In margine alla festa di Atreju – Elettori oltre la destra e la sinistra

Forse è un po’ presto per fantasticare di nuove creature politiche, visto che – salvo incidenti – si voterà nel 2027. Però è quello che sta succedendo nelle ultime settimane, prima con la cacciata di Beppe Grillo e la “contizzazione totale” dei Cinque Stelle, poi con le manovre al centro per la dar vita a un partito liberal-democratico, o con quelle per la (ri)nascita di un partito cattolico di sinistra, sulla scia della Margherita di rutelliana memoria. Per non parlare degli smottamenti interni a Forza Italia, sempre più tentata di accentuare i suoi tratti moderati, se non di “partito di destra che guarda a sinistra”, cavalcando alcuni temi indigesti per la destra-destra: ius scholae, diritti delle minoranze sessuali, multe ai No Vax.

Quello che accomuna tutti questi sommovimenti è lo sforzo di aggirare la dicotomia secca destra-sinistra, in cui tanti non riescono più a riconoscersi. In effetti, a giudicare dai sondaggi (penso in particolare a una recente indagine di Renato Mannheimer) gli
elettori che non se la sentono né di dichiararsi di destra né di dichiararsi di sinistra non sono certo pochi: il 33% dell’elettorato, ossia 1 elettore su 3, rifiuta entrambe le etichette.

Allora è vero che una forza di centro, né di destra né di sinistra, avrebbe a disposizione praterie di potenziali elettori?

No, è un’illusione. Se infatti andiamo a vedere come è composto l’insieme degli elettori che non si riconoscono né nella destra né nella sinistra, scopriamo che solo il 9.1% dell’elettorato si autodefinisce di centro. È una percentuale di poco superiore a quella che, prima del divorzio fra Renzi e Calenda, dava il suo voto al cosiddetto Terzo Polo. Nulla suggerisce che siano più del 10% gli italiani disposti a dare fiducia a un partito che non dichiara se, dopo il voto, si alleerà con la destra-destra o con la sinistra-sinistra. Sono invece il 20-25%, cioè circa 1 su 4, gli italiani che non si riconoscono né nell’attuale sinistra, né nell’attuale destra, né in un generico partito di centro, o partito dei moderati.

Ma perché sono così tanti? E che cosa pensano? Che cosa li trattiene dall’auto-collocarsi a destra o a sinistra?

Una ragione può essere lo scarso interesse per la politica, o l’insoddisfazione per le politiche di entrambi gli schieramenti. Ma una ragione alternativa, a mio parere più importante, è che – non solo in Italia – sono sempre più numerosi i cittadini che esprimono istanze che, lungi dall’essere né di destra né di sinistra, sono sia di destra sia di sinistra.

Prendiamo, a titolo di esempio, la classica frattura fra ceti medi e ceti popolari. Nell’universo politico classico un operaio votava a sinistra, un impiegato o libero professionista votavano a destra. Oggi, invece, può capitare che un operaio guardi a destra perché vede il degrado delle periferie indotto dalla presenza degli immigrati, o semplicemente perché non capisce l’ostinazione del mondo progressista nella difesa delle minoranze sessuali, o nel sostegno alle politiche green, o nella promozione del linguaggio “follemente corretto”. Simmetricamente, un insegnante, un magistrato, un impiegato può guardare a sinistra semplicemente perché la sua condizione è abbastanza agiata da consentirgli il lusso di pensare ai diritti civili piuttosto che ai diritti sociali, o di occuparsi del futuro del pianeta anziché del bilancio famigliare.

Di qui il dilemma di tanti elettori, che si sentono di sinistra su certi temi, e di destra su altri. Di qui, anche, lo spazio che (in teoria) si sta aprendo ai Cinque Stelle, che sono l’unica formazione politica che è strutturalmente sia di sinistra (in economia) sia
di destra (in materia di immigrazione). È quello che, neanche tanto fra le righe, è andato a dire Conte ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, quando ha affermato di essere progressista, ma non di sinistra: “se sinistra significa contrastare il governo attuale solo nel segno dell’antifascismo, io non ci sto”; “se sinistra significa accogliere tutti indiscriminatamente, io non ci sto”; “se sinistra significa occuparsi solo di quelli nei quartieri residenziali, nelle Ztl, io non ci sto”.

Applausi, ogni volta, degli spettatori presenti. Tutti di destra.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 dicembre 2024]




Il rebus di Elly

Non vorrei essere al posto di Elly Schlein. Se prima della vittoria di Trump poteva ancora accarezzare l’idea di una possibile futura vittoria della sinistra, oggi coltivare quel sogno è diventato ancora più difficile di prima. Le elezioni americane hanno mostrato infatti almeno due cose. La prima è che l’adesione acritica alla cultura dei diritti, da cui Kamala Harris non ha saputo prendere le distanze, è una pesantissima zavorra nella corsa elettorale. La seconda è che la sinistra non ha più un’idea di società, o meglio di cambiamento degli assetti sociali, capace di convincere gli strati popolari.

Il perché lo ha spiegato, con qualche tortuosità, Massimo Cacciari in un mesto articolo comparso sulla Stampa pochi giorni fa. Ridotto all’osso, il suo ragionamento è il seguente. La sinistra non ha perso per ragioni contingenti, ma per ragioni strutturali. E la ragione strutturale fondamentale è che ai ceti popolari impauriti e impoveriti la sinistra stessa non è più in grado di offrire la risposta che dava un tempo: più welfare finanziato in deficit. Di qui una certa comprensione (manifestata in altri interventi) per i limiti della legge di bilancio varata da Meloni, e il riconoscimento che – vigente il patto di stabilità europeo – ad analoghi vincoli si troverebbe soggetto un eventuale governo Schlein.

Rimedi?

Come sempre, una lieve oscurità avvolge i pensieri del filosofo veneziano, però leggendo tra le righe la risposta la si intuisce: quello su cui la sinistra dovrebbe puntare è una politica di sviluppo “radicalmente riformista”, basata su “una efficace politica ridistributiva”. In concreto: ripudio della stagione renziana, che abbassava le tasse e puntava sulla crescita, nella credenza che “quando la marea sale fa salire tutte le barche”; e ritorno a una stagione bertinottiana, in cui “anche i ricchi piangono”, perché è dalle loro tasche che vengono prelevate le risorse necessarie per rifinanziare lo stato sociale (sanità e scuola innanzitutto).

Abbiamo trovato la quadra, dunque?

In un certo senso sì. La linea Cacciari ha una sua logica. Prende atto che l’Europa non ci lascia finanziare il welfare facendo ulteriore debito, e dà per scontato il ripudio irreversibile della della “terza via”, a suo tempo entusiasticamente sottoscritta da
Renzi. Un ripudio che, a ben guardare, è un punto di forza del nuovo gruppo dirigente del Pd, che alle reiterate domande della destra “come mai, quel che proponete ora, non lo avete fatto quando eravate al governo?” può tranquillamente rispondere “noi al governo non c’eravamo, e il Pd di allora è il contrario del Pd che stiamo cercando di costruire adesso”.

Apparentemente tutto fila. C’è un punto, però, che non funziona. Finora Elly Schlein si è ben guardata dall’ammettere (come invece fa Cacciari) che, stanti i vincoli europei, non si poteva fare una legge di bilancio sostanzialmente diversa (e più pro
ceti bassi) di quella varata da Meloni. Ma soprattutto si è ben guardata dal dire la verità sulle tasse, e cioè che già solo per raddrizzare sanità e scuola occorre prevedere un prelievo fiscale aggiuntivo ingente, permanente, e inevitabilmente gravante anche sul ceto medio-alto, non certo sui soli ricchi. In breve: occorre che il Pd diventi come il Labour Party di Jeremy Corbyn, che però proprio con quel tipo di programma non era mai riuscito a battere i conservatori.

Se riflettiamo su questo nodo, forse capiamo meglio anche perché – negli ultimi anni – il Pd è diventato sempre più il partito dei diritti, attento alle rivendicazioni delle minoranze sessuali, ossessionato dalla cultura woke, irremovibile nella tutela dei migranti, paladino delle grandi battaglie di civiltà, ma dimentico dei diritti sociali, dei drammi del lavoro e dello sfruttamento: la ragione è che le battaglie sui diritti civili, a differenza di quelle sui diritti sociali, costano poco, e quindi non mettono a repentaglio i conti pubblici. Voglio dire che, paradossalmente, puntare tutte le carte sulla cultura dei diritti ha il notevole vantaggio di non esporre alla domanda delle domande: ma dove le prendete le risorse? Mentre, puntare sui diritti sociali, quella domanda non permette di eluderla facilmente (anche se, ovviamente, ogni politico fingerà di sapere dove trovarle, quelle benedette
risorse).

Conclusione: tornare a puntare sui diritti sociali, e mettere la sordina su quelli civili, può riavvicinare la sinistra alla sensibilità dei ceti popolari. Più difficile supporre che la stangata fiscale permanente che quel ritorno comporta non spaventi i ceti medi, come già è accaduto con il Labour di Corbyn nel Regno Unito e con il Fronte Popolare di Mélenchon in Francia.

Ecco perché non vorrei essere al posto di Elly Schlein.

[articolo uscito sulla Ragione il 12 novembre 2024]




A chi interessa la sorte di Satnam Singh?

Possiamo starne certi, nel giro di pochi giorni della sorte di Satnam Singh, ucciso dallo spietato egoismo del suo datore di lavoro, non si parlerà più. Eppure dovremmo renderci conto che quella del lavoro sottopagato e iper-sfruttato nei campi di raccolta
è solo la punta di un iceberg. Qualche anno fa, cercando di descrivere la struttura della “società signorile di massa”, avevo anche provato a contarli, usando la (scarsa) informazione statistica disponibile. Il risultato, stimato per difetto, fu 3.5 milioni di
persone, circa 1 occupato su 7. Era il 2019, il governo giallo-rosso aveva da poco preso il posto di quello giallo-verde.

Questa infrastruttura para-schiavistica non è un mero retaggio del passato, un pezzo della società italiana non ancora “incluso”. Tutto al contrario, è un arcipelago di comparti produttivi, spesso irregolari o illegali, essenziali al funzionamento della nostra società per il resto relativamente benestante quando non opulenta. La cosa sconcertante è che nessuno se ne occupa davvero, salvo protestare, indignarsi, promettere interventi quando un fatto di cronaca estremo costringe a vedere quel che
non si vuol vedere. Ma perché nessuno vuole vedere?

Le ragioni sono tante, e non sono sempre le stesse nei vari comparti. Ma alcuni fattori sono comuni, o preponderanti.
Il più importante, a mio parere, è che solo una parte della infrastruttura paraschiavistica è rimovibile senza chiudere aziende e distruggere attività economiche. Questo, in particolare, è il dramma del comparto agricolo: i prezzi di vendita dei prodotti agricoli, anche a causa delle scelte della PAC (politica agricola comune), non sono in grado di coprire adeguatamente il costo degli input fondamentali (mangimi,sementi, fertilizzanti, fitofarmaci, carburanti agricoli). Di qui una pressione al ribasso sui salari e il largo ricorso al lavoro stagionale in nero, che non si limita a tenere basse le paghe orarie ma permette enormi risparmi sul versante previdenziale e dei diritti dei lavoratori (ferie, malattia, permessi, tredicesima, liquidazione).

Un altro fattore rilevante sono le scelte dei sindacati e dei politici, sotto qualsiasi governo. I primi, comprensibilmente, trovano più facile e conveniente occuparsi di assistenza fiscale, pensionati, operai e impiegati delle imprese grandi e medie (e sconcerta che, in occasione del dramma di Satnam Singh, siano riusciti a indire manifestazioni separate e litigare ferocemente fra loro). Quanto ai politici, per forma mentis e anche qui per convenienza, preferiscono credere che la loro missione sia approvare nuove leggi sulla carta giustissime, piuttosto che garantire l’applicazione delle leggi esistenti attraverso gli strumenti ordinari (ispettorati, magistratura, forze dell’ordine). Forse, prima di chiedersi quali nuove norme introdurre, dovrebbero cercare di capire come mai quelle in vigore restano sistematicamente inapplicate, e questo nonostante quasi sempre le situazioni di iper-sfruttamento e illegalità siano visibili ad occhio nudo.

Sindacati, politici, apparati pubblici, magistrati, forze dell’ordine, nessuno può chiamarsi fuori. L’elenco delle responsabilità, però, non sarebbe completo se non menzionassimo anche noi stessi: società civile, opinione pubblica, mass media. È un fatto che, negli ultimi decenni, la cultura dei diritti ha progressivamente relegato ai margini i diritti sociali classici (a partire da quelli nella sfera lavorativa), concentrando l’attenzione sui diritti civili e di specifiche minoranze degne di protezione, tutela, rispetto. Il concetto di inclusione, che in origine indicava l’imperativo di tutelare i “non garantiti” del mondo del lavoro in quella che stava
diventando una “società dei due terzi” (felice espressione dovuta a Peter Glotz), è stato sempre più declinato in una chiave individualistica, come se i problemi centrali del nostro tempo fossero diventati quelli del riconoscimento, anziché quelli classici
dello sfruttamento capitalistico.

Lo so, conosco l’obiezione: diritti civili e diritti sociali possono avanzare insieme. Ed è vero, almeno in parte. Ma il fatto è che la soluzione dei grandi problemi dipende anche da quanta attenzione, quanta vigilanza, quanto interesse cittadini e mass media
riservano a determinati drammi sociali piuttosto che ad altri. E il nostro più grande dramma, quello di una infrastruttura para-schiavistica gigantesca, che pesa su milioni di lavoratori e sulle loro famiglie, di attenzione ne ha ricevuta sempre di meno. Se a
questo dramma avessimo riservato anche solo un decimo dell’attenzione che siamo abituati a riservare ai diritti delle minoranze sessuali e alle diatribe sul linguaggio politicamente corretto, forse non saremmo al punto in cui siamo.

[articolo uscito sul Messaggero il 30 giugno 2024]