Disagio giovanile? – Un mito diventato realtà

Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato perplesso, nella mia carriera di sociologo, è l’uso ossessivo, insistito e iterato dell’espressione “disagio giovanile” per descrivere la condizione dei giovani dagli anni della contestazione in poi. Con il passare del tempo la mia perplessità si è progressivamente tramutata in stupore, e alla fine in un sentimento di incredulità. Questo perché, se prendiamo in considerazione il cinquantennio che va dal 1969 (anno dell’esame di maturità facilitato e della liberalizzazione degli accessi all’università) fino al 2019, ossia all’ultimo anno prima del Covid, quello che ci è dato osservare è, semmai, il processo inverso: la instaurazione progressiva di condizioni materiali e immateriali sempre più agiate.

Vogliamo ricordare qualcuno degli spettacolari cambiamenti che, nel cinquantennio 1969-2019, hanno investito la condizione giovanile?

Libertà sessuale: è incomparabilmente maggiore oggi. Uso del tempo: nessun padre di allora avrebbe messo la sveglia alle 2 di mattina per prelevare alle 2.30 la figlia quindicenne in uscita dalla discoteca. Autorità genitoriale: l’ubbidienza è stata sostituita dal negoziato permanente, e fin dalla più tenera età, su tutti gli aspetti della vita quotidiana. Lavoro: si è allungato di circa 5 anni il periodo della vita in cui se ne può fare a meno. Servizio militare: non esiste più, abolito giusto vent’anni fa da un governo di destra. Scuola e università: alleggerimento dei programmi e abbassamento dell’asticella della promozione. Rapporti scuola-famiglia: il patto genitori-insegnanti si è rotto, molti genitori di sono trasformati in sindacalisti dei figli.

Insomma, almeno a prima vista, nei decenni in cui illustri colleghi rilasciavano pensose riflessioni sul “disagio giovanile”, la società spensieratamente evolveva per mettere sempre più suo agio la maggioranza dei giovani. Dico “a prima vista” perché maggioranza dei giovani (ovviamente) non vuol dire tutti i giovani (le sacche di marginalità ci sono anche oggi), ma anche perché non è detto che quel che, oggettivamente, si presenta come uno spettacolare aumento di benessere e di libertà si traduca poi, soggettivamente, in maggiore appagamento, felicità, autorealizzazione.

In effetti, se leggiamo attentamente le sia pur frammentarie statistiche degli ultimi 4-5 anni, è difficile non essere colti da un certo sgomento. Quello cui si assiste, infatti, è una vera e propria esplosione di comportamenti che manifestano – oggi sì – una condizione di disagio: a quel che ricordo, mai in passato si era osservata una crescita tanto rapida e improvvisa di segnali di malessere. Nel breve lasso di tempo che va dall’ultimo anno pre-covid (2019) agli anni più recenti per cui si dispone di statistiche (2022 e 2023) si sono improvvisamente impennati sia i comportamenti autolesionistici o di ritiro sociale, come disturbi alimentari, suicidi, tentati suicidi, richieste di aiuto, auto-isolamento, sia i comportamenti aggressivi come omicidi, rapine, risse, minacce, lesioni dolose, violenza sessuale e, a scuola, bullismo e attacchi agli insegnanti (alcune stime nel grafico accanto).

È curioso. Quando l’evoluzione sociale, come una cornucopia, regalava alla condizione giovanile ogni sorta di agio, i convegni dei sociologi leggevano tutto nel registro del “disagio giovanile”, ora che quel disagio c’è davvero, i sociologi latitano, quasi avessero passato la palla a psichiatri, psicologi e pedagogisti. Resta però una domanda, anzi forse la domanda: c’è un nesso fra il disagio di oggi e gli agi dei 50 anni precedenti?

Sì, io penso che ci sia. La cifra del cinquantennio felice 1969-2019 è stata la rimozione sistematica e progressiva di ogni possibile ostacolo, nella famiglia, nella scuola e nella società, e la piena affermazione della cultura dei diritti, ovvero dell’attitudine a pretendere piuttosto che a conquistare. Questo ha reso i giovani non solo più fragili e impreparati ad affrontare difficoltà, sconfitte, sfide difficili, ma anche più insicuri, più suscettibili, più in competizione reciproca (anche grazie ai social), e in definitiva meno capaci di perseguire la felicità esistenziale: “non si diventa felici per assenza di difficoltà” aveva avvertito, esattamente vent’anni fa, Hara Estroff Marano, psicologa sociale statunitense, già allora preoccupata per la deriva mentale della gioventù americana, devastata dalla vita facilitata e dalla iper-protezione dei genitori (invasive parenting).

Tutto questo, fino allo scoppio del Covid è rimasto allo stato latente. Poi non più. Gli anni del Covid sono stati, non solo per i giovani, anni di ristrutturazione mentale, che hanno indotto a riflettere sulla propria esistenza, le proprie scelte, le proprie priorità. E spesso a concludere, più o meno vittimisticamente, che si meritava di più, o si aveva diritto a un risarcimento. Stranamente, di questa riconversione dei desideri (posso chiamarla così?) si è parlato quasi esclusivamente riguardo agli adulti e al mercato del lavoro, dove si è osservato un innalzamento generalizzato del livello di aspirazione, con l’abbandono di posti di lavoro insoddisfacenti per posti migliori o più remunerativi.

Ma la riconversione ha riguardato anche, se non soprattutto, i giovani, e non solo sul mercato del lavoro. Per loro, il fossato fra quel che si desidera e quel che si ha si è fatto più ampio, molto più ampio. Non tutti sono stati in grado di reggere lo scarto. I dati indicano che alcuni hanno reagito in modo auto-distruttivo, altri in modo aggressivo, come testimonia l’esplosione dei reati predatori, degli omicidi, delle violenze sessuali.

Forse, per il mondo degli adulti, è venuto il momento di farsi qualche domanda.

[sintesi dell’intervento di oggi al Convegno sul cinquantenario dei Decreti delegati, Firenze, Palazzo Vecchio]




“Ansia e registro elettronico” di Lorenzo Morri, Alberto Gualandi e Francesco Genovesi (insegnanti di scuola superiore)

A partire dal primo anno scolastico vissuto per intero in regime di pandemia (2020/21), la stampa quotidiana ha cominciato a dedicare uno spazio non trascurabile al tema del disagio giovanile, correlandolo in base ai dati via via emergenti, da un lato, agli effetti su benessere e salute mentale prodotti dalle chiusure, dall’altro alla sempre più massiccia e precoce esposizione al virtuale e alle nuove forme di relazione intessute sui social media. Il progressivo esaurirsi dell’emergenza sanitaria e la cessazione dei confinamenti, a lungo affrontati da bambini e adolesecenti nei propri ambiti centrali d’esperienza (scuola, sport, tempo libero, volontariato ecc.), non ha fatto venir meno questa attenzione pubblicistica, che si è consolidata quasi in nuovo settore della cronaca, a cavallo tra costume e abbozzo di analisi sociale (si veda G. Pierpaoli, «Fuori dai radar». Lo studente dell’era pandemica nel racconto dei media, in L’onda lunga. Gli effetti psicologici e sociali della pandemia, Erickson, Trento, 2023).

A titolo di esempio, l’inchiesta di “Repubblica Bologna” del 19 dicembre 2022 riaccendeva, in coda agli anni delle restrizioni, i fari intorno a un disagio sempre più allarmante, soprattutto all’interno della scuola secondaria superiore. Demotivazione, ansia, attacchi di panico, stati depressivi, rabbie, che sfociano nella discontinuità della frequenza, nei ritiri e nelle bocciature per troppe assenze (circa 67.000 nelle sole superiori, a giugno 2022). A Tutta la città ne parla(Rai Radio3), pochi giorni prima, a partire da alcuni tragici fatti estremi, psicologi e pedagogisti ne avevano già discusso, portando sul banco degli imputati la nostra “società iper-competitiva”, nella quale successo, bellezza e popolarità divengono mete imperative fin da bambini, nello sport, nello studio e nelle cerchie sociali virtuali.

Questi fenomeni chiamano in causa inevitabilmente anche la voce di insegnanti e dirigenti scolastici.

Chi oggi entra in aula sa bene che gli studenti oramai guardano alla scuola non più come a un luogo di scoperte conoscitive e incontro con i coetanei, ma come a un’agenda, fitta di compiti, interrogazioni e verifiche scritte, da affrontare e via via depennare in attesa della conclusione del quadrimestre. Molte sono le ragioni di questa deriva percettiva. Qui richiamiamo l’attenzione sulla funzione di rinforzo giocata dal cosiddetto “registro elettronico” e dal suo perfezionamento come app per smartphone.

Questo strumento era nato con due finalità: 1) dematerializzare il tradizionale registro, nel suo valore di atto pubblico in cui il lavoratore firma la sua presenza e documenta quella degli studenti, il programma svolto e i voti assegnati; 2) creare un’interfaccia tra insegnanti studenti e famiglie, che fornisse servizi didattici e informativi. Tuttavia il “registro elettronico” è diventato molto di più. Per gli studenti è una delle principali app, forse seconda solo a Instagram e Tik Tok, da consultare compulsivamente alla ricerca di aggiornamenti. Aggiornamenti su cosa? Sulla “uscita” dei propri voti. I docenti, infatti, nel caso in cui non enuncino verbalmente gli esiti, possono sempre inserirli on-line successivamente. All’interessato non resterà che monitorare il registro, nell’attesa incerta e spasmodica di apprendere che cosa apparirà sulla ruota del suo destino scolastico.

Ci chiediamo se questo non abbia qualcosa a che fare con l’ansia.

Ma c’è di più. Nelle sue più evolute versioni, elaborate da aziende di software fuori dai binari di qualsivoglia riflessione psico-pedagogica, il registro elettronico tenta, al pari di ogni social media, di anticipare i desideri (le ansie?) dei suoi utenti, contribuendo a forgiarli. Reca in home page, accanto agli appuntamenti della giornata (compiti, interrogazioni, verifiche), l’elenco dei voti “usciti” di recente (bollini rossi per quelli negativi, bollini verdi per i positivi) e, addirittura, un enorme richiamo grafico circolare, al centro del quale campeggia a caratteri cubitali un numero: è il numero della media aritmetica di tutti voti ottenuti dallo studente nel periodo di valutazione in corso (non una media dei voti nelle singole materie, ma una media generale tra tutti i voti!).

Capito? Lo studente di oggi non incontra più una volta ogni tanto il feedback valutativo attraverso la voce dei suoi insegnanti, per poi riceverlo scritto in pagella a fine anno. Oggi, in tutte le circostanze in cui apra il registro elettronico, anche solo per cercare gli esercizi di matematica da svolgere o le pagine di italiano da studiare, egli si imbatterà nella chiara e spietata definizione di identità che la scuola gli rimanda: 8,7, o 6,3, o magari 5,2 o 4,7. A ogni ragazzo un numero. E che gli rimanga ben impresso in mente, in modo che desideri più di ogni altra cosa modificarlo verso l’alto, anche solo di pochi decimali, per stare al passo nella lotta emulativa della vita!

Questo ha forse qualcosa a che fare con l’ansia?

Nella convinzione erronea che il registro elettronico fosse soltanto uno strumento neutro di facilitazione, la scelta in merito alla sua adozione non ha mai coinvolto i collegi dei docenti, organi competenti in materia didattica. Ciò, accanto al problema psico-sociale da noi segnalato, pone anche un problema democratico. Insegnanti e dirigenti hanno ancora la facoltà di proteggere ed emancipare la relazione educativa dalle distorsioni più macroscopiche indotte dalla rivoluzione digitale, oppure sono tenuti a cantare sempre e comunque “le magnifiche sorti e progressive” del mondo del web, levandosi il cappello e ringraziando per i prodotti che le software house rilasciano?

*Questo testo, in forma leggermente ridotta, è stato pubblicato con il titolo Il registro on-line consultato come Tik Tok su “Repubblica Bologna” del 4 gennaio 2023




Chiediamo troppo ai ragazzi?

Stanno suscitando una certa inquietudine le notizie che, negli ultimi tempi, riferiscono di giovani in crisi, specie in ambito scolastico. Fra le fonti di disagio, spesso vengono menzionate le eccessive pretese di insegnanti e genitori, ma anche ansie e frustrazioni che possono nascere nel gruppo dei pari. La diagnosi prevalente sembra essere quella che sottolinea l’insostenibilità delle pressioni competitive che il mondo degli adulti eserciterebbe sui ragazzi, chiedendo loro più di quanto possano dare.

C’è ovviamente del vero in ciascuna di queste letture, ma credo sia bene distinguere. I problemi del liceo classico, di cui tanto si parla, riguardano meno del 6% dei ragazzi, e sono di natura molto diversa da quelli degli altri licei e degli istituti tecnici e professionali. Nella mia ormai lunga esperienza di genitore e docente, quel che più mi ha colpito, negli ultimi decenni, non è certo l’eccesso di competitività, che spesso si attribuisce al classico, ma un fenomeno del tutto diverso, per certi versi opposto, che si può osservare a occhio nudo un po’ in tutti gli ordini di scuola: par la maggior parte delle famiglie, da molti anni a questa parte, la stella polare è il binomio serenità + promozione. L’importante non è che la scuola sia eccellente, o che il figlio primeggi, ma solo che sia promosso e non subisca frustrazioni. Se non fosse così, anziché legioni di genitori che se la prendono con gli insegnanti per gli insuccessi dei figli, vedremmo un vasto movimento che chiede alla scuola come mai il livello sia sceso così tanto.

Ed è qui che interviene il problema dei licei classici, e più in generale delle scuole esigenti, che per fortuna esistono anche in altri indirizzi. La strage di ragazzi che abbandonano i licei per passare a scuole più facili si spiega con il fatto che il primo anno di scuola secondaria superiore è anche il primo momento in cui la scuola smette di scherzare, ossia non sottostà all’obbligo non scritto di intrattenere e promuovere (quasi) tutti. Negli anni ’60 questo passaggio alla “scuola vera” avveniva dopo la 5aelementare, e infatti la scuola media inferiore faceva ancora stragi. Mentre oggi il passaggio alla scuola vera avviene solo dopo la 3a media, e a fare stragi ci pensano i licei.

C’è un’importante differenza, però, fra ieri e oggi. Negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.

Non è tutto, però. Una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda.

Chiunque abbia frequentato le scuole negli anni ’60 può testimoniare che le pressioni che insegnanti e genitori, allora alleati, esercitavano sui ragazzi e le ragazze erano enormemente superiori a quelle di oggi. Personalmente, ricordo i miei anni di scuola media come anni di terrore, di ansia, di spasmodica attenzione a non sbagliare. Ma anche di grandi soddisfazioni, scolastiche ed extra-scolastiche.

Dunque il punto cruciale non può essere che si chiede troppo ai ragazzi. Il punto, semmai, è che nessuno, allora, pensava di avere “diritto al successo formativo”, alla serenità, a supporti psicologici, al riconoscimento di ogni esigenza o aspirazione. Non lo pensavamo noi ragazzi, non lo pensavano i nostri genitori, non lo pensavano i nostri insegnanti, perché quelle cose non le vedevamo come diritti esigibili, ma come possibili conquiste. Oggi ai ragazzi si chiede molto di meno, ma proprio questo chiedere di meno li rende fragili, perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non. Siamo sicuri che sia la strada giusta?