestite come ci pare, senza ogni volta comporre (mettendoci quanto tempo e denaro!) il quadro artefatto di una bellezza omologata, così come la vuole il maschio dominante. Sarebbe l’idea che la bellezza vera di una donna passa attraverso ben altro, è infinitamente più composita, misteriosa. E potente.

Non sarebbe una grande rivoluzione?

Articolo uscito su La Stampa il 27/11/2024

Lezioni americane

11 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Sul fatto che le follie del politicamente corretto abbiano aiutato Trump, in questa elezione come in quella del 2016, quasi tutti convengono. Meno chiaro, invece, è quali lezioni, dalla vittoria di Trump e dalla sconfitta di Harris, possano trarre la sinistra e la destra in Europa.

A prima vista, chi ha più da imparare è la sinistra. Per lei, la lezione principale è che l’adesione acritica alle istanze del politicamente corretto (cultura woke, ideologia gender, cancel culture) è una zavorra elettorale insostenibile, tanto più se – come
accade in Italia, Francia, Germania – il mondo progressista è lacerato da profonde divisioni. È vero che la cosiddetta cultura dei diritti è diventata, da almeno tre decenni, il principale cemento identitario della sinistra e del suo sentimento di superiorità morale, ma bisognerà prima o poi prendere atto che continuare su quella strada la allontana sempre più non solo dai ceti popolari (che hanno altre priorità, a partire dalla sicurezza) ma anche da una parte del mondo femminile, che non vede di buon occhio le istanze dell’attivismo trans, specie quando comportano invasione degli spazi delle donne (carceri, competizioni sportive, centri anti-violenza, eccetera), rischi di indottrinamento nel mondo della scuola, transizioni di genere precoci per i minorenni, promozione della GPA (utero in affitto). Se vuole tornare a vincere, la sinistra dovrebbe smettere di attribuire ogni sconfitta alla disinformazione e ai poteri forti, e semmai prendere atto che aveva ragione Norberto Bobbio quando, a metà degli anni ’90, la avvertiva che rinunciare alla stella polare dell’uguaglianza a favore di quella dell’inclusione, come le suggeriva il sociologo Alessandro Pizzorno, era un errore, foriero di arretramenti e sconfitte.

Ma forse anche la destra avrebbe qualcosa da imparare, specie in Italia. Visto da destra, il follemente corretto di cui la sinistra si è resa prigioniera può diventare una straordinaria opportunità di definizione di sé stessa per così dire “a contrario”.

Culturalmente, la destra è sempre di più, non solo in Italia, l’unico argine significativo alla deriva woke negli innumerevoli campi in cui si manifesta. Anziché puntare sul controllo dell’informazione, sull’occupazione di posizioni nel mondo della cultura, su improbabili incursioni nello star system – più in generale: sul velleitario progetto di ribaltare l’egemonia culturale della sinistra – alla destra converrebbe forse prendere atto che la sua forza non sta nell’occupazione più o meno maldestra delle istituzioni, ma nell’aderenza alle istanze e alle visioni del mondo di ampi settori delle società capitalistiche avanzate.

Se le forze di destra stanno avanzando in Europa, e alcune loro istanze (come il controllo dell’immigrazione) si stanno manifestando anche a sinistra (emblematico il successo del partito di Sahra Wagenknecht in Germania), è perché quello in atto è un profondo smottamento della sensibilità collettiva. Uno smottamento che, fondamentalmente, consiste in una presa di distanze dalla cultura dei diritti e dai suoi eccessi, e si traduce in una richiesta di porre limiti, argini, freni ad alcune tendenze del nostro tempo. È dentro questa cornice che prendono forma la richiesta di contenere l’immigrazione illegale, garantire la sicurezza, ma anche frenare l’espansione di diritti percepiti come arbitrari (la scelta soggettiva del genere), o pericolosi (cambi di sesso degli adolescenti), o contrari all’ordine naturale delle cose (utero in affitto), o semplicemente pericolosi per le donne (invasione degli spazi femminili).

Già, le donne. Pochi ne parlano, ma uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni sono i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo, e più in generale nel comportamento elettorale delle donne. Nella campagna per le presidenziali americane è successo, per la prima volta, che una parte delle femministe, negli Stati Uniti (Kara Dansky) ma anche nel Regno Unito (Julie Bindel), si siano poste la domanda fatidica, fino a ieri inconcepibile: dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi di votare conservatore?

E non è tutto. Anche sul piano delle leadership, il panorama si sta facendo interessante. Dopo la recentissima ascesa di Kemi Adegoke, donna nera di origini nigeriane, a leader del partito conservatore britannico, sono immancabilmente donne
a guidare la destra nei quattro più grandi paesi europei: Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel in Germania, Giorgia Meloni in Italia, e appunto Kemi Adegoke nel Regno Unito.

Insomma, sia sinistra sia a destra, il materiale di riflessione non manca.

[articolo uscito sul Messaggero il 10 novembre 2024]

Mezzi di informazione e manifestazioni contro il self-id – Un inquietante silenzio

6 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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La notizia è che quasi nessuno, e meno che mai i grandi giornali e le grandi reti tv, ne ha parlato. Eppure è successo, un po’ dappertutto nel mondo (o più precisamente nei paesi democratici).

Parigi. Berlino. Milano. Madrid. Barcellona. Maiorca. Lisbona. Vienna. Praga. Berna. Copenhagen. Bruxelles. The Hague. Lussemburgo. Oslo. Londra. Manchester. Edimburgo. Dublino. Glasgow. Cardiff. Swansea. New York. Washington. Atlanta.
San Francisco. Chicago. Chennai, Tokyo. San Poalo, Buenos Aires, Rio de Janeiro. Taipei. Brisbane. Wellington. Montreal…

Sono decine e decine le grandi città in cui, il 1° novembre, si sono date appuntamento migliaia di donne per protestare davanti alle ambasciate e ai consolati della Germania. Perché tanto silenzio? Come mai ogni sera veniamo minuziosamente informati delle più banali, irrilevanti, o semplicemente ultra-localistiche manifestazioni di protesta, e nulla, invece, ci viene detto di quel che è appena capitato nelle principali città del mondo?

Per provare a capire, ricapitoliamo i fatti. Il 1° novembre, in Germania, è entrata in vigore una legge rivoluzionaria sul self-id, o autodeterminazione di genere. La nuova legge permette a chiunque di cambiare genere con un atto puramente amministrativo,
indipendentemente da qualsiasi valutazione di medici, psichiatri, psicologi, giudici. In particolare, permette a qualsiasi maschio di proclamarsi femmina, e così accedere a spazi e benefici riservati alle donne. Dove gli spazi invasi possono essere i reparti
femminili nelle carceri, i centri anti-violenza, le competizioni femminili nello sport. Mentre i benefici vanno dalle quote rosa in ambito economico o elettorale alle agevolazioni in materia di assunzioni e pensionamenti.

E non è tutto. Dopo aver cambiato genere una prima volta si può, dopo 12 mesi, tornare al sesso originario, e poi magari cambiare di nuovo, e così via per anni. In linea di principio, una persona può cambiare genere/sesso anche decine di volte, a seconda delle opportunità e dei rischi. Quanto ai minori, dall’età di 14 anni possono cambiare genere con il consenso dei genitori, e dai 14 ai 18 anni anche senza, purché un giudice dia l’ok.

Ma l’aspetto più paradossale della legge, fortemente voluta dalla cosiddetta coalizione semaforo (socialisti, liberali, verdi) è quel che implica per i neonati. Al momento di registrarli all’anagrafe, oltre al nome, ora i genitori potranno anche scegliere il genere fra quattro alternative: maschio; femmina; diverso; nessuno. Un bambino biologicamente maschio potrebbe trovarsi a dover fare i conti con una famiglia che lo tratta come una femmina, e viceversa (per non parlare dei bambini arbitrariamente considerati come di un genere “diverso”, o di nessun genere).

Infine, le sanzioni: chi trattasse un autopercepito lui come una lei (o viceversa), rischia una sanzione fino a 10 mila euro.

È contro tutto questo che si sono mobilitate le donne tedesche, ed è in loro aiuto che sono scese in piazza le donne in tante città di tutto il mondo.

Ed ora torniamo alla domanda iniziale: perché questo silenzio assordante dei mezzi di informazione sulle manifestazioni del 1° novembre a sostegno delle donne tedesche, vittime di una legge che ne comprometterà la sicurezza e ne eroderà le conquiste?

Sarò molto sincero: non mi è chiaro.

Una ragione potrebbe essere che il movimento di resistenza al self-id, pur avendo fra le sue promotrici Joanne Rowling e altre celebrità, è largamente minoritario (ma lo sono anche altri movimenti, di cui in realtà si parla parecchio). Un’altra ragione,
potrebbe essere che, a giudicare dalle immagini circolate nei giorni scorsi, l’età media delle femministe che protestano contro il self-id è abbastanza avanzata (qualcuno potrebbe dire che si tratta soprattutto di boomers, nate fra il 1946 e il 1964). Un’altra
ragione ancora potrebbe essere la forza e l’ubiquità del politicamente corretto, che privilegia nettamente la comunità trans, a scapito del mondo femminile.

Ma anche quest’ultima ragione non mi convince granché: tutta la stampa di destra è ostile alle rivendicazioni trans, eppure anch’essa è rimasta in silenzio. Insomma, il rebus sembra restare tale.

Forse, per capire, dobbiamo scavare in altra direzione. Il punto debole dei presidi davanti alle ambasciate germaniche potrebbe essere, semplicemente, la loro compostezza. Nessuna delle donne scese in piazza ha bloccato il traffico, o imbrattato monumenti, o scagliato molotov contro la polizia. Nessuna si è spogliata, nessuna ha lanciato sassi, nessuna ha gridato slogan offensivi.

Manifestare pacificamente non paga?

[articolo inviato alla Ragione il 3 novembre 2024]

Elezioni Usa – I silenzi di Harris e Trump

4 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Se i sondaggi sulle elezioni americane non mentono, il risultato finale sarà vicino a un pareggio. E immancabilmente ascolteremo innumerevoli spiegazioni dell’esito del voto, che sarà agevole attribuire a specifici fattori (l’immigrazione, l’economia, la
sanità…) o a specifici gruppi sociali (i maschi bianchi, gli afro-americani, le donne…). Quando la vittoria è risicata, quasi tutto e tutti possono – con il senno di poi – apparire come decisivi, perché basta ipotizzare un piccolo spostamento di voti di una categoria o di uno Stato per immaginare un esito opposto a quello effettivo.

C’è un gruppo sociale, tuttavia, che sembra – in questa elezione – poter svolgere un ruolo particolarmente rilevante, anche a livello simbolico: quello delle donne. Questo non tanto perché le donne hanno un tasso di partecipazione elettorale più elevato di
quello degli uomini, ma perché mai come in questa occasione sono stati così centrali alcuni temi cruciali per la condizione femminile.

Sotto la voce onnicomprensiva “diritti riproduttivi”, negli Stati Uniti da anni si discute di almeno due questioni, che da noi (e più in generale in Europa), vengono trattate sotto due etichette distinte: diritti LGBT e diritto all’aborto. La cosa interessante è che le due questioni tendono a giocare un ruolo opposto nella dinamica elettorale. Detto brutalmente: parlare di diritti LGBT, tendenzialmente, favorisce Trump; parlare di diritto all’aborto, tendenzialmente, favorisce Harris.

Fra i diritti LGBT, più o meno estensivamente interpretati, rientrano rivendicazioni come l’autodeterminazione di genere o self-id (poter cambiare genere senza ostacoli o restrizioni), le transizioni di sesso/genere dei minorenni, l’accesso a tecniche riproduttive controverse, come la Pma (procreazione medicalmente assistita) e soprattutto la Gpa (gestazione per altri, o utero in affitto). Su questo terreno, i conservatori sono nettamente avvantaggiati, perché sono numerose le donne che non vedono di buon occhio l’invasione degli spazi femminili da parte di maschi transitati a femmine in luoghi come le carceri, i centri anti-violenza, le competizioni sportive (ricordate il caso Khelif?), più in generale nelle situazioni in cui le donne godono di speciali tutele e privilegi rispetto ai maschi (quote rosa, età della pensione, servizio militare ecc.).

Che questo sia un vantaggio dei conservatori e un punto debole dei democratici è del resto testimoniato dalle numerose e sempre più frequenti prese di posizione anti diritti LGBT o anti self-id da parte di donne di fede progressista, da Hillary Clinton (già due
anni fa), alle femministe americane (Kara Dansky, dirigente di Women’s Declaration International), e ora pure britanniche (Joanne Rowling e Julie Bindel pochi giorni fa). Prese di posizione che, in alcuni casi, hanno portato le protagoniste a porre la domanda scandalosa, fino a ieri impronunciabile: dobbiamo, in quanto femministe radicali, prendere in considerazione la possibilità di votare conservatore

Le cose cambiano radicalmente se, dai diritti riproduttivi in chiave LGBT, passiamo ai diritti riproduttivi in termini di contraccezione e aborto. Qui è Trump ad avere tutto da perdere, perché il recente (giugno 2022) annullamento della sentenza Roe vs Wade ha permesso a molti Stati a guida repubblicana di limitare fortemente (quando non di vietare del tutto) il ricorso all’aborto, con grave restrizione della libertà delle donne di disporre del proprio corpo. È chiaro che, questa, è una carta preziosa in mano a Kamala Harris, che può presentarsi come colei che è in grado di ripristinare una fondamentale libertà perduta.

Si capisce meglio, alla luce di queste asimmetrie, perché – sui temi che più interessano le donne – entrambi i candidati siano stati reticenti. Kamala Harris non ha mai voluto prendere le distanze, come le chiedevano alcune femministe, dalle politiche del suo vice Tim Walz che, come governatore del Minnesota, ha convintamente favorito le transizioni di sesso/genere precoci, a dispetto delle emergenti evidenze scientifiche contrarie. Analogamente, Trump non ha mai preso una posizione netta e chiara sul diritto all’aborto, preferendo – pilatescamente – rimandare tutto alle scelte elettorali dei cittadini nei singoli Stati.

Di qui, un vero rebus per le donne. Una elettrice che, come diverse femministe, considerasse l’aborto un diritto inalienabile, ma al tempo stesso fosse risolutamente contraria al self-id e ai cambi di sesso degli adolescenti, non saprebbe per chi votare.

Ecco un altro motivo per cui quel che succederà domani è terribilmente difficile da indovinare.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 novembre 2024]

La frattura tra ragione e realtà 6 / Distruggere la scuola in nome della (ri)educazione

22 Febbraio 2024 - di Paolo Musso

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Sull’onda dell’emotività suscitata dal terribile assassinio di Giulia Cecchettin da parte del fidanzato tutte le forze politiche hanno approvato all’unanimità l’istituzione in tutte le scuole d’Italia di un corso obbligatorio di “educazione alle relazioni”. A parte l’obiettivo specifico, clamorosamente sbagliato, della lotta al “patriarcato” (che in realtà non c’entra nulla), a preoccupare è la logica di fondo di questi corsi, che stanno distruggendo la scuola in nome della (ri)educazione. Un’idea perversa che ancora una volta nasce da un pregiudizio comunista inconsapevolmente condiviso da molti non comunisti, ma stavolta pure da un pregiudizio liberista che piace molto anche a sinistra.

Quando ho fatto l’elenco delle idee comuniste che si sono così diffuse in Occidente da essere spesso condivise anche dagli anticomunisti (https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/) ne ho dimenticata una, oltretutto della massima importanza, perché, almeno a giudicare dalle vicende di questi giorni, è condivisa veramente da tutti: è quella della rieducazione del popolo.

I comunisti, infatti, hanno sempre avuto tra i loro dogmi indiscutibili che, essendo per definizione “dalla parte giusta della storia”, chi non è d’accordo con loro non è semplicemente uno che ha idee diverse, ma uno che ha, sempre per definizione, delle idee sbagliate. Esse perciò, nel suo stesso interesse, devono essere estirpate e sostituite con quelle giuste attraverso un opportuno processo di rieducazione.

Naturalmente, c’era una distinzione tra i “borghesi”, cioè i membri delle classi dirigenti, che di tali idee sbagliate erano i creatori e i promotori (allo scopo di proteggere i propri interessi economici, che per il marxismo sono sempre la spiegazione ultima di qualsiasi evento storico), e i “proletari”, cioè i membri delle classi popolari, che invece ne erano le vittime. Perciò nei regimi comunisti i primi venivano “rieducati” con metodi brutali, nei gulag o nelle cliniche psichiatriche, mentre per i secondi si puntava essenzialmente sulla scuola.

Ma questa attitudine è stata condivisa anche dai partiti comunisti che si sono trovati ad agire nei paesi democratici, che hanno sempre cercato di tradurla in pratica ogniqualvolta ne hanno avuto l’opportunità. Naturalmente, qui non era possibile spedire gli avversari politici nei gulag (anche se si è cercato più volte di spedirli almeno in galera: vedi per esempio Mani Pulite), per cui questo metodo è stato sostituito dalla gogna mediatica. Per il “popolo”, invece, il mezzo di indottrinamento privilegiato anche in Occidente è rimasto la scuola.

È un dato di fatto innegabile, di cui tutti abbiamo fatto esperienza, direttamente o indirettamente, che gli insegnanti di sinistra sono in media molto più determinati (e anche più abili) degli altri nel far passare la propria visione del mondo attraverso l’insegnamento ordinario delle proprie materie. In Italia, poi, questo fenomeno è stato ulteriormente accentuato dal patto non scritto, ma tuttavia ferreamente rispettato per decenni, stretto fra DC e PCI dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per permettere la loro coesistenza pacifica, per il quale (semplificando un po’, ma neanche tanto) i democristiani si sarebbero presi le istituzioni e i comunisti la società.

Sul breve e medio periodo questo patto ha favorito la DC, ma sul lungo periodo il conseguimento dell’egemonia culturale di gramsciana memoria all’interno della società italiana da parte del PCI ha finito per erodere, fino a farlo saltare, il controllo della DC sulle istituzioni. È per questo che in Italia la sinistra negli ultimi decenni ha sempre avuto un peso politico nettamente superiore alla sua consistenza elettorale, che non è mai arrivata ad essere maggioritaria.

Negli ultimi vent’anni o giù di lì, però, a ciò si è aggiunto un altro fenomeno, molto più grave e (purtroppo) anche molto più ampio, che ha contribuito a devastare la scuola come poche altre cose. Infatti, ogni volta che si manifesta qualche grave problema sociale che non sappiamo come risolvere, accanto all’immancabile ritornello “qui ci vuole una legge” parte subito l’ormai altrettanto immancabile “qui ci vuole un corso a scuola”, condiviso ormai non solo dalla sinistra, ma da tutta l’area liberal e a volte perfino dai suoi oppositori. L’ultimo esempio è quello del corso di “educazione alle relazioni” che dovrebbe risolvere il problema della violenza sulle donne, deciso sull’onda emotiva del terribile assassinio di Giulia Cecchettin.

Questa legge mostra con particolare evidenza l’assurdità e, di conseguenza, la dannosità di questo approccio. Per questo lascerò da parte tutta la questione  delle presunte colpe del “patriarcato”, che è già stata ampiamente discussa negli articoli di Ricolfi apparsi su questo sito (su ciò si vedano soprattutto i seguenti due: https://www.fondazionehume.it/societa/patriarcato-alle-radici-dei-femminicidi/ e https://www.fondazionehume.it/societa/il-singhiozzo-delluomo-maschio-a-proposito-di-violenza-sulle-donne/), giacché è specifica di questo caso, per concentrarmi su quegli aspetti più generali che sono invece diretta conseguenza di questo modo di affrontare i problemi.

1) Anzitutto, è davvero difficile capire come una persona sana di mente possa credere sul serio che chiunque abbia ucciso una ragazza (o abbia commesso qualsiasi altro crimine) l’abbia fatto solo perché nessuno gli aveva mai detto che è sbagliato.

2) Altrettanto difficile è capire come una persona sana di mente possa credere sul serio che gli studenti accettino di sentirsi dire che in campo sentimentale (o in qualsiasi altro campo) devono essere disposti ad accettare serenamente le avversità dalle persone che gestiscono la scuola odierna, dove tutto (ma proprio tutto) funziona in base al principio diametralmente opposto, cioè quello di proteggerli da ogni minima avversità.

3) Infine, è inquietante che questi corsi debbano essere tenuti da insegnanti opportunamente “formati” da psicologi (o da esperti di qualsiasi altro tipo). Anzi, è doppiamente inquietante. Anzitutto, infatti, ciò suppone implicitamente l’idea che solo degli “esperti” siano in grado di spiegare come ci si deve rapportare correttamente agli altri (il che implica che non solo gli insegnanti, ma anche le famiglie non siano ritenute in grado di farlo). In secondo luogo, come verranno scelti tali “esperti”? La psicologia non ha standard di giudizio oggettivi come la scienza naturale, per cui esistono scuole di pensiero molto diverse tra loro e quelle che si impongono come maggioritarie nella società lo fanno assai più per i propri “meriti” ideologici che per il proprio valore intrinseco. Di conseguenza, questa legge rischia di diventare il cavallo di Troia che la sinistra da molti anni cercava per introdurre definitivamente l’ideologia di gender nella scuola italiana, cosa che non le era riuscita nemmeno quando era al potere e che ora, in modo davvero paradossale, le è stata servita su un piatto d’argento dal primo governo di destra della nostra storia (tant’è vero che all’inizio tra le persone che dovevano sovrintendere al progetto era stata scelta Anna Paola Concia, ex deputata PD e nota esponente di tale ideologia, anche se poi il Ministro ha fatto marcia indietro). Ma, sia chiaro, il mio giudizio non cambierebbe neanche se venissero scelti psicologi di altre tendenze o se si trattasse di esperti di altro genere: è l’idea in sé stessa che gli insegnanti non siano in grado di educare i propri studenti senza essere indottrinati da qualche “esperto” ad essere inquietante.

Eppure, questa legge demenziale è stata approvata addirittura all’unanimità da tutte le forze politiche, con l’entusiastico appoggio del sistema mediatico e degli intellettuali. Quindi, delle due l’una: o le classi dirigenti dell’Occidente sono ormai composte quasi per intero da malati di mente o hanno ormai tutte interiorizzato l’idea di cui sopra, che cioè il “popolo” si comporta male perché gli vengono insegnati valori sbagliati, che in realtà servono a giustificare rapporti di potere (ultimamente economico), per cui la soluzione è rieducarlo, anzitutto attraverso la scuola.

Personalmente ritengo che siano vere entrambe le cose. In ogni caso, è facile vedere che, al di là delle differenze esteriori dovute ai differenti argomenti (corsi di cittadinanza contro la mafia e la corruzione; alternanza scuola-lavoro contro la disoccupazione; corsi di ecologia per combattere il riscaldamento globale; corsi sulle “abilità caratteriali” per superare il nozionismo; e ora, appunto, corsi di educazione affettiva per combattere la violenza sulle donne), tutti i corsi di questo tipo che negli ultimi anni sono stati introdotti (o si è cercato di introdurre) nella scuola condividono gli stessi tre demenziali presupposti che stanno alla base di questa legge:

1) La pretesa di risolvere un problema “facendo la predica” ai ragazzi, cioè insegnando loro in poche ore alcune semplicistiche regole di comportamento (che oltretutto spesso non hanno nulla a che fare con la vera natura del problema stesso), perlopiù presentate in modo intimidatorio e moralistico, puntando a colpevolizzare chi non le accetta anziché cercando di seguire un percorso di convinzione razionale, per il quale, d’altronde, non ci sarebbe il tempo (e spesso neppure gli argomenti).

2) La pretesa che i ragazzi prendano sul serio tale “predica”, che chiede loro serietà, sforzo e sacrificio, benché provenga dalla stessa istituzione che per tutto il resto dell’anno propone loro un modello di comportamento esattamente opposto.

3) La pretesa di basare questi corsi su giudizi forniti da “esperti” che vengono ritenuti per definizione “neutrali”, mentre non lo sono affatto, dato che per loro natura questi problemi non possono essere trattati in modo neutrale, come dimostra il fatto che al riguardo esistono profonde e inconciliabili divisioni, sia nella politica che nella società.

Il peggio, comunque, è che tutto ciò avviene, inevitabilmente, a scapito dell’insegnamento, non solo per il tempo che viene dedicato a questi “corsi di rieducazione”, ma anche per l’enorme carico di burocrazia aggiuntiva che ognuno di essi comporta. È vero che alla fine, benché molti lo volessero obbligatorio, questo corso sarà invece facoltativo, ma ciò vale solo per i ragazzi: le scuole saranno comunque tenute a fornirlo e gli insegnanti vedranno quindi aumentare ulteriormente il loro già pesantissimo carico di lavoro. Eppure, nessuno sembra preoccuparsene.

Ora, da parte della sinistra ciò è soltanto logico, giacché da tempo ritiene l’insegnamento tradizionale obsoleto e superato, se non addirittura reazionario e, come tale, almeno in parte corresponsabile dei problemi della società che in tal modo si vorrebbero risolvere. La cosa sorprendente è che sembri non curarsene neppure chi non condivide tale ideologia.

E ciò è tanto più grave considerando che il contributo che la scuola può dare alla soluzione di questi problemi consiste invece proprio nell’insegnamento tradizionale, che ha come scopo non risolvere questo o quel problema specifico, bensì formare la persona nella sua globalità (benché con accentuazioni diverse a seconda dell’indirizzo), in modo che poi la persona così formata sia in grado di dare il proprio contributo, piccolo o grande che sia, alla soluzione dei problemi specifici. In questo consiste l’autentica educazione, che, come dice anche la sua etimologia, significa “tirare fuori” ciò che i giovani hanno già dentro allo stato potenziale e non riempirli a forza di idee altrui, buone o cattive che siano, che si chiama invece indottrinamento.

Ciò è vero in generale, ma è particolarmente evidente proprio nel caso che stiamo discutendo. La vera ragione per cui uno può arrivare a voler uccidere la donna che ama è infatti la stessa per cui, in altre circostanze, può arrivare a voler uccidere i propri figli o sé stesso o entrambe le cose. E questa ragione è l’inconsistenza dell’io, la fragilità della persona, che di fronte a un dolore che non sa come tollerare o a un problema che non sa come risolvere sceglie di eliminarlo, distruggendolo e/o distruggendo sé stesso (e infatti spesso chi uccide la propria donna poi si suicida).

Questo è confermato dall’analisi fatta da Ricolfi sui dati dell’associazione femminista Non Una Di Meno, da cui risulta che delle poco più di cento donne che vengono uccise ogni anno in Italia appena il 15% ha meno di 40 anni, mentre la fascia di età più a rischio è quella dai 60 anni in su (https://www.fondazionehume.it/societa/femminicidi-un-problema-degli-anziani/). Si tratta quindi di un problema che non riguarda in modo particolare i giovani né, più in generale, nessuna particolare categoria sociale.

Ma questi dati ci dicono anche un’altra cosa, per quanto terribilmente incorrect, ma cionondimeno assolutamente vera: le donne che ogni anno vengono uccise in Italia sono molto poche (circa una ogni 300.000) e inoltre il loro numero è da tre anni costante, dopo un periodo di continua, benché lenta, diminuzione e per niente affatto in vertiginoso aumento, come ci viene ossessivamente ripetuto. Anche gli omicidi nel loro insieme sono in costante calo e negli ultimi 15 anni si sono più che dimezzati, essendo ormai poco più di 300 all’anno, cioè meno di uno al giorno e poco più di uno ogni 200.000 abitanti.

Quella che invece negli ultimi tre anni è davvero in preoccupante aumento è la violenza giovanile più spicciola, quella che va dal bullismo al teppismo fino alla microcriminalità vera e propria (dati Eurispes – Ministero dell’Interno: https://www.leurispes.it/criminalita-meno-omicidi-preoccupano-minori/). Quest’area comprende certo molti gravi atti di violenza contro le donne, ma anche, se non addirittura di più, contro gli uomini: nel 2022, per esempio, sono stati uccisi 23 uomini in risse o altri episodi di violenza minorile, cioè commessi da ragazzi con meno di 18 anni (per il 2023 non sono ancora stati pubblicati i dati definitivi).

È vero che, come ha ben spiegato Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/societa/minori-e-violenza-sessuale-quel-che-dicono-i-dati/), questo aumento si deve quasi esclusivamente ai minorenni stranieri, ma ciò non fa che confermare il fatto che il metodo dei corsi di (ri)educazione non funziona, dato che l’inclusione sociale e il razzismo sono tra i temi che essi affrontano più frequentemente, eppure, a quanto pare, inutilmente.

A ciò va poi aggiunto l’aumento, altrettanto preoccupante, dei comportamenti autodistruttivi di ogni tipo (droghe, alcol, guida pericolosa, rave party, sfide estreme, ecc.), che coinvolgono in ugual misura ragazzi e ragazze, nonché la continua diminuzione dell’età di chi è coinvolto sia in queste pratiche che negli episodi di violenza.

Da questo quadro emerge chiaramente che il problema di fondo dei nostri giovani non è certo il “patriarcato”, né una qualsiasi altra ideologia, ma piuttosto il fatto che chi si sta affacciando alla vita cercando qualcosa – e soprattutto qualcuno – a cui guardare per darle un senso si trova sempre davanti (o meglio, quasi sempre: per fortuna qualche eccezione c’è ancora) adulti immaturi e disorientati che sanno solo oscillare tra l’indulgenza deresponsabilizzante e la predica moralistica, a seconda di dove li porta l’emozione del momento.

Un esempio drammatico di ciò si è visto quando in uno dei tanti cortei per Giulia (che in realtà erano essenzialmente cortei anti-uomini) qualcuno ha esposto un cartello che diceva: «Per Giulia brucia tutto» (visto su RAI 3 a In mezz’oradomenica 26 novembre). Queste parole sono state riprese ed enfatizzate in tono elogiativo da tutti i principali notiziari, come se contenessero chissà quale profonda verità, mentre si trattava solo di parole vuote e disperate – o meglio, di parole che erano il segno di un vuoto (anzitutto affettivo ed esistenziale, ma anche mentale e ideale) che chiedeva disperatamente di essere colmato da altre parole, di amore e di umanità, ma anche di saggezza e di conoscenza, e non certo di essere additato ad esempio di non si sa cosa da persone ancora più vuote.

Una celebre canzone di Luca Carboni diceva che «ci vuole un fisico bestiale per resistere agli urti della vita». Ecco, è questo “fisico bestiale” (ovviamente inteso in senso metaforico) che la scuola dovrebbe “allenare” nei suoi alunni. La scuola e la società di una volta lo facevano, anche se a volte in modo troppo duro, per cui è certamente giusto che oggi ci sia una maggiore attenzione ai ragazzi che hanno delle difficoltà. Il problema è che questo un po’ alla volta ha portato a un cambiamento non solo dei mezzi, ma anche del fine, che è diventato, sia nella scuola che nella società in generale, proteggere i ragazzi dagli urti della vita anziché farli diventare abbastanza forti per affrontarli quando, inevitabilmente, dovranno farlo.

Tale contesto spinge gran parte dei giovani a sviluppare una personalità narcisistica, egocentrica e istintiva, abituata ad avere “tutto e subito” e insofferente di ogni limite, il che li rende al tempo stesso fragili e aggressivi, come hanno molto ben spiegato i bellissimi articoli di Silvia Bonino, apparsi su questo stesso sito (https://www.fondazionehume.it/societa/consumismo-rivendicazione-di-diritti-individuali-e-violenza-contro-le-donne/), e quello di Vittoria Maioli Sanese, pubblicato sul sito di Tempi (https://www.tempi.it/giulia-cecchettin-filippo-turetta-femminicidi-vittoria-maioli-sanese/).

Rispetto a questo la scuola cosa può fare?

Molto, visto che in gran parte è essa stessa che ha causato il problema. Ma per farlo deve tornare a fare la scuola. Che significa essenzialmente due cose:

1) Primo, rimettere al centro l’insegnamento, perché un giovane cresce molto di più studiando la scienza, la letteratura, l’arte e la filosofia che ascoltando predicozzi moralistici sull’emergenza di turno.

2) Secondo, tornare ad essere selettiva. Che significa anzitutto valorizzare il merito, cosa su cui da tempo insiste giustamente Ricolfi, ma anche dire chiaramente che a scuola si va per imparare e quindi, pur con tutto l’aiuto che si può e si deve dare a chi è in difficoltà, se alla fine uno non ha imparato abbastanza non può e non deve andare avanti. D’altronde, la stessa crescita dei comportamenti autolesionistici tra gli adolescenti dimostra che essi in realtà desideranomettersi alla prova in sfide difficili, tanto che, siccome gli adulti evitano accuratamente di proporgliene (a parte lo sport, che infatti aiuta molto la formazione di una personalità equilibrata, ma non è per tutti), se ne creano essi stessi delle altre. Che poi queste risultino perlopiù distruttive è un altro discorso, che dipende essenzialmente dal fatto di essere lasciati a sé stessi, ma ciò non toglie che si tratti di una manifestazione della naturale propensione dei giovani a superare i propri limiti e che ciò di per sé sia un bene: sta agli adulti “incanalare” questa tendenza verso obiettivi positivi, anziché averne paura o, peggio ancora, negarne l’esistenza.

Ma è chiaro che un tale cambiamento non potrà accadere se si continuerà a pretendere dalla scuola che invece di educare si occupi di rieducare, rincorrendo affannosamente tutte le emergenze con pseudo-risposte che fanno sentire tutti più buoni, ma in realtà non risolvono nulla e, peggio ancora, non lasciano più ai docenti il tempo e le energie necessarie per fare il loro vero mestiere.

Prima, di chiudere, però, devo aggiungere che alla base di questa tendenza non c’è soltanto il pregiudizio ideologico di cui ho detto all’inizio, anche se questo è di sicuro la causa preponderante. Cionondimeno, vanno nella stessa direzione anche le frequenti richieste che provengono dal mondo delle imprese per avere un sistema dell’istruzione “più professionalizzante” (anche se in genere vengono rivolte più all’università che alla scuola: ma la logica è la stessa).

Qui la motivazione addotta è che oggi i giovani arrivano nel mondo del lavoro senza essere adeguatamente preparati ai compiti che dovranno svolgere, cosicché l’onere della loro formazione ricade sulle imprese. Ma l’onere della formazione al lavoro è sempre ricaduto sulle imprese: anzitutto perché dare una preparazione troppo specifica agli studenti sarebbe impossibile, perché richiederebbe di creare migliaia di corsi differenti; ma soprattutto perché non sarebbe auspicabile, giacché una formazione iperspecialistica preparerebbe per un unico lavoro, rendendo difficilissimo cambiarlo quando fosse necessario. Niente di nuovo sotto il sole, da questo punto di vista: non si tratta infatti che di uno dei tanti modi in cui molte imprese (non tutte, sia chiaro) cercano di scaricare sullo Stato (e quindi, in ultima analisi, sui cittadini) costi che invece dovrebbe toccare a loro sostenere.

La cosa stupefacente, però, è che queste richieste vengano dalle stesse persone che enfatizzano (a volte anche troppo: ne riparleremo) la mobilità dell’attuale mercato del lavoro, la fine del “posto fisso” e la conseguente necessità di “imparare a imparare” più che imparare contenuti determinati. Che non si veda la palese contraddizione tra queste due esigenze è un ulteriore segno di come la frattura tra ragione e realtà abbia ormai contagiato un po’ tutti, al punto che non basta a renderne immuni nemmeno svolgere un’attività che per sua natura dovrebbe obbligare alla massima concretezza.

Con ciò non sto dicendo che non ci sia un problema con i giovani che oggi si affacciano al mercato del lavoro: il problema c’è, ed è gravissimo. Ma esso non consiste nella mancanza di una preparazione specialistica, bensì nella frequente mancanza di qualità della loro preparazione di base, che rende in media più lento (e quindi più costoso) il percorso di formazione al lavoro.

Anche da questo punto di vista, perciò, la soluzione non è snaturare ulteriormente la scuola pretendendo che rincorra tutte le ultime (e spesso effimere) novità, ma chiedere che la scuola torni a fare la scuola, fornendo di nuovo una preparazione di base di qualità adeguata, a cominciare da quella umanistica, che molti, stupidamente, giudicano inutile per i lavori produttivi, mentre in realtà è fondamentale, perché è quella che insegna a ragionare, che è la base di qualsiasi lavoro e anche del tanto strombazzato quanto frainteso “imparare a imparare”.

È molto significativo che questa richiesta, che non nasce certo in un ambito di sinistra, venga spesso sostenuta anche da politici e intellettuali di sinistra. Essa, infatti, ha in comune col pregiudizio di sinistra sulla “rieducazione” il fatto che non punta sulla ragione e sulla libertà, ma sull’ideologia e sull’indottrinamento. E da questo punto di vista non fa nessuna differenza che in questo caso si tratti di un’ideologia tecnocratica anziché politica.

L’aspetto più preoccupante è che ancora una volta stiamo assistendo  a una convergenza tra ideologie di sinistra e di centrodestra in una sorta di “super-ideologia” liberal che ormai da tempo manifesta una crescente tendenza verso l’autoritarismo (cfr. https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta/).

Opporsi a tale tendenza può apparire un’impresa disperata, vista la sua dimensione globale. Ma forse, come spesso accade, scopriremmo che lo è meno di quel che sembra, se, anziché ragionarci su in astratto, cominciassimo ad opporci in maniera concreta a qualche sua concreta manifestazione. Per esempio, chiedendo che tutti i corsi di (ri)educazione vengano aboliti in tutte le scuole italiane, restituendo così ai docenti il tempo e le energie per dedicarsi adeguatamente al loro unico, vero e importantissimo compito: l’educazione.

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