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Il Manifesto di Ventotene. Qualche considerazione di metodo

3 Aprile 2025 - di Dino Cofrancesco

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Giuseppe Ieraci sul post di Paradoxa-Forum, del 28 marzo, Sovversivi e comunisti a Ventotene, analizzando criticamente Il Manifesto di Ventotene ha parlato di «un apparato concettuale che oggi desta perplessità: lotta e coscienza di classe, rivoluzione, collettivizzazione, proletariato, sfruttamento capitalistico, imperialismo, si tratta di un linguaggio tardo ottocentesco che era tipico dell’humus culturale dei nostri ‘resistenti’». Gli ho fatto rilevare che proprio quell’apparato concettuale avreb-be dovuto sconsigliare dal farne un testo di battaglia ancora attuale da sbattere in faccia al governo. Sennonché, con grande meraviglia, leggo su ‘Critica Liberale’ un articolo di Giuseppe Civati, All’armi son fascisti del 19 marzo u.s., – un politico che si dichiara alla sinistra della sinistra parlamentare – che sembra non condividere affatto le ‘perplessità’ di Ieraci.. A Giorgia Meloni – che aveva citato, a riprova del sostanziale illiberalismo del Manifesto, il passaggio: «Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia» – Civati obietta che avrebbe dovuto proseguire nella citazione e leggere il seguito del discorso: «Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo, fin dai primissimi passi, le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento, di istituzioni politiche libere».

 È difficile capire se Civati si limita a riportare ciò che passava nella mente di Spinelli, Rossi e Colorni o se crede davvero alla plausibilità di un partito rivoluzionario che avrebbe potuto riformare una comunità politica (nella fattispecie, vasta come un continente) senza tramutarsi in un apparato dispotico. In realtà, se la premier avesse proseguito nella sua citazione avrebbe ulteriormente giustificato la denuncia del carattere illiberale del Manifesto. Quando mai, infatti, si è avuto nella storia un partito rivoluzionario demiurgico in grado di realizzare grandi riforme, di far trionfare libertà, eguaglianza e giustizia sociale e disposto poi a ritirarsi in buon ordine per dare la voce al popolo redento? Sembra essere ritornati ai tempi in cui la sinistra (oggi atlantista) inneggiava a Fidel Castro e ai barbudos ritenendo che avrebbero riportato la democrazia a Cuba. Si è tenuti a contestualizzare un documento storico – e certo è doveroso farlo – ma non si può far passare un progetto rivoluzionario come espressione di vera democrazia.

Ma c’è un altro punto sul quale vorrei richiamare l’attenzione. Nel suo post, Ieraci rimprovera alla premier di aver «attribuito un metodo (la lotta rivoluzionaria) e dei fini (il socialismo) ai protagonisti di oggi, che con quella temperie politica e culturale non hanno nulla a che fare, insomma ha fatto cadere presunte colpe dei padri sui figli». Difficile non essere d’accordo però questo deprecabile vizietto di far ricadere le colpe dei padri sui figli è diffuso sia a destra che a sinistra. Sui più grandi organi di informazione non si ritiene Giorgia Meloni l’erede del fascismo? Lo stesso Ieraci, a chiusura di articolo, rileva che la premier «quando dice che la sinistra ‘mostra un’anima illiberale e nostalgica’ dovrebbe – credo – anche interrogarsi sulle sue nostalgie». E va già bene che non abbia scritto che, appartenendo alla razza di quelli che confinarono Spinelli, Rossi e Colorni a Ventotene, non ha titoli per criticarli.

A mio avviso, qui va fatta chiarezza una volta per tutte. Ci sono formazioni politiche in Italia, a destra e a sinistra, che si richiamano a idealità che ispirarono regimi poli-tici illiberali degenerati in regimi totalitari. Ancora negli anni 60 persino nella tessera del PSI veniva dichiarata l’adesione ai principi del marx-leninismo, ovvero ai principi che oggi evocano la dittatura, la polizia segreta, l’eliminazione degli oppositori. Era ovvio che quanti si dicevano comunisti prendessero le distanze non solo dallo stalinismo ma anche dalle forme meno totalitarie del socialismo reale: in fondo, avevano contribuito a riportare, con la Resistenza, la libertà politica in Italia. A loro stavano a cuore la giustizia sociale e uno stato sociale in grado di assicurarla non l’eliminazione dei kulaki e il KGB.

Ma perché non deve valere lo stesso discorso per i pretesi nostalgici del fascismo? Tutti gli intellettuali di destra che ho avuto l’occasione di conoscere deprecavano le leggi razziali e molti consideravano l’asse Roma-Berlino l’errore imperdonabile del duce. Ma il loro pensiero andava alle bonifiche, agli enti assistenziali, alle riforme scolastiche, ai treni in orario, a Giovanni Gentile e ai grandi esponenti della cultura italiana che avevano creduto in Mussolini. Perché non dovrebbero essere ritenuti in buona fede come vengono (giustamente) ritenuti i postcomunisti? Che senso ha ricordare a questi ultimi i Gulag e agli altri il Tribunale della Razza?

Certo si può ritenere che già nel marxismo ci fossero i germi della popperiana ‘società chiusa’ e che nell’ideologia fascista ci fossero il confino e la ‘difesa della razza’. Ma queste sono conclusioni alle quali arrivano lo storico, lo studioso delle ideologie, lo scienziato politico – conclusioni fondate su congetture ragionevoli ma non infallibili: ciò che dovremmo criticare nei postfascisti e nei post-comunisti non è la famiglia di appartenenza ma comportamenti e programmi politici determinati.

In un articolo molto pacato pubblicato sul ‘Giornale’ il 26 marzo u.s., La coperta troppo corta del mito di Ventotene, Gaetano Quagliariello si è chiesto, parlando della Meloni, «perché tanto scandalo? Perché affermazioni come ‘Credo nell’Europa di De Gasperi e non in quella di Ventotene’; oppure ’Condivido la visione liberale di Einaudi e non mi ritrovo in quella giacobina di Ernesto Rossi’; o persino ‘Nel mio Dna ho l’Europa delle nazioni e non posso perciò riconoscermi in una visione federalista’, vengono ritenute alla stregua di inaccettabili profanazioni?» Forse perché nei periodi invernali della vita di una nazione, sono le tempeste in un bicchier d’acqua a scaldare gli animi.

 

[articolo pubblicato su PARADOXA-FORUM il 31 marzo 2025]

Sulla manifestazione del 15 marzo – Il manifesto di Ventotene, contro il pluralismo e la democrazia

21 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Di una cosa sono certo: la maggior parte di coloro che parlano del Manifesto di Ventotene non l’hanno letto. Lo dico a loro discolpa, perché se – anziché lodarlo acriticamente – l’avessero letto con la dovuta attenzione sarebbero da tempo impegnati in un difficile lavoro di reinterpretazione o, come si dice oggi, di “contestualizzazione”. In breve: si sforzerebbero di dimostrare che, nonostante le cose inquietanti che il manifesto indubbiamente dice, possiamo condividerne lo spirito, le finalità, le buone intenzioni (lo Stato federale europeo), e scordarci sia i fini concreti proclamati in quel manifesto sia i metodi invocati per imporre quei fini. E, venendo alla manifestazione di sabato scorso, anziché far circolare il sacro libretto preceduto da un’introduzione del tutto acritica, avrebbero avvertito i convenuti che – per non essere presi in castagna, come Giorgia Meloni ha provveduto a fare ieri – sarebbe stato bene non prendere troppo sul serio quel manifesto, in quanto molto datato e scritto in condizioni di isolamento.

Io invece lascio volentieri l’opera di contestualizzazione, depurazione, rilettura del Manifesto e vado dritto ai fini e ai mezzi esplicitamente dichiarati, perché prima di rileggere occorre leggere.

Ebbene, sui fini, il Manifesto dice chiaramente che l’assetto sociale da promuovere è di tipo socialista (anche se non comunista), con ampi espropri e severe limitazioni alla proprietà privata. Nessuna considerazione riceve l’eventualità che l’assetto possa essere liberale, o non socialista.

Quanto ai mezzi, il Manifesto immagina che il nuovo assetto possa essere instaurato attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, che imporrà la sua volontà alle masse, ancora incapaci di riconoscere i propri interessi, semplice “materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti”. In una situazione di “ancora inesistente volontà popolare” il partito rivoluzionario, guidato da una élite illuminata, “attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto” non già dal consenso popolare ma “dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna”.

E non è tutto. Chi avesse dei dubbi sulla visione politica del Manifesto dovrebbe riflettere sulle parole, sprezzanti e beffarde, rivolte ai “democratici”, ovvero a quanti pensano che il potere del governo debba poggiare su libere elezioni. I democratici sono gente che sogna “un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi”. Illusi, che non comprendono che nella crisi rivoluzionaria “la metodologia politica democratica sarà un peso morto”. Pavidi, che sono disposti a usare la violenza “solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità”.

Insomma, spiace dirlo ma il Manifesto di Ventotene è il più esplicito e conturbante ripudio del pluralismo, la più clamorosa deviazione dal percorso democratico e costituzionale (libere elezioni + Assemblea Costituente) che, molto saggiamente, l’Italia seguirà dopo la fine della seconda guerra mondale.

Possiamo almeno dire che una cosa buona – l’idea degli Stati Uniti d’Europa – il Manifesto di Ventotene l’ha partorita?

Per certi versi sì, perché effettivamente è nel Manifesto del 1941 che per la prima volta viene compiutamente formulata quell’idea. Ma per certi versi invece no, perché il modo di formularla fu elitario, giacobino e anti-democratico. Da questo punto di vista, forse, anziché ripetere meccanicamente che il meraviglioso ideale di Ventotene è stato tradito dalle classi dirigenti che ci hanno condotti all’Europa attuale, forse dovremmo domandarci se il progetto europeo non è fallito proprio perché a quell’ideale si è conformato fin troppo. L’Europa di oggi, governata da una élite burocratica e autoreferenziale, soffre del medesimo male – la costruzione dall’alto, senza coinvolgimento popolare – che affligge il Manifesto di Ventotene.

Si può essere euro-scettici o europeisti convinti, ma chi davvero sogna gli Stati Uniti d’Europa, s crede nel metodo democratico non può prendere a modello il Manifesto di Ventotene. Idolatrare quel modello è stata un’ingenuità, dettata dall’ideologia e dalla scarsa conoscenza. Possiamo fare molto di meglio, e dobbiamo provarci senza rinunciare al pluralismo e alla democrazia.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 marzo 2025]

La Corte costituzionale rumena: un esempio di democrazia ?

20 Marzo 2025 - di Dino Cofrancesco

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Un noto columnist del ‘Corriere della Sera’, alcune settimane fa, ha ricordato la distinzione fatta da Norberto Bobbio delle due libertà: la libertà negativa (posso fare ciò che voglio) che è libertà dallo Stato e la libertà positiva (il mio volere è libero) che è libertà nello Stato, di partecipare alle “decisioni pubbliche e di obbedire solo alle leggi che si è contribuito a scrivere attraverso il processo democratico”. La (irrinunciabile) democrazia liberale è la sintesi delle due libertà. In seguito, però, l’articolista cita Rousseau per rilevare che la libertà di obbedire solo alla ‘volontà generale’ pone “le basi di molti dispotismi e tra i più sanguinari”.

Mi chiedo, tuttavia,” ma cosa c’azzecca tutto questo con la libertà positiva che, presa alla lettera significa che sono i rappresentanti eletti dal popolo a fare le leggi, e chi altro, sennò?”. Il fatto è che Rousseau distingueva la volontà generale—un’astrazione ideologica partorita dalla sua mente—dalla volontà di tutti, ovvero dalla volontà espressa dagli elettori in carne ed ossa ovvero dal partito a cui hanno dato la maggioranza.

Tale distinzione tra la volontà generale e la volontà di tutti non sembra affatto sepolta nella tomba dell’autore del ‘Contratto Sociale’. Per Claudio Cerasa, ad es., la vittoria di Calin Georgescu in Romania—“viziata da un’inge-renza (russa, cinese e di gruppi criminali)”—è stata la ‘volontà di tutti’ e, pertanto, a ragione la Corte Costituzionale rumena si è vista costretta ad annullarla.

Insomma c’è democrazia quando vincono i ‘buoni’ non quando prevalgono le masse gregarie, corrotte e ingannate da “politici filorussi nostalgici del nazismo e da influencer popolari islamisti e fascisti”. In quest’ultimo caso, in virtù della divisione dei poteri–tanto cara a Mauro Zampini che, modestamente, si firma ‘Montesquieu’–, provi-deant judices ne quid res publica detrimenti capiat’ (provvedano i giudici affinché lo stato non soffra alcun danno). A questo compito istituzionale i magistrati italiani si sono già attrezzati, sin dal tempo di ‘Mani Pulite’. Sarà la democrazia giudiziaria a salvarci dalla corruttibile democrazia liberale?

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università degli Studi di Genova
dino@dinocofrancesco.it

[articolo uscito su Il giornale del Piemonte e della Liguria l’11 marzo]

Dopo il discorso di J.D. Vance – Valori occidentali?

3 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Nella sua breve visita in Europa il vicepresidente americano J.D.Vance ha attaccato duramente i politici europei, accusandoli di aver tradito i “valori occidentali”. Ma che cosa sono i valori occidentali?

Nel suo discorso, o meglio nella sua requisitoria, Vance si riferiva chiaramente a due valori in particolare: la libertà di parola, o free speach, e la democrazia, ovvero la scelta del governo mediante libere elezioni. Gli europei avrebbero tradito la prima con un ricorso eccessivo alla censura (caccia a presunte fake news) e la seconda con l’annullamento delle elezioni in Romania, ufficialmente per interferenze russe, in realtà (secondo Vance) perché gli elettori avevano premiato un candidato sgradito a Bruxelles.

Ma che cosa sono i valori occidentali?

Una possibile risposta è che, dopo la rivoluzione francese e la progressiva introduzione del suffragio universale, i valori che si sono affermati in occidente sono fondamentalmente tre: la libertà, l’eguaglianza, la democrazia.

Su questi tre valori c’è un larghissimo consenso non solo fra la gente, ma pure fra le forze politiche. E allora perché se ne discute tanto animatamente, e ci si divide così spesso, come è successo pochi giorni fa in occasione del discorso di Vance a Monaco?

La ragione è semplice: i grandi valori non vengono solo sottoscritti, ma anche interpretati. E l’interpretazione è il passo più importante, perché da essa dipende fino a che punto si è disposti a difenderli. E da che punto in poi si è disposti ad abbandonarli, o annacquarli, o modificarli. Ogni valore, prima o poi, incontra un limite. Ed è su questo limite, dove si trovi e quando non lo si possa attraversare, che le nostre opinioni divergono.

Prendiamo la libertà. Siamo tutti per la difesa delle libertà fondamentali, ad esempio la libertà di parola e la libertà di movimento.
Ma durante il covid questo nostro accordo di fondo è stato messo a dura prova dalla campagna vaccinale e dalla battaglia sulle fake news. Per alcuni la libertà di movimento andava limitata in nome della sicurezza collettiva (da cui: lockdown, obbligo vaccinale, green pass), per altri quella limitazione era un abuso, un’ingiustificata compressione di diritti fondamentali. Idem per le fake news: per alcuni la circolazione delle opinioni andava severamente limitata sui social, sulla stampa, in tv, per altri quelle limitazioni costituivano un grave attacco alla libertà di opinione e al free speach. Il medesimo discorso si ripropone per la lotta ai discorsi d’odio: c’è chi pensa che certe opinione siano inammissibili e vadano punite, c’è chi pensa che la libertà di parola o è totale o non è.

Prendiamo l’ideale dell’eguaglianza. Pochi lo contestano come idea regolativa, come principio generale. Ma è sul modo di interpretarlo che si combattono le battaglie più aspre fra chi lo intende come eguaglianza delle opportunità, e chi pensa che l’eguaglianza possa essere imposta con le quote riservate per le categorie protette. C’è chi privilegia l’inclusione (le atlete trans devono poter gareggiare con le atlete donna), e chi privilegia il principio di equità (nessuno può partire con vantaggi o handicap). C’è chi interpreta l’eguaglianza come estensione illimitata dei diritti umani, e chi pensa esistano anche i diritti dei popoli, che a quella estensione possono porre un limite.

E la democrazia? Almeno su quella sembrerebbe che siamo tutti d’accordo. Ma non è così. Alcuni pensano che le regole elettorali vadano sempre applicate, e il risultato del voto accettato. Senza eccezioni. Altri, invece, pensano che alcuni partiti, considerati non democratici o nemici della democrazia, vadano esclusi dalla competizione elettorale, o quantomeno esclusi dal governo, se non si riesce a scioglierli prima.

Ed eccoci di ritorno al discorso di Vance. Chi ha tradito i valori occidentali? Chi li difende veramente?

La risposta è che nessuno, né Trump né von der Leyen, è il vero paladino dei valori della nostra civiltà. Perché quei valori li interpretiamo in modi diversi. Per Trump la libertà di opinione è un assoluto, nessuna forza politica può essere esclusa dal voto (di qui i buoni rapporti con l’AfD), l’equità è più importante dell’inclusione. Per l’establishment europeo (ma anche per quello americano prima di Trump) la lotta alle fake news e ai discorsi d’odio giustifica la censura, certi partiti vanno tenuti fuori dal governo (dottrina del “cordone sanitario”), l’inclusione deve prevalere sull’equità.

L’unica cosa che, forse, accomuna le due culture atlantiche, è l’incapacità di prendere atto che, nella società moderna, il “politeismo dei valori” – ovvero la coesistenza, così ben descritta da Max Weber, fra valori contrastanti nessuno dei quali può pretendere di sovrastare gli altri – è un tratto per così dire costitutivo. Nessuno ha veramente tradito i valori occidentali, perché quei valori devono essere interpretati. E nessuno degli attori in campo è nella posizione di fissarne l’interpretazione autentica.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 marzo 2025]

Sulla degenerazione del discorso pubblico – Il linciaggio di Valditara

27 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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La vicenda del ministro Valditara, contestato per alcune affermazioni fatte alla inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin, è a suo modo meravigliosa, preziosa, insostituibile. Raramente, infatti, è dato trovare concentrati in così poco tempo e spazio i peggiori difetti del nostro discorso pubblico, per non dire della nostra democrazia.

Nel suo messaggio videotrasmesso Valditara aveva osato – nel quadro di un ragionamento molto ampio – fare due affermazioni, che gli hanno scatenato addosso un mare di critiche, contestazioni, insulti, nonché la piacevole esperienza di vedere la propria immagine bruciata in piazza.

La prima affermazione è che in Italia il patriarcato non c’è più da tempo, anche se forse non da così tanto tempo come ritiene Cacciari (ossia da due secoli), e che dal punto di vista giuridico è finito nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia. Le
reazioni a questa affermazione sono state di scandalo, rabbia, indignazione, come se il ministro avesse detto una bestialità, e tale bestialità fosse oggettivamente offensiva per le donne (un po’ come lo è, per gli ebrei, sentirsi dire che la Shoah non c’è mai
stata). In questo esercizio di demonizzazione (del ministro) e di virtue signalling (degli indignati) si sono cimentati un po’ tutti, comprese legioni di giornalisti, editorialisti, conduttori televisivi. Peccato che la tesi di Valditara sia assolutamente pacifica fra gli scienziati sociali (oltreché fra le persone di buon senso), se non altro perché uno dei tratti distintivi delle società occidentali è precisamente la scomparsa dell’autorità paterna, per non dire la scomparsa di ogni autorità: e un patriarcato senza autorità paterna è una contraddizione in termini. Qui osserviamo una prima malattia del discorso pubblico: anziché ascoltare le ragioni di chi parla, se ne manipolano i contenuti (è la tecnica dello straw man) si reagisce in modo pavloviano, caricando a testa bassa il reprobo di turno.

La seconda affermazione è meglio riportarla per esteso: “occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Ho messo in evidenza gli avverbi ‘anche’, e ‘in qualche modo’ perché sono queste due cruciali specificazioni che sono saltate nella stragrande maggioranza dei resoconti del discorso di Valditara, resoconti il cui prototipo è stato: “i femminicidi sono colpa dell’immigrazione”. Ma Valditara non aveva parlato dei femminicidi, ma più in generale dei reati di violenza sessuale. E i dati del ministero dell’Interno gli danno pienamente ragione: da anni la percentuale di stranieri accusati o incarcerati per tali reati è sensibilmente maggiore della quota di stranieri, ed è enormemente superiore se consideriamo il segmento degli stranieri irregolari.

Le cifre, le fonti, le statistiche si possono discutere, naturalmente, ma il punto è che il ministro non aveva detto quel che gli è stato messo in bocca, e quel che ha effettivamente detto è supportato dai dati, e appare più che plausibile. Di nuovo, non solo il mondo politico, ma anche il mondo dell’informazione e della cultura hanno dato prova di scarsa professionalità e nessuna imparzialità. Le affermazioni di Valditara sono state deformate, le cifre da lui evocate sono state ignorate, o contrastate con cifre mal comprese, o lette faziosamente.

Si parla tanto di fake news e della necessità di contrastarle, ma che cosa è stata – se non una gigantesca fake news – la campagna contro il discorso del ministro dell’istruzione?

Sì, a ben pensarci è stata anche qualcos’altro: è stata una sconfitta della democrazia.

Perché il linciaggio che un ministro della Repubblica ha subito sui media e nelle piazze, con slogan truculenti, minacce di morte e gesti simbolici terribili – prima l’incendio di un fantoccio del ministro, qualche giorno dopo di una sua fotografia – è qualcosa che, come molte altre manifestazioni di violenza degli ultimi mesi, avrebbe meritato una presa di posizione ferma, solenne e unanime dei media, del mondo della cultura, della politica, delle organizzazioni sindacali, delle maggiori istituzioni della Repubblica. Una presa di posizione che, ad oggi, non ci è stato dato ancora di ascoltare.

[articolo uscito sulla Ragione il 26 novembre 2024]

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