La Suprema Corte di Londra come Gertrude Stein – Una donna è una donna è una donna è una donna
Raramente mi è capitato di assistere a tanti e tali contorsionismi logico-filosofici-linguistici quanti ne ho incontrati in questi giorni a proposito della sentenza della Corte Suprema Britannica che ha stabilito che donna è chi è biologicamente tale. Estrarre una argomentazione razionale da tanto furore ideologico è molto arduo, ma ci provo lo stesso: sfrondato dai voli pindarici, il nucleo del discorso è che anche il sesso biologico è un costrutto culturale (idea copiata a Judith Butler), e comunque ogni persona avrebbe sia tratti maschili sia tratti femminili.
Questo genere di osservazioni, sfortunatamente, eludono la vera questione. Che non è affatto che cosa dobbiamo intendere con il termine ‘donna’, una questione cui –ovviamente – si possono fornire infinite risposte diverse, tutte almeno in parte arbitrarie. La vera questione è un’altra. La vera questione è di natura giuridico-sociologica. E può essere messa così: posto che in tutte le società occidentali esistono spazi e prerogative riservate alle donne, e quasi nessuno ne mette in discussione la legittimità e l’opportunità, dobbiamo continuare a riservare tali spazi e prerogative alle donne biologicamente tali, o dobbiamo estenderne l’accesso ai maschi biologici transitati a donne, o autopercepiti come tali?
Questa è la questione. Una questione molto pratica e concreta che riguarda, ad esempio: bagni, spogliatoi, gare sportive, reparti ospedalieri, centri anti-violenza, sezioni delle carceri, quote rosa, esenzione dal servizio militare, età della pensione, per non parlare delle numerose norme a tutela delle donne in materia di assunzione, condizioni di lavoro, interazione con le forze dell’ordine (perquisizioni).
Dire che i concetti di uomo e donna sono sfumati, perché sono astrazioni sotto le quali sta l’infinita varietà del mondo, non risolve minimamente la questione di che cosa ne facciamo del pacchetto di prerogative attualmente riservate alle donne. La definizione giuridica di donna serve a risolvere in modo chiaro e univoco una questione che non può essere lasciata in sospeso. E chi pretende di adottare una definizione diversa (includendo le donne trans) ha l’onere di dimostrare che i problemi che deriverebbero dalla nuova definizione sarebbero meno gravi di quelli che derivano dalla definizione tradizionale, che la Suprema Corte Britannica ha ribadito.
Sotto il profilo giuridico-sociologico la binarietà (o sei donna o non lo sei) è inevitabile, perché riflette il problema di individuare le condizioni di accesso (sì o no) a un insieme di prerogative, non certo la pretesa di stabilire il significato di un termine, che ognuno – come già succede – continuerà a usare come vuole.
Ma perché siamo precipitati in un simile stato di confusione?
Fondamentalmente per due motivi distinti. Il primo è che in diversi paesi la difesa dei diritti trans è andata ben oltre le conquiste originarie, ovvero la possibilità di cambiare il genere sulla carta di identità in seguito a un’operazione chirurgica o comunque alla fine di un percorso giudiziario. Il cosiddetto self-id, vigente in Spagna da un paio di anni (Ley Trans) e in Germania dal novembre scorso, sancisce il diritto di cambiare genere (anche più di una volta, nel caso tedesco) con un semplice passaggio all’anagrafe. Di qui la possibilità di usare tale diritto in modo opportunistico (ad esempio per sfruttare le quote rosa, o evitare il servizio militare), o pericoloso per le donne-donne (reparti femminili delle carceri), o semplicemente iniquo (accesso alle gare femminili).
Il secondo motivo che ci ha portati alla babele attuale è una credenza errata, ma più volte ribadita dall’attivismo trans e dalle cosiddette transfemministe: ovvero che l’estensione dei diritti non abbia costi, non discrimini, e non tolga nulla a nessuno. È vero esattamente il contrario. A differenza di conquiste come il diritto di voto o il diritto al divorzio, la maggior parte delle rivendicazioni trans o hanno un costo per la collettività (benefici economici), o mettono a repentaglio la sicurezza delle donne (spazi nelle carceri), o tolgono possibilità alle donne (quote rosa, gare sportive).
La soddisfazione delle femministe gender-critical, che hanno festeggiato la sentenza della Suprema Corte Britannica, è più che comprensibile.
[articolo uscito sulla Ragione il 22 aprile 2025]