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Può esistere un partito sia di destra sia di sinistra?

4 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Partiti né di destra né di sinistra non sono rari nelle democrazie. Il tipico esempio sono i partiti liberaldemocratici, che hanno spesso fatto la loro apparizione nei maggiori paesi europei, come il Regno Unito, la Germania, la Francia. Anche l’Italia ha una
lunga tradizione di partiti moderati di centro, sia nella prima Repubblica (pri, psdi, pli), sia nella seconda: recentemente, il Terzo polo di Renzi e Calenda, in passato le infinite varianti del mastellismo-casinismo-follinismo: ccd, cdu, udc, eccetera.

Ma un partito sia di destra sia di sinistra? Può esistere, o è una contraddizione logica, come l’ircocervo che Benedetto Croce evocava per spiegare l’impossibilità del liberalsocialismo?

Dall’8 gennaio di quest’anno dobbiamo invece ritenere che possa esistere. E da ieri, dopo le elezioni amministrative nei länder tedeschi della Germania e della Sassonia, dobbiamo ritenere non solo che possa esistere, ma che possa sfondare. La prova
vivente è la pioggia di voti che, alla sua prima uscita in un’elezione germanica, ha inondato il partito fondato da Sahra Wagenknecht per l’appunto l’8 gennaio. Il partito si chiama Bündnis Sahra Wagenknecht (Lega Sara Wagenknecht), ed è il risultato di una scissione del partito della Linke, la formazione di estrema sinistra radicata nelle regioni della ex Germania dell’Est. Moglie di Oscar Lafontaine, ex leader della Linke, Sahra Wagenknecht è una politica tedesca con una chiara matrice di sinistra, ma si discosta dalla sinistra ufficiale classica, non importa qui se moderata o estrema, su almeno 4 punti fondamentali.

Il primo è il sostegno all’Ucraina, più in generale l’adesione alla Nato, ritenute controproducenti. Il secondo sono le politiche green, troppo costose per i ceti popolari. Il terzo sono gli eccessi del politicamente corretto e dell’agenda LGBT+. Il quarto, di gran lunga il più importante, sono le politiche migratorie, considerate troppo permissive.

In generale, le idee di Wagenknecht si richiamano alla dottrina marxista nel senso che privilegiano i conflitti a livello economico-strutturale, e snobbano quelli di tipo culturale e sovrastrutturale. Di qui la difesa dei lavoratori tedeschi nei confronti della
concorrenza dei migranti, visti come un temibile “esercito industriale di riserva”, e la freddezza rispetto alle rivendicazioni LGBT+.

Il successo di Wagenknecht, che in Turingia ha ottenuto il 16% e in Sassonia il 12%, è cruciale per la politica tedesca perché si è accompagnato a un successo ancora maggiore di Alternative für Deutschland, il partito tedesco più anti-immigrati e più
nostalgico del nazismo, che ormai raccoglie circa 1/3 dei voti in entrambe le regioni. Insieme, i due partiti anti-immigrati sfiorano il 50% dei consensi, a fronte del disastroso risultato dei partiti di governo (socialdemocratici, verdi, liberali), e al discreto ma non sufficiente risultato dei Popolari (24% in Turingia, 32% in Sassonia).
Per questi ultimi si prospetta un dilemma: fare fronte comune con socialdemocratici e Linke contro i due partiti anti-immigrati (BSW e AfD), con il rischio che al prossimo giro possano ottenere la maggioranza dei voti e formare un governo il cui unico vero
obiettivo sarebbe la lotta all’immigrazione illegale; oppure tentare il dialogo con il partito “sia di destra sia di sinistra” di Sahra Wagenknecht, recependo le inquietudini di tanti tedeschi nei confronti degli immigrati.

Resta il fatto che, nei due länder in cui si è votato, i quasi-nazisti di AfD hanno il 30% dei voti, e se Sahra Wagenknecht non avesse canalizzato una parte della protesta contro i migranti, probabilmente veleggerebbero sul 40%.

Qual è la lezione?

Sono tante, e dipendono dai pregiudizi di ciascuno di noi. L’unica lezione difficilmente contestabile è che il partito-ircocervo – sia di destra sia di sinistra – è diventato possibile. Staremo a vedere se solo in Germania.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 settembre 2024]

Forza Italia e il destino del centro

29 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Che succede in Forza Italia?

In questi ultimi giorni si sta parlando di una imminente proposta di legge di Forza Italia che agevolerebbe l’acquisizione della cittadinanza italiana ai ragazzi stranieri che hanno completato uno o più cicli di studio. L’idea è già stata bocciata da Lega e
Fratelli d’Italia (non è nel programma di governo), mentre una significativa apertura sul cosiddetto Ius scholae – ovvero la cittadinanza in base agli anni di scuola in Italia – è arrivata da Giuseppe Conte con un articolo sul Corriere della Sera.

La cosa interessante è che Conte non solo ha appoggiato l’idea, attribuendone la paternità ai Cinque Stelle, ma ha anche attaccato il massimalismo di Pd e Alleanza Verdi-Sinistra (AVS), che punterebbero sullo Ius soli (basta nascere in Italia per ottenere la cittadinanza), ossia su una proposta non solo impraticabile (mancano i numeri in parlamento) ma anche politicamente sbagliata.

Una lettura congiunta di questi due episodi suggerisce un’ovvia osservazione: sia a destra (con Forza Italia) sia a sinistra (con i Cinquestelle) è in atto un tentativo di differenziarsi dalle forze più radicali, spostandosi verso il centro.

Questo doppio movimento, tuttavia, è molto più credibile a destra che a sinistra. La mossa di Forza Italia, infatti, non è estemporanea come quella dei Cinque Stelle, ma segue una serie di recenti mosse dello stesso tipo. Pochi giorni fa Tajani, leader di Forza Italia, ha fatto significative e assai esplicite aperture anche su un’altra proposta non gradita agli alleati di governo, quella di varare un provvedimento svuotacarceri, misura peraltro perfettamente in linea con la tradizione garantista del partito berlusconiano. Ancora più significativamente, un paio di mesi fa Marina Berlusconi, presentando i progetti della casa editrice Silvio Berlusconi Editore, ha fatto una dichiarazione molto impegnativa: “Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq, mi
sento più in sintonia con la sinistra di buon senso. Perché ognuno deve essere libero di scegliere”.

Sono tre mosse significative, che convergono su un unico obiettivo: salvare Forza Italia rafforzandone il profilo moderato garantista, liberale, e pure laico-libertario. Alla luce delle ultime mosse, non vi sarebbe nulla di strano se domani Forza Italia dovesse farsi promotrice di una legge sul fine vita, o desse disco verde al matrimonio egualitario.

È realistico un simile progetto di riposizionamento politico?

Secondo me sì, ma per spiegare perché occorre tornare ai Cinque Stelle e al loro speculare progetto di distacco da Pd e AVS. La differenza fra le due situazioni è che a sinistra qualsiasi forza moderata suscita una crisi di rigetto di natura ideologica, aggravata dal ricordo della stagione renziana. Mentre a destra un analogo rigetto non avviene perché i partiti di centro-destra, ormai da decenni, sono abituati a ricercare un equilibrio fra loro in modo pragmatico, lungo linee negoziali, senza scontri sui principi ultimi.

Ecco perché a destra c’è posto per una robusta gamba moderata, mentre a sinistra non c’è.

E la Margherita? potrebbe obiettare qualcuno, pensando a quando il centro sinistra la gamba moderata ce l’aveva eccome.
Ma è precisamente questo il punto. Per essere pienamente accettati nello schieramento di centro-sinistra, i moderati dovettero creare un loro partito, dotato di una massa elettorale critica, vicina a quella della componente post-comunista, e puntare su un “papa straniero” (Romano Prodi). È così che riconquistarono la maggioranza nel 2006, dopo il quinquennio berlusconiano.
Oggi siamo lontanissimi da quelle condizioni. La Margherita non esiste più, inabissata nel Pd; il progetto di dare al centro-sinistra una gamba moderata è fallito con la dissoluzione del Terzo Polo; la massa elettorale di Renzi è ridicola; il partito di Conte ha ben poco di moderato; quello di Calenda lotta per non scomparire; Elly Schlein è tutto tranne che un papa straniero.

Allo stato attuale il duo Tajani-Marina Berlusconi è di gran lunga l’offerta più credibile per gli elettori che guardano al centro.

[articolo per la Ragione, inviato il 19 agosto 2024]

Campo largo, mission impossible?

25 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

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Il sogno di costruire a sinistra un “campo largo”, che vada dai liberal-riformisti (tipo Calenda) all’estrema sinistra (tipo Fratoianni), ha subito un duro colpo con il recente spettacolo di confusione, divisioni e ripicche andato in scena in Basilicata in vista delle imminenti elezioni regionali.

Qualcuno ha provato a dire che “solo uniti si vince”, sorvolando sul fatto che in Sardegna il centro-sinistra aveva vinto nonostante fosse diviso, e in Abruzzo aveva perso nonostante fosse unito. A quanto pare, il puzzle non possiede una soluzione semplice.

Ma ne possiede una?

Solo il tempo fornirà la risposta, ma forse un ripasso della storia della seconda Repubblica qualcosa ce lo può insegnare.

Intanto non è vero, come talora si sente dire, che le forze di centro-destra sono sempre state unite, e quelle di centro-sinistra quasi sempre divise. Il primo governo di centro-destra, guidato da Berlusconi, cadde per mano della Lega di Bossi; le elezioni del 1996 furono perse dal centro-destra perché al Lega andò al voto da sola; e alla caduta di Berlusconi nel 2011diede un contributo non secondario la sanguinosa frattura fra Berlusconi e Fini.

Quanto al centro-sinistra, i ricorrenti litigi non impedirono a Prodi di sconfiggere Berlusconi due volte (nel 1996 e nel 2006); le bizze di Bertinotti nel 1997-98 – pur costando la presidenza del consiglio a Prodi – non impedirono al centro-sinistra di governare indisturbato per cinque anni, dal 1996 al 2001.

Dunque, se stiamo alla storia degli ultimi 30 anni, non c’è eterna granitica compattezza a destra, né ineluttabile divisione a sinistra. La partita è aperta.

Che la partita sia aperta, tuttavia, non significa che la situazione sia simmetrica. Nonostante i precedenti speculari che abbiamo richiamato, ci sono almeno due ragioni di fondo che rendono più difficile unificare la sinistra che unificare la destra. La prima è che le differenze entro il campo di centro-destra sono di natura pragmatica (e quindi ricomponibili), mentre quelle entro il centro-sinistra sono di tipo valoriale (e quindi difficilmente ricomponibili). I politici di sinistra hanno perfettamente ragione quando osservano che anche a destra ci sono divisioni importanti sulla guerra, sulla politica fiscale, sull’immigrazione, ma si illudono se pensano che siano divisioni comparabili a quelle interne alla sinistra. Che sono invece basate su questioni di principio, in quanto tali percepite come non negoziabili, per non dire identitarie.

Faccio un esempio per rendere l’idea: anche a destra ci sono differenze importanti  sull’immigrazione, con Salvini che punta sulla chiusura dei porti, e Meloni sul blocco delle partenze, ma sono differenze che impallidiscono a fronte di quelle che separano Renzi e Minniti da Bonelli e Fratoianni. Queste ultime sono percepite come enormi e inconciliabili perché, complice l’atavico complesso di superiorità della sinistra, le si tratta come contrapposizioni morali, anziché come scelte fra opzioni politiche tutte legittime. Il fatto è che, su molti temi non secondari – l’immigrazione, il precariato, la guerra – le differenze di opinione a destra restano semplici differenze di opinione, a sinistra diventano irriducibili differenze etiche (detto per inciso: è per questo che Renzi e Calenda sono indigeribili per la sinistra, ma compatibili con la destra).

C’è anche una seconda ragione, però, che rende ardua – a sinistra – la costruzione di un campo largo vincente. Una ragione che definirei “idraulica”, in quanto ha a che fare con la dinamica dei flussi di voto. In breve: se il campo largo si presenta con un profilo riformista, una parte dell’elettorato Cinque Stelle non va a votare, ma se il profilo è massimalista (come attualmente) una parte dell’elettorato riformista si rifugia a destra.

Detto in altre parole: a destra la circolazione dei voti resta all’interno del perimetro della coalizione, a sinistra coinvolge anche i flussi verso astensione e coalizione avversa.

Perché funziona così?

Un po’ perché il maggior partito della sinistra non ha mai compiuto una vera scelta fra riformismo e massimalismo. Ma un po’, anche, per una ragione per così dire antropologica: dall’avvento di Berlusconi in poi, la tendenza a porre le questioni politiche in termini etici si è profondamente radicata nella psicologia dell’elettorato progressista. Il problema è che, alla lunga, l’eticizzazione del conflitto politico finisce per ritorcersi contro chi la promuove.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 marzo 2024]

Faziosità a sinistra, incultura a destra

18 Marzo 2024 - di Dino Cofrancesco

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Come sia finito Tommaso Cerno alla direzione del ‘Tempo’, il quotidiano di Renato Angiolillo e di Vittorio Zincone, resta per me un mistero. Certo un editore  può imporre al foglio di cui è proprietario una nuova linea politica ma la rottura con la tradizione non ha nulla di esaltante per quanti hanno a cuore la continuità col passato e con i valori ai quali per tanti anni si è rimasti fedeli, pur nella consapevolezza che, col mutar dei tempi, le strategie per preservarli e consegnarli alle generazioni future possono e debbono variare. E’ superfluo aggiungere che la continuità che si è apprezza è quella che si accompagna allo ‘stile’, al rispetto degli avversari, alla misura.

 Non voglio essere equivocato,   Tommaso Cerno è un giornalista di sinistra e rimasto tale, che spesso, tuttavia, nei talk show televisivi, ha assunto apprezzabili atteggiamenti anticonformisti e contro-corrente. In un primo momento, avevo pensato, ingenuamente, che forse la sua nomina fosse dovuta alla definitiva entrata dell’ex direttore dell’Espresso nella area politica liberale. Mi ha stupito, pertanto, nel vederlo, la sera del 15 marzo su un canale di Mediaset–il 35–raccontare la marcia su Roma con un linguaggio che sarebbe piaciuto all’Anpi. Il commento al documentario storico, infatti, era scandito da frasi come ‘la marcia dei malfattori’,’i malfattori sfilano..’,i malfattori tornano nelle loro tane provinciali etc.

 Mi sono venute in mente due considerazioni: ma com’è possibile che, a più di un secolo dalla marcia su Roma e dopo le ricerche di Renzo De Felice, “che tanta ala vi stese”, si riguardino le camicie nere come una banda di mascalzoni, violenti e ubriachi? Che Mussolini e i quadrumviri abbiano affossato–ma non nel 1922 bensì nel 1924– l’Italia liberale non ci piove ma ancora adesso ci è così difficile  riconoscere che avevano in mente un progetto politico, un’etica, dei valori, che non sono certo i miei ma che, non pertanto, vanno compresi (anche per evitare il pericolo che la dimenticanza del passato comporti la sua ricomparsa) e analizzati sine ira ac studio? Viviamo ancora nel clima della guerra civile in cui quanti hanno in odio la democrazia liberale —siano rossi o neri—sono da riguardare alla stregua dei delinquenti comuni? Brutto segno questo sprofondare politica e diritto, etica e religione nell’abisso dell’indistinzione indotta dal fanatismo moralistico più ottuso! Quando il nemico diventa un criminale tout court e la sua neutralizzazione una faccenda che riguarda non l’esercito ma la polizia, ci si pone al di fuori  della civiltà liberale, che distingue Al Capone da Adolf Hitler.

La seconda considerazione rinvia alle dolenti note sulla cultura della destra liberale. L’antifascismo ‘senza se e senza ma’ di Cerno non è inferiore a quello di Aldo Cazzullo, per il quale Mussolini è stato solo un delinquente–Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo Ed. Mondadori (sic!) s’intitola un suo libro recente—ma colpisce che abbia trovato spazio in una TV come Mediaset nata (anche) all’insegna della lotta al pensiero unico. E’ forse il segno inequivocabile che anche per i dirigenti dell’emittente televisiva creata da Berlusconi a stabilire chi sono gli storici che contano è il circolo mediatico Espresso/Repubblica/Stampa etc.

 In realtà, se a sinistra troviamo, da sempre, una faziosità ideologica degna della Russia stalinista, a destra, trionfa  un’incultura non riscattata da quel pragmatismo che fu una delle grandi virtù del liberalismo di governo. In una Regione di centro-destra come la Liguria, la commemorazione del 25 aprile venne affidata ,l’anno scorso, pensate un po’, a Maurizio Viroli, uno degli storici più settari e dogmatici che abbiano calcato le scene delle patrie lettere, autore di libri che presentano Silvio Berlusconi  come il più grande corrotto e corruttore della Prima Repubblica. Ma c’è di peggio: l’amministrazione di centro-destra del Comune di Genova, ripetutamente sollecitata, ha fatto orecchie da mercante alla proposta di dedicare una strada, un giardino, una piazza, una scuola al più grande sociologo del suo secolo, il genovese Vilfredo Pareto, al più grande giornalista del Novecento, Giovanni Ansaldo, nato all’ombra della Lanterna, a uno dei più importanti registi del Novecento Pietro Germi, nato nella genovesissima Via Ponte Calvi e figlio di un portiere d’albergo. Che le amministrazioni di centro-sinistra non l’abbiano fatto si può capire: Vilfredo Pareto, di cui Mussolini aveva il culto, fu proposto nel 1923 come rappresentante italiano in una importante Commissione della Società delle Nazioni a Ginevra e quindi nominato senatore del Regno; Giovanni Ansaldo, dopo la sua adesione al fascismo, aveva diretto ‘Il Telegrafo’ su designazione dell’amico Galeazzo Ciano e, nel secondo dopoguerra, il liberalconservatore ‘Mattino’ di Napoli; Pietro Germi era ritenuto dagli intellettuali e cineasti del PCI un socialdemocratico, quindi un criptofascista. Figli simili, per la Genova antifascista, erano da dimenticare ma la Genova civile, non dovrebbe rendere omaggio a pensatori, giornalisti e artisti che hanno segnato la storia culturale italiana, pur non dimenticando colpe ed errori che possono aver commesso (non Germi naturalmente)?

Patria e Libertà. Le colpe non sono soltanto della sinistra – Lettera aperta a Vittorio Feltri

2 Novembre 2023 - di Dino Cofrancesco

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I–Caro Feltri. ho letto con grande diletto e condivisione i brani del tuo ultimo libro, Fascisti della parola (Ed. Rizzoli) riportati dal ‘Giornale’ il 28 ottobre u.s. con una spiritosa introduzione di Alessandro Gnocchi. Mi è bastata questa anticipazione per capire che stiamo sulla stessa lunghezza d’onde. Il ‘politicamente corretto’—rincarerei la dose—è il segno inquietante di una ‘cultura politica’ che non invoca più la ghigliottina né rinchiude gli oppositori nei Lager e nei Gulag, avendo capito che la violenza fisica non paga e che l’uniformità dei cittadini si raggiunge meglio aspirando (nichilisticamente, avrebbe detto Augusto Del Noce) dalle loro anime valori e ideali incompatibili con la civiltà delle ‘magnifiche sorti e progressive’. E’ l’incubo di Tocqueville che sembra divenuto realtà. Nella prima Democrazia in America (1835) si legge: «nelle repubbliche democratiche, la tirannide |..| trascura il corpo e va diritta all’anima. Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu  sei uno straniero tra noi. Conserverai i tuoi privilegi di cittadinanza, |…| resterai   fra gli uomini, ma perderai i tuoi diritti all’umanità. Quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti fuggiranno come un essere impuro; e, anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poiché   li  si  fuggirebbe   a loro volta. Va’ in pace, io  ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte.  Sotto le monarchie assolute il dispotismo era disonorato; stiamo attenti che le repubbliche democratiche non lo riabilitino e che, rendendolo più pesante per qualcuno, non gli tolgano, agli occhi della maggioranza, l’aspetto odioso e il carattere degradante» .

 C’è, però, un punto del tuo discorso che non mi ha convinto ed è quello che riguarda la patria. Scrivi giustamente: «Oggigiorno, se dichiari di colti­vare il valore della patria, vieni guardato come se fossi Matteo Messina Denaro, o anche con maggiore disgusto e disprezzo. Ami la patria? Benissimo, sei un criminale. Punto. “Patria” è una parolaccia. “Patriota” un insul­to. “Patriottismo”, invece, una sorta di spirito fascista o nazi­sta». Di questa demonizzazione però incolpi solo la sinistra. Quest’ultima  «vorrebbe che la patria venisse odiata, il concetto di patria demolito, il patriottismo av­versato, allo scopo, appunto, di dare luogo a un mondo utopistico e mostruoso, senza confini, senza barriere, senza identità, senza storia (ecco perché si mi­ra a cancellarla o a riscriverla), senza maschi e senza femmine, un mondo dove tutto è genere neutro, nulla ha una propria identità e l’individuo è numero senza opinioni dissonanti rispet­to a quelle della maggioranza». A parte le perdonabili forzature, non hai tutti torti. Sono legione i filosofi del diritto, specie di scuola analitica, che in nome dell’universalismo illuministico (alla francese) non riconoscono alla ‘patria’—o alla nazione che è sostanzialmente  la stessa cosa—alcun valore. Nella rivistina ‘Non Mollare’–quindicinale di ‘Critica liberale’ una sorta di ridotto della Valtellina del post-azionismo duro e puro–Valerio Pocar nell’articolo dio, patria, famiglia nazionali del 23 febbraio u.s—scrive che «la situazione italiana» non consente «di parlare di patria|…|. Appare evidente che in questo Paese non esiste una patria comune, ma piuttosto una pluralità di patrie, nella storia essendo state numerosissime le etnie e le corrispondenti culture che hanno formato la popolazione residente sul territorio, etnie spesso gelose, talora anche giustamente, della loro specificità». Certo Valerio Pocar, come il suo collega Luigi Ferrajoli ,non fa, opinione, essendo noto solo a una ristretta cerchia di lettori e di periodici di nicchia.. Diverso è il caso di Norberto Bobbio che, come ho rilevato in un articolo Gli sfascisti della Nazione. Da Julius Evola a Norberto Bobbio (HuffPost 21 maggio 2023)– ripreso nel libro Per un liberalismo comunitario (ed. La Vela 2023–non solo non amava i termini ‘nazione’ ,’patria’ etc.ma diffidava anche della parola ‘popolo’, che per lui sapeva di ‘organicismo’ ovvero di qualcosa di opposto alla democrazia liberale fondata sugli ‘individui’.

 

II–Detto questo, però, non si può ignorare l’apporto rilevante della cultura conservatrice, tradizio-nalista, cattolica e liberale all’appannamento dell’idea di patria–un’idea divenuta col tempo indi-sgiungibile dall’idea di nazione, da cui si distingue per la dimensione affettiva non necessariamente connaturata alla seconda: si parla, infatti , di ‘amor patrio’ non di ‘amor nazionale’. La nazione è un dato storico oggettivo, che può essere persino percepito come naturale ma che, per definizione, non è oggetto di devozione, di affetto filiale se non come sinonimo di patria.

 Nel tuo scritto, caro Feltri, parli di patria-nazione e ne attribuisci la rimozione nelle coscienze alla sinistra tout court, ignorando ad es. che furono due leader di sinistra, Bettino Craxi, con la sua idea di ‘socialismo tricolore’ e Carlo A. Ciampi a rendere omaggio all’Italia. Ricordo solo l’articolo di Francesco Damato su ‘Formiche’ del 16 settembre 2014, Perché con Carlo Azeglio Ciampo la parola Patria tornò di moda. Furono due operazioni, peraltro che non mi convinsero molto, specie la seconda, ma non è questo il punto. Se si pensa ai due eventi che hanno segnato, l’uno, la nascita dello Stato nazionale—il Risorgimento—e l’altro il suo tramonto–il Fascismo–vien fatto di chiedersi: una subcultura politica, quella della destra ,può davvero sentirsi legata a una comunità di destino se il giudizio su quei due eventi epocali non trova d’accordo tutte le sue componenti? Prendiamo il Risorgimento. Per il mondo cattolico si è trattato di una tragedia giacché aveva posto fine al  potere temporale dei papi, garante dell’indipendenza del Capo supremo della Cristianità. Per ampi strati sociali che votano a destra—e non solo nelle campagne—a nulla è valso che Paolo VI attribuisse agli artefici dell’unità nazionale  il merito di aver liberato la Chiesa dal fardello dello Stato pontificio e, soprattutto, l’impegno etico e la partecipazione attiva alle battaglie risorgimentali da parte di quella borghesia cattolica liberale che aveva espresso un Alessandro Manzoni (“un di quei capi un po’ pericolosi”, per citare Giuseppe Giusti) un Bettino Ricasoli, un Marco Minghetti, un Ruggero Bonghi, un Vincenzo Gioberti etc. etc.

 Se dall’universo cattolico si passa a quello ‘nostalgico’ dei postfascisti, il discorso non cambia poi molto, in fatto di identità nazionale. La sconfitta dell’Asse, per molti, è stata la riprova delle colpevoli fragilità del regime e della necessità di superare gli stati nazionali in direzione di un impero europeo di cui il Terzo Reich aveva in un certo senso fornito il modello (a parte il genocidio ebraico, s’intende, da nessun gruppuscolo rivendicato come ‘cosa giusta e buona’)

 E che dire poi dell’aperto rinnegamento dello Stato unitario da parte di movimenti sorti in regioni come la c.d. Padania o la Campania? Non è il caso di rivangare il passato, ma come dimenticare che il leader e fondatore della Lega si vantava di pulirsi il c.. con la bandiera tricolore? E come ignorare l’agguerrita storiografia neoborbonica che ha ripreso tutte le mitologie relative al prospero Regno delle Due Sicilie, colonizzato, martoriato e impoverito dalla ‘conquista regia’? Ai seguaci di questi movimenti a nulla potrebbe servire la lettura del saggio puntuale e documentato di Dino Messina,  Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare (Ed. Solferino 2021): l’antitalianismo non si nutre di fatti ma di leggende nere; e dei grandi storici del passato—che hanno studiato il Risorgimento “con occhio chiaro e con affetto puro”—da Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, da Benedetto Croce a Rosario Romeo, da Adolfo Omodeo a Walter maturi, per limitarci a questi—non potrebbe importargliene meno.

 Ma le cose cambiano radicalmente quando si entra nella ‘casa dei liberali’? Certo qui il richiamo a Cavour, a Vittorio Emanuele II (meno), ai non troppo amati Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi

è quasi obbligatorio. Ma anche qui come ignorare la voglia (segreta) di liberarsi di quelle icone ormai invecchiate per presentare i liberali come gli alfieri di una democrazia liberale, che pone lo Stato al servizio degli individui e lo legittima soltanto come garante dei loro diritti civili e politici mentre proietta l’Italia nel mondo, quasi considerandola una provincia dell’Europa unita? Correttamente Andrea Frangioni, a conclusione della voce Nazionalità (principio di nazionalità) per il ‘Dizionario del Liberalismo Italiano (Tomo I, Ed. Rubbettino 2011) ,ricorda, a partire dagli anni cinquanta «i segnali di una progressiva scomparsa del principio di nazionalità non solo dall’orizzonte della contemporaneità italiana, come notò Rosario Romeo nelle Conclusioni del suo Cavour, ma anche da quello del liberalismo italiano. Basti pensare proprio all’itinerario di ricerca nel secondo dopoguerra di un pensatore liberale importante come Alessandro Passerin d’Entreves, che coinvolse temi inediti per il liberalismo italiano come quelli del diritto all’obiezione di coscienza nei confronti dello Stato e della disobbedienza civile. Ancora si può ricordare la scarsa fortuna della dicotomia chabodiana sulle idee di nazione, confutata, già nel 1949, sulla scia delle posizioni di Hans Kohn, da Salvemini nelle sue lezioni universitarie fiorentine. Non a caso, allora, la riflessione sulla nazione non viene indicata da Nicola Matteucci tra gli elementi di quella ripresa di vitalità del pensiero liberale che a suo giudizio cominciò a manifestarsi a partire dagli anni Settanta del Novecento». Tale mancata riflessione sulla nazione da parte di Nicola Matteucci, però, non  sembra espressione di lungimiranza politica e di profondità teoretica se si pone mente allo spazio che tale tematica occupa  negli scritti di grandi liberali del Novecento come Isaiah Berlin, Raymond Aron, François Furet e, in Italia, Benedetto Croce, Rosario Romeo, Renzo De Felice.

 In Matteucci, in questo vicino a Norberto Bobbio, non c’è il sospetto che la democrazia liberale, come tutte le forme di governo, è, per così dire, una divisa istituzionale che regge nella misura in cui si adatta  al corpo che la indossa ovvero nella misura in cui  si confà alle tradizioni, agli stili di pensiero, ai costumi, alla cultura in senso lato di un popolo. Se non si fanno i conti con ciò che l’Italia è, che è stata, col suo passato drammatico e complesso, se non si medita  sul modo in cui ricostruire su valori comuni l’unità politica lasciataci in eredità dal Risorgimento, si costruisce solo sulla sabbia: la patria—ideale che accomuna—scompare ma null’altro è in grado di  sostituirla. E soprattutto non è in grado di farlo il ‘patriottismo costituzionale’ giacché sui diritti individuali in quanto tali non si fonda niente. I ’diritti universali’ acquistano peso e sostanza se sono quelli di una comunità politica che, grazie anche ad essi, vuole sopravvivere nel tempo e prosperare. L’universalismo etico-giuridico–bisogna abbattere le frontiere giacché il Diritto è eguale per tutti i figli della Terra—non è più corrosivo dell’idea di patria rispetto all’universalismo mercatista—si vende e si compra là dove è più conveniente sicché l’esportazione di capitali e di imprese all’estero non può essere ostacolata da considerazioni sovraniste, come la perdita di posti di lavoro in patria giacché la libertà dell’individuo-imprenditore viene prima della presunta ‘ragion di Stato’. Non è un caso che ormai il liberalismo italiano abbia messo in soffitta l’idea di Stato nazionale, sulla scia di correnti di pensiero che si rifanno a Karl R. Popper, all’ideologia federalista ed europeista, alla scuola austriaca e persino ai libertari anarco-capitalisti americani. Se si ritiene con Popper che < il principio dello stato nazionale |…| è un mito; è un sogno irrazionale, romantico e utopistico, un sogno del naturalismo e del collettivismo tribale> come si può prendere sul serio il culto della bandiera, l’Inno di Mameli, l’orgoglio dell’appartenenza a una comunità di destino? Anche nei quotidiani della destra liberale, grande spazio viene dato ad autori come Elie Kedourie la cui condanna del ‘nazionalismo’ fa pensare all’anti-sionismo così diffuso nella cultura di sinistra. Come l’antisionismo, in realtà, è una maschera dell’antisemitismo ed ha come obiettivo la distruzione dello stato nazionale ebraico, così troppo spesso l’antinazionalismo è il cavallo di Troia che nel suo ventre nasconde l’attacco al principio di nazionalità, sul quale Woodrow Wilson pensava di rifondare il puzzle etnico europeo, suscitando l’entusiasmo di autentici democratici italiani ed europei—v. gli scritti del grande e dimenticato filosofo del diritto, socialriformista, Alessandro Levi nonché di Gaetano Salvemini.

III–E qui cade anche il discorso sul fascismo. Non recupereremo mai il senso, dell’identità nazionale, l’amor di patria, finché il giudizio storico sul regime continuerà ad essere fonti di divisioni e di incomprensioni, finché non avremo elaborato, ma sul serio non retoricamente, il senso di una visione condivisa.

 In un generoso articolo (mai pubblicato e forse non è un caso)—ricordato da Eugenio di Rienzo nella sua bella voce ‘Patria’–sul citato ‘Dizionario del liberalismo italiano’ —Benedetto Croce rilevava, nel 1943, che l’amor di patria era una ‘parola desueta’(allora!!!): ma «deve tornare in onore appunto contro lo stolido nazionalismo, perché esso non è affine al nazionalismo, ma il suo contrario. Si potrebbe che corre tra l’amor di patria e il nazionalismo la stessa differenza che c’è tra la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura e la bestiale libidine o la morbosa lussuria o l’egoistico capriccio. L’amore di patria è un concetto morale. Nel segno della patria i nostri più austeri doveri prendono una forma particolare e più a noi vicina, una forma che rappresenta l’umanità tutta e attraverso alla quale si lavora effettualmente per l’umanità tutta. Perciò,  se i nazionalismi aprono le fauci a divorarsi l’un l’altro, le patrie collaborano tra loro, e perfino le guerre tra esse, quando non si riesce ad evitarle, sono non di distruzione reciproca, ma di comune trasformazione e di comune elevamento. E poiché la patria è un’idea morale, essa ha in ciò il suo intimo legame con l’idea della libertà».

 Erano parole nobili ma dettate solo dal cuore, in cui si avvertivano lontani echi mazziniani : non a caso erano parole destinate a cadere nel vuoto. All’interno di una filosofia politica che abbia preso il pluralismo sul serio, la patria, in realtà,  non ha nessun ‘intimo legame con la libertà’ ma costituisce la base terrena su cui le ideologie—quella liberale non meno di quella totalitaria—costruiscono i loro edifici istituzionali. Una patria coesa, vigorosa, abitata da cittadini che sentono fortemente il legame comunitario, sarà una risorsa preziosa sia per il Giappone di Tojo e la Germania di Hitler sia per l’America di Roosevelt e di Eisenhower. Il fascismo volle creare la coesione nazionale sacrificando al valore comunità il valore libertà ovvero privilegiando la dimensione comunitaria sulla dimensione societaria—quella delle libertà individuali, dei diritti dell’89 e dei principi che saranno a fondamento della Carta atlantica. In tal modo rimuoveva la consapevolezza  che nel ‘mondo civile’ ci si sente a proprio agio se le due dimensioni vengono tenute costantemente in equilibrio. Come scriveva Max Weber nel 1918, mettendo in relazione la democrazia inglese con il suo imperialismo (quale linguaggio politicamente scorretto!), «Solo un popolo politicamente maturo è un ‘popolo di signori’ : è tale un popolo che ha nelle proprie mani il controllo dell’amministrazione dei propri affari e che, mediante i propri rappresentanti eletti, determina in maniera decisiva la scelta dei suoi capi politici.  |..| Solo i popoli di signori hanno la missione di intervenire sugli ingranaggi dell’evoluzione mondiale.|..| Ma una nazione che produce solo buoni funzionari, stimabili lavoratori d’ufficio, probi commercianti, eruditi e tecnici valenti, nonché servi fedeli e per il resto sopporti pazientemente una burocrazia libera da controlli sotto frasi pseudo-monarchiche—ebbene questo non è un popolo di signori e farebbe meglio ad attendere alle proprie faccende quotidiane, anziché avere la presunzione di preoccuparsi dei destini del mondo».

 Finché il fascismo , lungi dall’essere riguardato come la negazione di ogni valore (il Male assoluto), non verrà visto come la terra data alle fiamme per il trionfo di un valore unico–‘l’unità e la potenza della nazione’–sarà difficile recuperare un qualsiasi senso della patria. Quest’ultimo è possibile solo se ci si decide di assumersi collettivamente la responsabilità di quanto è accaduto nel demonizzato ventennio, se si riconosce che il fascismo fu un vulnus per la democrazia liberale ma che a prepararlo furono tutte le ‘familles spirituelles’ del paese. I cattolici che. mai del tutto riconciliati con lo stato nazionale, non vollero unirsi ai socialisti di Turati per salvare lo Statuto albertino; i liberali di governo che, come ricordava Rosario Romeo, furono incapaci di imporre la legge e l’ordine nelle piazze, per viltà e/o per opportunismo; le sinistre che ‘volevano fare come la Russia” occupavano le fabbriche, mettevano a soqquadro leghe padronali e sindacati bianchi; gli intellettuali memori del carducciano ‘ahi non per questo’—ovvero ‘non per. questo corrotto regime parlamentare s’è fatta l’Italia’.

 Nel nostro paese, la destra, se liberale, ripete stancamente con Croce che il fascismo e il nazionalismo sono i nemici più pericolosi della patria; se conservatrice o tradizionalista, si limita a riconoscere che le leggi razziali e l’Asse Roma-Berlino furono colpe inespiabili del regime. Nessuna delle due, né la destra liberale né la destra conservatrice, sembra voler acquisire la consapevolezza che il fascismo è stato ‘cosa nostra’, sia di quanti lo hanno sostenuto sia di quanti lo hanno combattuto, e che, per liberarsene davvero, occorre metterne a fuoco le negatività—certo innegabili e inespiabili—ma anche le ragioni storiche e le motivazioni ideali. La destra così gioca in ‘difesa’—non abbiamo nulla a che fare col fascismo. soprattutto con quello della seconda metà degli anni trenta—e la sinistra ‘all’at-tacco’—siete, consapevolmente o meno ,fascisti, sovranisti e populisti e quindi inaffidabili. Una partita deprimente destinata a dividere sine die gli italiani e a distruggere per sempre ogni barlume di amor di patria. Però, caro Feltri, non dare la colpa solo a una parte politica. La sinistra, leggendo le tue pagine sul declino dell’amor patrio, potrà sempre dire: “a ciò non fu’io sol”.

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