L’utopia limitata degli homeschooler in Italia

Per homeschooling o istruzione parentale si intende l’amministrazione di un programma di istruzione offerto in casa invece che in una scuola pubblica o privata; una situazione di insegnamento dove i bambini imparano in casa invece che nelle scuole convenzionali. In tale contesto i genitori o i parenti assumono la diretta responsabilità dell’educazione dei bambini (Murphy 2012).

Il fenomeno, assai minoritario nel nostro paese sta lentamente assumendo dimensioni più rilevanti per una serie di cause che andremo ad analizzare ma gli ultimi anni di pandemia ne hanno probabilmente accelerato la crescita.

Secondo i dati dell’Anagrafe Nazionale degli studenti nell’anno scolastico 2017-2018 gli alunni in istruzione parentale erano 4.169, divisi tra scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Nell’anno successivo, il 2018-2019 sono saliti a 5126 e secondo i dati pubblicati di recente dal MIUR e ripresi dall’agenzia Adnkronos sarebbero passati a 15.361 nell’ultimo anno (2020-2021).

La pandemia ha moltiplicato la tendenza dei genitori a istruire i figli in casa per ragioni che potremmo definire pragmatiche.

Tra gli homeschooler, anche in Italia, è possibile includere i genitori che seguono il programma ministeriale e quelli che praticano l’unschooling. Il termine venne coniato negli anni Ottanta da John Holt, insegnante statunitense, che lo usò nella sua rivista-newsletter Growing without schooling per indicare la possibilità di imparare senza andare a scuola. Le prime vittorie legali di famiglie che volevano praticare l’homeschooling fecero notizia negli Stati Uniti e il settimanale “Time” dedicò degli articoli al tema. Holt partecipò anche al “Phil Donahue Show” e pur dovendo fronteggiare un pubblico di persone ostili alla pratica ottenne un successo notevole, che moltiplicò la platea di padri e madri pronte a lanciarsi nella pratica della scuola. Presto i gruppi religiosi protestanti grazie alla maggiore organizzazione e forza economica soppiantarono numericamente i gruppi di genitori libertari e progressisti che sull’onda dei movimenti di contestazione degli anni Sessanta avevano iniziato a educare i figli fuori dai tradizionali circuiti scolastici.

Oggi il termine homeschooling (auto)definisce le famiglie che intendono lasciare i figli liberi di decidere cosa imparare, dove farlo e in che modo eludendo se possibile gli obblighi di esami di idoneità annuali resi obbligatori dalla cosiddetta legge 107 sulla Buona scuola del 2017.

Statofobia, puerocentrismo e neoliberalismo

L’indagine sulle motivazioni dei genitori che compiono questa scelta è un tema che ha prodotto una notevole quantità di studi nel mondo accademico (Van Galen 1991; Steven 2001; Morton 2010: Gaither 2017).

In un saggio dedicato alle ricerche quantitative sulle famiglie di homeschooler negli Stati Uniti, Eric Isenberg ha sottolineato la differenza tra gli approcci etnografici e quelli che si limitano a prendere in esame i dati raccolti da varie organizzazioni pubbliche e private. Secondo Isenberg, uno dei limiti degli approcci quantitativi è il fatto di non essere spesso in grado di cogliere le motivazioni profonde che spingono le famiglie verso questa pratica educativa, a differenza di quanto avviene nel caso dei lavori di taglio etnografico (Isenberg 2007). Un approccio qualitativo mira quindi ad approfondire il tema proprio sul piano delle motivazioni.

In una recente ricerca svolta sotto la supervisione del Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova è emersa, almeno nel mondo dei genitori che compiono la scelta per ragioni “ideali” e non pragmatiche (che pure sono interessanti come la presenza di handicap, bullismo o più di recente il timore del contagio) la prevalenza di quella che il filosofo Michel Foucault chiamava “fobia di stato” affiancata a un atteggiamento da parte dei genitori che si è chiamato “puerocentrico” (Di Motoli 2020).

Fare scuola in casa sarebbe secondo alcuni di questi genitori l’espressione più coerente della libertà parentale di scelta. Questi rivendicano il diritto di decidere cosa è veramente meglio per i loro figli sostituendo al paternalismo “artificiale” dello Stato quello “naturale” della famiglia. Per molti genitori si tratta di costruire in casa una sorta di mondo perfetto più adatto per i propri figli, che non impone orari, non impone programmi scolastici e non reprime le istanze dei piccoli in una specie di utopia limitata alle mura domestiche che conserva echi dei testi di Herbert Marcuse.

I gruppi denominati “Stato fobici” hanno diffidenza verso le strutture istituzionali, tendono a definirsi libertari o anarchici e la spinta prevalente che li muove è un individualismo che li porta a non riconoscere o a criticare fortemente il ruolo dei mediatori pubblici e privati siano questi insegnanti, medici o amministratori. Non respingono forme di cooperazione ma rifiutano la sfera pubblica così come organizzata dallo Stato.

I “puerocentristi” sono coloro che pongono il bambino e i suoi interessi al centro del progetto educativo, sull’onda delle teorie pedagogiche attiviste à la John Dewey o à la Maria Montessori. È un tema che emerge spesso nei discorsi di questa categoria di homeschooler, a volte slegato da solidi riferimenti teorici.

Una nuova/vecchia ideologia

Quello che la pandemia ha per certi versi reso più evidente (pensiamo ai dibattiti sulle restrizioni e sul tema dei vaccini) è una sorta di nuova ideologia. Questa linea di pensiero mette insieme istanze tipicamente neoliberali di repulsione verso le istituzioni e il controllo dello stato su questioni educative, sanitarie ed economiche (di destra liberale? di liberalismo prevalentemente negativo?) con atteggiamenti di critica della società e dei dispositivi di legittimazione delle sue strutture tipiche di un pensiero (di sinistra? progressista?) che trova proprio in Michel Foucault il suo fondatore.

Va ricordato che nel caso dei bambini si sostituisce il paternalismo dello Stato a un paternalismo ancora più forte come quello della famiglia e dei genitori che inevitabilmente limitano la possibilità per i loro figli di venire in contatto con realtà, figure e idee differenti rispetto a quelle del gruppo di appartenenza. Qui ci pare che il cortocircuito sia evidente. Per sottrarre il bambino al paternalismo dello stato lo si sottopone ad un paternalismo ancora più forte e invasivo come quello della famiglia.

Fulcro dell’individualismo liberale è, come noto, il principio secondo cui i diritti e le libertà individuali devono essere protetti anzitutto dall’ingerenza dello Stato. Scrive Friedrich von Hayek nel suo testo sul liberalismo: “La concezione liberale della libertà è stata spesso, e con ragione, definita come una concezione puramente negativa” (Von Hayek 2012: 43).

Coloro che ricollegano la pratica dello homeschooling a tale tradizione, come fanno per esempio Romualdo Portela de Oliveira e Luciane Muniz Ribeiro Barbosa (Portela de Oliveira, Muniz Ribeiro Barbosa, 2017), sottolineano come essa rappresenti la declinazione, in ambito educativo, delle teorie dello “Stato minimo” o “ultraminimo” che, sorte già con il liberalismo ottocentesco, hanno influenzato soprattutto la tradizione liberale del secolo scorso.

Nel corso delle ricerche per individuare le ragioni dei genitori homeschooler sono emersi discorsi che denotano una serie di temi che appaiono oggi quelli di una possibile piattaforma politica:

1) resistenza alla cultura dominante

2) sospetto verso le istituzioni, la scuola e i mediatori

3) opposizione alle politiche sanitarie (obbligo vaccinale)

4) attenzione particolare alle istanze dei figli

5) esigenza di controllo dei figli

6) centralità dei valori familiari

7) centralità dei valori religiosi

8) sospetto verso tematiche legate al genere e al contrasto delle discriminazioni

9) riferimento a teorici o particolari educatori

10) definizione del rapporto con la libertà prevalentemente negativo (“libertà da” come la intendeva Isaiah Berlin).

Alla luce di tutto questo non è da escludere che anche nel nostro paese si presenti prima o poi la necessità di un dibattito più ampio sul tema che in Francia ha già prodotto nel luglio del 2021 una legge che ha drasticamente limitato per molte famiglie (erano circa 50mila nel 2020) di praticare l’istruzione parentale. Lo spirito che animava la legge era quello di ostacolare il settarismo che nell’esagono ha prodotto i terribili attentati islamisti degli ultimi anni.

Riferimenti bibliografici

  1. Berlin, Due concetti di libertà, Feltrinelli 2000.
  2. Damele, P. Di Motoli, Homeschooling. Appunti su una pratica educativa al confine tra comunitarismo e individualismo libertarian, in Meridiana n. 94, 2019, pp. 195-2014.
  3. Di Motoli, Fuori dalla scuola. L’homeschooling in Italia, Studium 2020.
  4. DeKoven, Utopia Limited: The Sixties and the Emergence of the Postmodern, Duke University Press, 2004.
  5. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli 2005.
  6. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli 1997.
  7. Gaither, Homeschool an American History, Palgrave Mc Millan 2017.
  8. Holt, Come apprendono i bambini, Bompiani 2020.
  9. Isenberg, What Have We Learned About Homeschooling?, in Peabody Journal of Education, V. 82 n. 2-3, 2007, pp. 387-409.
  10. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi 1967.
  11. S. Merry, S. Karstein, Restricted Liberty, Parental Choice and Homeschooling, in Journal of Philosophy of Education, V. 44, n. 4, 2010.
  12. Morton, Home Education: Constructions of Choice in International Electronic Journal of Elementary Education 3, no. 1, October 2010.
  13. Murphy, Homeschooling in America: Capturing and Assessing the Movement, Corwin, SAGE 2012.
  14. Portela de Oliveira, L. Muniz Ribeiro Barbosa, Neoliberal as one of the Foundation of Homeschooling, in Pro-Posições, V. 28, n.2, 2017, pp.193-212.
  15. Stevens, Kingdom of Children. Culture and Contreversity in the Homeschooler Movement, Princeton University Press 2001.
  16. Von Hayek, Liberalismo, Rubbettino 2012.



La ruota e il ruotino. Perché la didattica a distanza non è la soluzione

Avete presente quando bucate una gomma? Questo è quello che facciamo: imprechiamo, montiamo la ruota di scorta, e ci premuriamo di sostituirla con una ruota della misura giusta appena possibile. Tutti e tre questi passaggi sono fondamentali.

Credo sia successo esattamente questo quando il Covid ci ha costretti ad abbandonare le lezioni in presenza: abbiamo forato e, con prontezza, abbiamo montato il ruotino, ovvero siamo passati alle lezioni online. Era la cosa giusta da fare, meno male che ce l’avevamo, la ruota di scorta. Quello che voglio dire è solo questo: le lezioni online non sono niente di più che una ruota di scorta, da sostituire al più presto con una ruota vera. Per favore, non affezioniamoci al ruotino!

Ci tengo a sottolineare che l’imprecazione è fondamentale, ma su questo punto tornerò alla fine.

Parlerò solo di quello che vedo coi miei occhi, e cioè le lezioni universitarie della disciplina che mi dà da vivere, ovvero la matematica. Il principio si applica in generale, anche a lezioni non universitarie. L’unica cosa che dovete sapere sul mestiere del matematico è questa: per comunicare con un suo simile, al matematico lavagna e gesso sono più che sufficienti.

Partiamo dal presente, cioè le lezioni online. Premetto una cosa: durante il lockdown ho comprato un tablet, ci ho messo mezzora a imparare a usarlo e l’ho sfruttato diverse volte per fare seminari, di ricerca e non, che normalmente avrei fatto alla lavagna. Non è solo divertente e facile da usare, è uno strumento eccellente. Ma, appunto, mi fermo qui: è uno strumento. Non può sostituire lavagna e gesso, e voglio spiegare perché.

Com’è una lezione online? Si sceglie una piattaforma in rete a cui collegarsi, per esempio Zoom, e una volta arrivati tutti gli interessati il docente inizia a condividere lo schermo, che sostituisce la lavagna. A questo punto, ci sono diverse modalità possibili (riporto solo le più efficaci tra tutte): il docente può scrivere sul tablet in tempo reale, di solito copiando la lezione preparata in anticipo su dei fogli, e gli studenti vedono il testo apparire sul proprio schermo, proprio come alla lavagna; oppure, può decidere di mostrare delle slide preparate in anticipo. I partecipanti, fin da subito, chiudono il microfono e il video, così da migliorare la connessione e non disturbare la lezione: sono muti e invisibili. Il docente parla per un’ora o due da solo nel salotto di casa sua, e gli studenti ascoltano da casa propria. Se vogliono, alla fine fanno domande. E questo è quanto.

Invece prima era così: lo racconto in prima persona. Entro in aula con due gessetti, nient’altro. Un numero più o meno grande di studenti si sono svegliati quel giorno e sono entrati in università nella speranza di imparare cose nuove guardando quello che succede alla lavagna. Voglio enfatizzare che la matematica, come molte altre discipline, si impara soprattutto parlando con le persone: i libri sono fondamentali, ma difficili da interiorizzare. A volte cinque minuti spesi alla lavagna con qualcuno che ci spiega qualcosa, anche da studente a studente, valgono molto di più di due ore passate su un libro.

Continuiamo: inizio a scrivere alla lavagna. Il gesso fa rumore. Scrivo lentamente, per non mettere ansia a nessuno: il rumore del gesso che batte freneticamente sulla lavagna potrebbe far scattare la preoccupazione di non saper stare al passo. Mi giro spesso a guardare le facce degli studenti: gli sto raccontando una storia, magari non è una storia facile e non sono di certo quello che la sa raccontare meglio, ma girandomi spesso per incontrare i loro sguardi capiscono che sono lì per loro, che sto facendo del mio meglio per passar loro qualcosa e che quel viaggio lo stiamo facendo insieme. Li guardo negli occhi. Così sanno che, se vogliono, possono interagire, fare domande. Avete mai fatto caso ai baristi, quando evitano il contatto visivo? E’ il loro modo di dirci che non hanno tempo per noi. Quindi, li guardo negli occhi. Mentre scrivo, non posso farlo. Ma posso ascoltare. Magari c’è silenzio, ma ci sono diversi tipi di silenzio: per esempio, quello che riflette la consapevolezza che si sta toccando un passaggio cruciale, o quello che mi dice che sono curiosi di vedere come finisce la storia. Significa che devo fare uno sforzo per mantenere quell’atmosfera fino alle fine del discorso.

E poi, arriva la cosa più importante: il brusio. Fondamentale, sentire il brusio. Significa che non sono stato efficace, che la cosa che ho appena detto avrei potuto dirla meglio. Torno indietro, mi ci soffermo, la dico in modo diverso, li riguardo negli occhi e all’istante ho la conferma che non sono stato abbastanza chiaro. Di solito, a quel punto parte una domanda.

Intervallo: siamo a metà lezione. Qualcuno si avvicina alla lavagna, fa una domanda troppo intricata da proporre durante la lezione, o magari mi chiede di rispiegare una cosa. Adesso siamo lì, alla lavagna, anche lo studente ha un gessetto in mano, possiamo scrivere entrambi e guardarci negli occhi, e la vicinanza fisica aiuta quella spirituale: sembra un’idiozia, ma mi ricordo bene che, da studente, le cose che imparavo meglio erano quelle che mi venivano spiegate da qualcuno che avevo la prova tangibile che fosse un essere umano, a pochi passi da me, mentre disegnava simboli alla lavagna che erano lì sopra, bianco su nero, proprio per me.

Non farò una comparazione tra le due descrizioni che ho dato, delle lezioni online e di quelle in presenza. Osservo semplicemente che nulla di quello che ho descritto della lezione in presenza si trova, o è in qualche modo recuperabile, nella lezione online.

Anche i seminari di ricerca si fanno online. Lì il clima è simile ma anche un po’ diverso, per esempio il pubblico non è formato da studenti ma da dottorandi, ricercatori: non si tiene una lezione ma si espongono i risultati delle proprie ricerche. Buttiamola sul ridere, per stemperare un po’: mi manca molto vedere il professore di turno addormentato in prima fila con la bocca aperta dopo dieci minuti che parlo, forse perché una pasta cacio e pepe prima del seminario non era una buona idea, oppure perché sono veramente noioso. In ogni caso, era bello da vedere. Potevo scegliere di fare una battuta, o direttamente dedurre che avrei potuto migliorare l’esposizione. Ma qualunque cosa scegliessi di fare, sapevo esattamente cosa stava succedendo attorno a me. Io stesso, assistendo a dei seminari online fatti da altri, mi sono alzato diverse volte dal divano (sì, li ascoltavo sul divano, e, per essere onesto fino in fondo, non sempre avevo i pantaloni) per prendermi una fetta al latte nel frigo. Le lezioni e i seminari fatti così assomigliano più a delle serie su Netflix, e la cosa mi spaventa proprio per lo smisurato successo di Netflix.

Infine, parliamo dell’imprecazione. Essa non scaturisce solo nel momento in cui foriamo: anche dopo che abbiamo montato il ruotino, ci accorgiamo che in curva la tenuta di strada è peggiorata, e siamo costretti ad andare a velocità ridotta, perché il veicolo è diventato d’un tratto meno sicuro. Voglio chiedere a tutti coloro che sono in posizione di imprecare, per favore di non smettere. Non abituiamoci al ruotino: non è uno strumento sicuro, e chi rischia di rimetterci sono i giovani, gli studenti che ci stiamo impegnando a formare ogni volta che entriamo in un’aula. Non permettiamo ai burocrati di pensare che, siccome la macchina continua ad andare avanti, va bene così e non dobbiamo passare dal gommista. La macchina va avanti solo perché il danno non era al motore, ma le ruote sono ugualmente importanti.