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Perché la sinistra è in costante declino?

27 Settembre 2022 - di Paolo Natale

In primo pianoPolitica

È dunque successo quel che doveva succedere: per una volta i tanto vituperati sondaggi ci avevano visto giusto, con stime che non si distaccavano più di tanto dai risultati finali delle consultazioni di domenica 25, se non per una leggera sopravvalutazione demoscopica del consenso leghista. E la vittoria del centro-destra (anzi, del destra-centro) è giunta in maniera dirompente come era da mesi chiaramente annunciato. E, soprattutto, è arrivato quell’elevato consenso per Giorgia Meloni e il suo Fratelli d’Italia che pare rasentare l’incredibile, visti i suoi numeri di partenza di soli un paio d’anni fa.

Dal ridotto 4% del 2018, soltanto di poco aumentato alle Europee dell’anno successivo (6%), il partito ha visto un incremento di ben 20 punti nel giro di pochissimo tempo, quel tempo coincidente giusto con il periodo in cui stata, in solitaria, all’opposizione del governo Draghi. È dunque questo il motivo di quell’incremento, la sua opposizione al governo di larghe intese?

C’è qualcosa di strano, forse inspiegabile, in quanto è accaduto. Il governo Draghi, e ancor più lo stesso premier, godeva di una fiducia mai così elevata da quando le rilevazioni certificano il livello di gradimento degli esecutivi: perfino nell’ultima settimana prima del voto, i dati parlavano di oltre il 60% degli italiani che dava una valutazione positiva del governo e di quasi il 70% del Presidente del Consiglio.

Pochi giorni dopo, gli elettori che si sono recati alle urne hanno decretato il chiaro successo dei partiti che o lo hanno contrastato fin dall’inizio (come appunto Fratelli d’Italia) oppure hanno decretato la sua prematura scomparsa (Forza Italia, Lega e Movimento 5 stelle). Queste 4 forze politiche sono state infatti votate da oltre il 60% degli elettori, contro un misero 30% di chi ha sostenuto Draghi fino alla fine, sperando in un suo ritorno alla cabina di comando.

Una sorta di schizofrenia che alberga nella mente del cittadino-elettore o, forse, la prova più evidente di quanto sosteneva il sociologo Goffman: il comportamento, l’opinione di un attore sociale dipende dal palcoscenico, dal frame in cui si sente inserito. Quando mi sento un cittadino, mi fido del tecnico che bene governa il futuro del mio paese; quando mi sento elettore, voto la coalizione che più rappresenta i miei bisogni politici. Senza contraddizioni, soltanto risposte diverse a diversi scenari di riferimento.

E la destra in Italia, come nel resto del mondo occidentale (buon’ultima la Svezia, patria della socialdemocrazia), è destinata ad avere sempre più successo, poiché ha l’appoggio prevalente (sebbene non esclusivo) di quella parte sempre più crescente di elettorato che il politologo Kriesi chiama “i perdenti della globalizzazione”, coloro cioè che non hanno sufficienti strumenti per far fronte agli odierni problemi sociali, occupazionali ed economici. I ceti bassi o medio-bassi, dove le crisi sono più sentite, gli operai nelle piccole aziende, i non-garantiti, che temono quindi le conseguenze della globalizzazione, della immigrazione, del depauperamento progressivo della propria esistenza. Le parole della destra, che cerca di porre un freno ai grandi rivolgimenti mondiali, paiono a questa parte di elettorato le più efficaci per dare maggiore sicurezzacontro il “disordine” provocato da questi cambiamenti epocali; un po’ ciò che è accaduto con Trump, Bolzonaroe Orban.

Al contrario, e con un solo paio di eccezioni, i collegi vinti dal centro-sinistra corrispondono, sia alla camera che al senato, con le città medio-grandi: Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Modena e Reggio Emilia. Èormai noto da almeno un decennio, se non di più, come queste siano le aree territoriali dove la sinistra riesce ad intercettare meglio gli umori e le attitudini degli elettori, che hanno una maggiore capacità di fronteggiare le paure e le minacce che le società avanzate pone loro dinanzi. Sono i giovani istruiti, i cittadini più benestanti, con un lavoro relativamente più stabile. È il profilo del Partito Democratico, quello che Luca Ricolfi definisce il “partito radicale di massa”, la forza politica che vincerebbe in Italia se votassero solo i laureati.

Domani vedremo meglio quali e quanti spostamenti di voto sono avvenuti nell’elettorato italiano negli ultimiquattro anni, fino a giungere alla situazione odierna, e scopriremo un paio di cose sorprendenti. Cercherò poi di rispondere ad una domanda cruciale: quanto tempo riuscirà a durare il futuro governo Meloni?

Paolo Natale

Le tre sinistre

23 Settembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Quando, ormai più di un mese fa, sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica (e all’economia pianificata), come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda e i riformisti del Terzo polo rispondono: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, nel maggiore partito della sinistra italiana. Il Partito democratico tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate” un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

Molto dipenderà, credo, dal risultato elettorale o, più precisamente, dai rapporti di forza che potranno emergere fra i tre tronconi in cui la sinistra è oggi divisa. Per il Pd, il vero pericolo non è un’affermazione di Renzi e Calenda, che dopotutto rappresentano solo quel che il Pd avrebbe potuto diventare se avesse imboccato risolutamente la “terza via” tracciata da Blair, Clinton e Schroeder. Il vero pericolo è un’affermazione clamorosa dei Cinque Stelle guidati da Conte, un’eventualità che pochi prendevano in considerazione fino a poche settimane fa, ma di cui in questo finale di campagna elettorale si comincia a parlare come una possibilità reale. La base logica di questa congettura è che la fiammata elettorale che aveva sostenuto Salvini nel Mezzogiorno ai tempi della sua massima popolarità (2018-2019) si spenga, e che – grazie al tema cruciale del reddito di cittadinanza – a beneficiarne sia soprattutto il partito di Giuseppe Conte. Se il Pd dovesse scendere sotto il 20% e il Movimento Cinque Stelle dovesse superare il 15%, saremmo di fronte a uno scenario del tutto inedito: per la prima volta nella loro storia gli eredi del partito comunista si troverebbero con un vero concorrente a sinistra.

Un concorrente che potrebbero accusare di ogni male possibile – qualunquismo, assistenzialismo, inaffidabilità, impreparazione – ma che, per una parte degli elettori delusi dalla sinistra ufficiale, rappresenta “la vera sinistra”.

Luca Ricolfi

Massimalisti e riformisti

23 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Durante la prima Repubblica i partiti, sia pure con qualche piccola fluttuazione, venivano percepiti come disposti su un asse destra-sinistra: missini, monarchici, liberali, democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti, comunisti, psiuppini, demoproletari.

Nella seconda Repubblica, ossia a partire dal 1992, questo genere di ordinamento non è stato più possibile, perché alla dimensione destra-sinistra se ne è aggiunta un’altra, che possiamo chiamare moderato-radicale, o pro-sistema anti-sistema. Due partiti, in particolare, hanno contribuito a rompere lo schema destra-sinistra: la Lega negli anni ’90, percepita come partito radicale né di destra né di sinistra; il Movimento Cinque Stelle negli ultimi dieci anni, percepito come partito anti-sistema, incollocabile sull’asse destra-sinistra.

Oggi tutto questo sta evaporando, perché la Lega è nel frattempo diventata un partito genuinamente di destra, e i Cinque Stelle, dopo l’alleanza con il Pd nel governo giallo-rosso, sono percepiti come un partito di sinistra. In breve, il sistema politico – a dispetto delle ambizioni del Terzo polo di Renzi e Calenda – sta tornando bipolare. Cespugli a parte, c’è una destra fatta dei partiti di Meloni, Salvini, Berlusconi, e c’è una sinistra fatta dei partiti di Letta, Conte, Calenda.

Quel che non è chiaro è come questi sei partiti si dispongano sull’asse destra-sinistra. O, per dirla in modo classico, chi siano i riformisti e chi siano i massimalisti entro i due campi.

Il modo più canonico di affrontare questo tema è di utilizzare la “teoria economica della democrazia” di Anthony Downs (1957), che suggerisce di ordinare le forze politiche in base al loro grado di interventismo statale, con la destra “liberista” che vuole minimizzarlo per promuovere la crescita dell’economia, e la sinistra “statalista” che vuole massimizzarlo per attuare la giustizia sociale.

Quel che è interessante, di questo schema, è che mette a soqquadro alcune consolidate abitudini mentali. Se applichiamo all’Italia di oggi la teoria di Downs, sembra ragionevole considerare massimalisti la Lega e i Cinque Stelle. La Lega, infatti, con la proposta di un’aliquota unica al 15%, porta alle estreme conseguenze il liberismo di Berlusconi, che nel “Contratto con gli italiani” del 2001 si accontentava di due aliquote Irpef, e ora si fa bastare un’aliquota al 23%, giudicando irrealizzabile l’obiettivo del 15% caro a Salvini. Il movimento Cinque Stelle, per parte sua, con la strenua difesa del reddito di cittadinanza, porta alle estreme conseguenze l’interventismo statale caro alla sinistra, rischiando di farlo degenerare in assistenzialismo.

Visti con le lenti di Downs, gli estremi dell’asse destra-sinistra sono il massimalismo iper-liberista della Lega e il massimalismo iper-statalista dei Cinque Stelle. Ma chi occupa il centro? Chi sono i partiti più riformisti e meno massimalisti?

A sinistra la risposta è facile: il Terzo polo liberal-democratico di Renzi e Calenda nasce esattamente per dare vita a una sinistra coerentemente riformista, senza le ambiguità e le attrazioni fatali del Pd.

E’ a destra che la risposta si fa difficile, ma anche più interessante. Siamo abituati, con buone ragioni, a considerare Forza Italia come forza politica moderata, meno euroscettica e meno anti-immigrati rispetto a Lega e Fratelli d’Italia. Ma sulla politica economico-sociale, ovvero sull’asse di liberismo-interventismo della “teoria economica della democrazia”?

Qui un’analisi delle proposte in materia di tasse non lascia molti dubbi: le idee di Giorgia Meloni sono molto meno massimaliste di quelle di Berlusconi e, a maggior ragione, di quelle di Salvini. Giorgia Meloni non ama la flat tax e, nel giro di poche settimane, è riuscita a riportare a più miti consigli gli alleati. Nel programma appena pubblicato del centro-destra le aliquote del 15% e 23% non compaiono. L’eventuale flat tax, almeno inizialmente, è limitata al reddito incrementale (si applica ai guadagni in più rispetto all’anno precedente). L’unica concessione è l’innalzamento della soglia di fatturato (da 65 mila a 100 mila euro) che permette alle partite Iva di usufruire dell’aliquota del 15%. La via maestra è ridurre la pressione fiscale sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Meloni moderata e riformista, dunque?

No, se parliamo in generale. Ma in politica economica sì. Né dovremmo stupircene troppo: la destra da cui proviene Giorgia Meloni è la destra sociale, non certo quella iper-liberista di Reagan e Thatcher.

La realtà è che Giorgia Meloni e Carlo Calenda, da opposte sponde, stanno conducendo due operazioni speculari di contenimento del massimalismo. Il terzo polo è (anche) il tentativo di iniettare un po’ di liberalismo nella cultura statalista e pro-tasse della sinistra. Fratelli d’Italia è (anche) il tentativo di immettere un po’ di stato nella cultura liberista e anti-tasse della destra.

 

Luca Ricolfi

I punti deboli del centro-destra

31 Luglio 2022 - di Luca Ricolfi

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Che il centro-sinistra, dopo la rottura fra Pd e Cinque Stelle, si appresti alle elezioni in una situazione di grande difficoltà è evidente a tutti. Una eventuale coalizione Pd+Mdp+Azione+Italia Viva, allo stato attuale, intercetta circa il 30% dei consensi, decisamente poco per competere con il centro-destra, dato intorno al 45%.

Meno evidente, forse, è il fatto che anche per il centro destra la strada che porta alle elezioni è lastricata di difficoltà. Per parte mia ne vedo almeno quattro, dalla meno importante alla più seria.

La prima è la conflittualità interna nella scelta delle candidature e nell’assegnazione dei collegi sicuri. Le ultime tornate amministrative hanno reso evidente che, su questo terreno, i tre leader del centro destra hanno difficoltà a mettersi d’accordo, e qualche volta a trovare candidati convincenti.

La seconda difficoltà sono le tensioni sulla scelta del candidato premier. La regola da sempre in vigore nel centro-destra, secondo cui la scelta del candidato premier spetta al partito che raccoglie più voti, improvvisamente pare non valere più. Interrogati dai giornalisti, i politici (maschi) di Forza Italia e Lega tentennano di fronte alla prospettiva che la regola possa premiare Giorgia Meloni. Difficile pensare che questo nodo irrisolto non inquini i rapporti fra gli alleati.

La terza difficoltà è l’auto-inabissamento di Forza Italia con la decisione di togliere la fiducia al governo Draghi. Specie dopo l’uscita di Gelmini, Brunetta, Carfagna e Cangini, sarà estremamente difficile, per il partito di Berlusconi, conservare i consensi dell’elettorato liberale e moderato. E, simmetricamente, sarà facilissimo per il centro sinistra ridurre il centro-destra al duo “Salvini & Meloni”.

E poi c’è l’ultima difficoltà, la più importante: il programma. Su molte cose i tre partiti di centro-destra vanno relativamente d’accordo, ma ve n’è una – cruciale – su cui le idee di Berlusconi, Salvini e Meloni divergono sensibilmente: la politica fiscale. Berlusconi e Salvini sono per la flat tax, anche se la declinano in modo un po’ diverso, pro famiglie Berlusconi, pro partite iva Salvini. Giorgia Meloni no, anche se pochi paiono essersene accorti.

E’ da almeno otto anni che, sulla politica fiscale, le idee di Giorgia Meloni divergono radicalmente da quelle di Berlusconi e Salvini. Lo ha fatto capire nell’ultima campagna elettorale (2018), quando – per non scontentare gli alleati – accettò di includere la flat tax nel programma di Fratelli d’Italia, ma solo limitatamente al “reddito incrementale” (ovvero sull’eventuale, improbabile, aumento del reddito da un anno all’altro). Ma lo aveva già reso chiarissimo nel 2014, quando trasformò in disegno di legge una proposta della Fondazione Hume (denominata maxi-job) che prevedeva di azzerare i contributi sociali alle sole imprese che aumentano l’occupazione. Una proposta così “di sinistra” da ricevere il sostegno di Susanna Camusso, allora al vertice della Cgil.

Aggiungo un ricordo personale. Tre anni fa ebbi occasione di intervistarla in tv nel programma di Nicola Porro e, per stanarla sulla questione fiscale, le sottoposi una sorta di domanda trabocchetto: se lei avesse risorse per 10 miliardi, e dovesse usarle per varare un’unica misura fiscale, preferirebbe detassare le famiglie, detassare tutte le imprese, o concentrare gli sgravi sulle sole imprese che aumentano l’occupazione?

Risposta: non avrei il minimo dubbio, metterei tutte le risorse sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Se le cose stanno così, è chiaro che sulla politica fiscale si gioca una partita cruciale. Se dovesse prevalere la linea di Giorgia Meloni, la politica fiscale del centro-destra potrebbe forse essere criticata da sinistra, ma non attaccata frontalmente. Non è neppure escluso che i sindacati ne colgano il lato keynesiano, di strumento di contrasto alla disoccupazione.

Ma è un’eventualità improbabile. Molto più verosimile è che Berlusconi e Salvini impongano a tutto il centro-destra la ricetta di sempre: flat tax + pace fiscale. Questo, a mio parere, è un tallone di Achille notevole, e un assist al centro-sinistra. Perché le (poche) buone ragioni dell’aliquota unica e della clemenza fiscale si possono anche difendere, con qualche sottigliezza tecnica, in un seminario fra esperti di opposte vedute, ma sono destinate a trasformarsi in un boomerang in una campagna elettorale. Dove, inesorabilmente, la ferrea logica della comunicazione politica traduce flat tax in “aiutare i ricchi” e pace fiscale in “premiare gli evasori”.

Luca Ricolfi

Sinistra e destra, scambio di ruoli? intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

10 Maggio 2022 - di Luca Ricolfi

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 (testo integrale dell’intervista rilasciata a “Libero”, uscita lunedì 9 maggio)

Cosa ci fa Ricolfi in un panel per scrivere il programma di Fdi, in particolare alla voce istruzione?

Prima di risponderle, caro Senaldi, una premessa e un ringraziamento. Raramente ho letto tante sciocchezze e tanti travisamenti del mio pensiero come dopo il mio intervento alla convention di Fratelli d’Italia (mi hanno persino accusato di indulgenza pro-Putin). Perciò la prima cosa che vorrei dirle è che sono profondamente grato a lei e a Libero per la possibilità che mi offrite di dire quel che penso effettivamente, al di là delle interpretazioni e dei fraintendimenti.

Dunque, cominciamo da come sono andate le cose. Un paio di mesi fa Giorgia Meloni mi ha chiesto se avevo idee da sottoporre alla loro convention, io ne avevo fin troppe. Avrei parlato volentieri di politicamente corretto (e di censura), di politiche fiscali, di scuola e università. Alla fine, avendo solo 10 minuti a disposizione, ho dovuto scegliere, e ho puntato su scuola e università.

Perché?

Mi stuzzicava l’idea di esporre la pars construens del discorso che, da anni, Paola Mastrocola ed io facciamo sui problemi dell’istruzione e della trasmissione del patrimonio culturale (la pars destruenssta nel nostro libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della diseguaglianza, uscito qualche mese fa con La nave di Teseo).

La scuola è sempre stata una riserva culturale della sinistra in Italia. Dove ha fallito?

Le riforme democratiche e progressiste, specie dopo il 1969, e massimamente dal 2000, hanno fallito su tutta la linea perché l’abbassamento del livello degli studi, coscientemente perseguito in nome dell’inclusione, ha prodotto esclusione, dispersione, nuove diseguaglianze. Non è strano, succede nella storia: Hegel la chiamava eterogenesi dei fini, i sociologi preferiscono parlare di “conseguenze non intese”, o di “effetti perversi” dell’azione sociale.

Nel nostro libro noi mostriamo, anche con strumenti statistici, che l’abbassamento dell’asticella secerne diseguaglianza. Se adottiamo lo schema di Bobbio (sinistra = uguaglianza, destra = disuguaglianza) è inevitabile concludere che negli ultimi 50 anni i politici progressisti hanno fatto politiche di destra. Sempreché, naturalmente, che cosa sia di sinistra e che cosa sia destra lo stabiliamo in base alle conseguenze che produce, non alle intenzioni di chi la impone.

Sta cambiando qualcosa, nel mondo della scuola?

Qualcosina, direi. Ci sono associazioni, movimenti e piccoli gruppi che si stanno battendo per difendere il ruolo classico della scuola: la trasmissione della conoscenza e del patrimonio culturale. Ma sono piccole minoranze, inesorabilmente bollate come nostalgiche, reazionarie, retrograde. Povero Gramsci…

Ma lei non è, o era, di sinistra?

Certo che lo sono. Lo sono sempre stato, oggi lo sono più che mai. Il problema è che “la sinistra non è più di sinistra”, come ebbe a  notare già una ventina di anni fa Alfonso Berardinelli. Quindi chi tiene saldi alcuni principi di sinistra, tipo la difesa dei ceti popolari, la lotta contro la censura, la parità delle condizioni di partenza, deve amaramente ammettere che la sua parte politica, almeno nella sua componente riformista, li ha clamorosamente traditi.

Da sociologo: sta cambiando qualcosa nei valori fondativi e nelle battaglie della destra e della sinistra?

Quello che, per gli osservatori imparziali, è fuori discussione è che la sinistra main stream è diventata bigotta, intollerante, insensibile alle istanze dei ceti popolari, ossessivamente fissata su migranti e diritti civili (rivendicazioni LGBT, eutanasia, ecc.). E noti che questa deriva la descrivono e denunciano gruppi e osservatori di super-sinistra: in Francia il filosofo Jean Claude Michéa, in Italia – ad esempio – Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista. Per non parlare delle preoccupazioni di tante femministe, in radicale dissenso con le teorie gender e le rivendicazioni del mondo trans.

Quanto alla destra, il discorso è complicato perché ci sono tre destre. Forza Italia e Lega non innovano granché, restano tutto sommato partiti anti-tasse, anti-migranti, anti-censura.

E Fratelli d’Italia?

Fratelli d’Italia è in evoluzione, da almeno 8-10 anni. Mi colpì a suo tempo (era il 2014) la decisione di Giorgia Meloni di sottoscrivere una proposta di sinistrissima della fondazione Hume (si chiamava maxi-job), che capovolgeva le politiche fiscali liberiste, puntando tutte le carte su politiche di ispirazione keynesiana (decontribuzione per le imprese che aumentano l’occupazione). Mi parve una (sorprendente) mossa di sinistra, non a caso sottoscritta anche da Susanna Camusso, allora segretaria della Cgil.

E ancora di più mi ha colpito, nella relazione introduttiva di Giorgia Meloni alla convention di Fratelli d’Italia, ascoltare una appassionata difesa dell’uguaglianza delle condizioni di partenza come precondizione del merito, e come strumento essenziale per far ripartire l’ascensore sociale.

E’ come se i due principali partiti italiani si fossero scambiati i ruoli. Al Pd non di rado piacciono cose che fino a ieri avremmo definito di destra, a Fratelli d’Italia talora piacciono cose che eravamo abituati ad associare alla sinistra.

Perché c’è stato questo scambio di ruoli?

E’ un discorso lungo e complicato, che ho cominciato ad affrontare in Sinistra e popolo, (Longanesi 2017) e che sto sviluppando in un nuovo libro. Qui vorrei però menzionare  un aspetto particolare, su cui sto riflettendo: non sarà che stare quasi sempre al governo ha reso il Pd iper-sensibile alle istanze dell’establishment, e stare quasi sempre all’opposizione ha lasciato più libertà di movimento, ma anche di elaborazione politica, al partito di Giorgia Meloni?

C’è un’intolleranza della sinistra verso il pensiero alternativo, che viene pertanto criminalizzato?

Il guaio della sinistra è che, quando adotta una posizione, non riesce a pensarla come una posizione politica fra molte possibili, ma tende a considerarla alla stregua di una scelta etico-morale: di qui il Bene, fuori di qui il Male. Che si tratti di migranti, diritti civili, tasse, campagna vaccinale, guerra in Ucraina, la postura del principale partito di sinistra è sempre quella: noi siamo illuminati, voi siete opportunisti, disertori, retrogradi, incivili, disumani. L’intolleranza è una conseguenza logica della credenza, profondamente illiberale, di avere il monopolio del Bene.

Perché la sinistra non vuol più rappresentare i poveri?

Non so se non vuole, quel che è certo è che non ci riesce. Non credo vi sia una singola ragione, se non altro perché il distacco dai ceti popolari è iniziato almeno 30-40 anni fa, più o meno dopo la morte di Berlinguer. Fra i fattori strutturali che hanno aiutato questa involuzione però ne metterei in evidenza almeno due: la terziarizzazione, che ha drasticamente ridotto le dimensioni della classe operaia industriale, e l’arrivo massiccio dei migranti, che a una sinistra riformista molto imbevuta di cristianesimo sociale sono parsi i veri “ultimi” di cui occuparsi.

Lei parlò di società signorile di massa: ora cosa siamo diventati e cosa diventeremo?

Siamo una società in cui la maggior parte della popolazione abile al lavoro non lavora,  i consumi sono ancora opulenti, l’economia ristagna. Consumo, gioco, intrattenimento, socializzazione, cura di sé, sono diventati i nostri imperativi, il lavoro e lo studio sono tollerati come inconvenienti da sopportare.

Già nel 2019, quando pubblicai il mio libro, era evidente che così non si poteva andare avanti. Dopo il Covid e lo scoppio della guerra in Ucraina dovrebbe essere evidente che il nostro futuro è fatto di minore reddito, minori consumi, e – temo – anche minore libertà. Lo sforzo dei governanti è, comprensibilmente, di farci credere che non è così.

Si sta facendo il funerale del sovranismo: è prematuro?

Mah, bisognerà anche intendersi, prima o poi, su che cosa voglia dire sovranismo, e soprattutto su che cosa sia il suo contrario. Io non vedo affatto bene un’evoluzione dell’Europa in cui ogni paese sia abbarbicato all’interesse nazionale, come prospettano i conservatori con l’idea di un’Europa Confederale. Però, al tempo stesso, non posso non vedere che noi, oggi, abbiamo sia i danni del sovranismo (Francia, Germania, Ungheria difendono con le unghie e coi denti i loro interessi, noi no), sia il peggio dell’europeismo (l’Europa non è stata minimamente in grado di tutelare l’interesse europeo, come la crisi energetica sta mostrando in modo lampante).

E’ una cosa nuova quella uscita dalla tre giorni milanese della Meloni dello scorso fine settimana?

Mi pare di sì, perché già solo il fatto di parlare di contenuti, e farlo anche con esponenti più o meno dichiarati della sinistra, è un atto di grande apertura. Ma in questo giudizio sono influenzato da una mia idea personale, che molti non condividono: e cioè che quello del rapporto con il fascismo sia un non-problema. O meglio un problema che è stato archiviato 27 anni fa da Fini, con la svolta di Fiuggi. Chiedere ulteriori abiure sarebbe come se, alla fine degli anni ’80, qualcuno avesse chiesto ai socialdemocratici tedeschi di ribadire il loro distacco dal comunismo, avvenuto a Godesberg nel 1959.

Quali differenze trova con il progetto originario del centrodestra di Berlusconi del 1994?

Almeno due. Primo, la politica fiscale: liberista quella di Berlusconi, keynesiana (cioè pro-occupazione) quella di Meloni. Secondo, scuola e università: aziendalista la visione di Belusconi (ricordate le “tre i”: inglese, internet, impresa), egualitaria e meritocratica quella recente di Fratelli d’Italia (almeno a giudicare dalla relazione di

Forza Italia era la riedizione della Dc, la Lega di Salvini un’operazione sovranista. Qual è la via italiana dei conservatori?

Lo vedremo, mi sembra che manchi ancora un’elaborazione teorica ampia e coerente.

La forza di FdI è di non essere una destra liberale, visto che l’Italia è Paese allergico al capitalismo spinto e al liberalismo?

Sì, è uno dei punti di forza.

Ma come si fa in Italia ad avere fiducia nello Stato, che fallisce inesorabilmente?

Il problema è che, sull’istruzione, il mercato ha già fallito. Dove sono le borse di studio per i “capaci e meritevoli” che, secondo l’articolo 34 della Costituzione, hanno diritto di “raggiungere i gradi più alti degli studi”, anche quando sono “privi di mezzi”?

Sotto campagna elettorale contro la Meloni la sinistra agiterà lo spettro neofascista: quanta presa ha ancora sull’elettorato italiano?

Secondo me ha ancora presa, quindi – dal suo punto di vista – fa bene la sinistra ad agitarlo. E’ cinico, ma la politica funziona così.

Il centrodestra è molto diviso sul tema della leadership, che invece il centrosinistra ha risolto a favore del Pd: ci sono speranze di comporre i dissidi?

Non molte, direi. Berlusconi e Salvini venderanno cara la pelle.

Al centrodestra non converrebbe, viste anche le divisioni, fare un’operazione in stile Ulivo, cercando un personaggio terzo, per arrivare al potere, come fece D’Alema con Prodi, che poi sostituì?

Forse funzionerebbe, se trovano il nome giusto. Ma sarebbe poco coerente: la destra ha sempre rivendicato l’autonomia della politica.

Berlusconi si è orientato su Salvini per garantire un futuro a Forza Italia. E’ pensabile che, in nome del pragmatismo che lo contraddistingue, cambi cavallo?

E’ pensabilissimo, Berlusconi è imprevedibile. Ma sarebbe un segno di debolezza.

Qual è la ragione della perdita di consensi di Salvini e quante possibilità ha di risalire la china?

Le ragioni sono tante. Gli errori e le gaffe, innanzitutto: caduta del governo giallo-verde, giravolte per l’elezione del presidente della Repubblica, legami inquietanti con il partito di Putin. E poi l’eccessivo semplicismo della linea politica della Lega attuale, molto più rozza della Lega che progettava le riforme federaliste. Oggi Berlusconi e Meloni sono molto più articolati di Salvini.

Gli italiani sono contro la guerra ma i partiti apertamente atlantisti (Pd e FdI) sono i primi e Draghi è il leader più popolare: contraddizioni?

Gli italiani preferiscono Pd e FdI a prescindere dalle posizioni sulla guerra. Il primato (sondaggistico) di Letta e Meloni precede lo scoppio della guerra. Le posizioni sulla guerra possono, tutt’al più, regolare i rapporti fra Pd e Cinque Stelle.

La guerra rafforza o indebolisce la Ue?

La indebolisce, perché mostra due cose: che non siamo affatto uniti, e che siamo a rimorchio degli Stati Uniti.

Perché la destra è pro-pace, il Pd pro guerra e l’estrema sinistra pro-pace?

Credo sia più esatto dire che tutti sono pro-pace, ma dissentono sui tempi e sui modi per raggiungerla, sul prezzo che siamo disposti a pagare, e sui rischi che siamo pronti a correre.

Ritiene che l’opinione pubblica italiana possa reggere a lungo la guerra?

No, l’opinione pubblica è semplicemente stata tenuta all’oscuro delle conseguenze economico-sociali della guerra.

Che effetti avrà la guerra sulla società italiana?

Se ci sarà la terza guerra mondiale, o anche solo molta radioattività in Europa perché è saltata una centrale nucleare, tutti diranno che avevano ragione Sergio Romano, Barbara Spinelli, Luciano Canfora, Alessandro Orsini, eccetera. Se invece avremo “solo” una guerra lunga, con povertà, disoccupazione, e milioni di profughi, il governo Draghi sarà accusato di imprudenza e irresponsabilità. Se, infine, dovesse cadere Putin, l’Ucraina perdesse solo il Donbass, e vi fosse un ritorno abbastanza rapido a una quasi-normalità, tutti esalterebbero la fermezza del fronte occidentale, e la lungimiranza del premier Draghi.

Il punto è che, allo stato attuale delle conoscenze economiche, militari, strategiche, nessuno conosce le conseguenze delle proprie azioni. Che cosa sia razionale e che cosa irrazionale lo deciderà l’esito del conflitto. E sarà comunque, anche quella, una lettura arbitraria, perché domani, è vero, potremo osservare le conseguenze delle nostre scelte, ma nessuno – mai – potrà sapere con ragionevole certezza come sarebbero andate le cose se avessimo fatto scelte diverse. Per questo, un po’ più di umiltà e di dubbi da parte di tutti non stonerebbero.

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