La spada di Damocle

Apparentemente, è calma piatta. Il 4 marzo si è votato, poi è cominciato il balletto. Un mese per non decidere nulla. Un giro di consultazioni al Quirinale in cui tutti i partiti hanno “ribadito” le rispettive posizioni. Una richiesta di ulteriore tempo al Capo dello Stato, come se di tempo non ne avessero avuto abbastanza, o come se fino a questo punto avessero dimostrato di saperlo usare proficuamente.

Però mentre la politica dorme, le autorità europee, l’economia, i mercati fingono di sonnecchiare, ma sono più vigili che mai. La autorità europee attendono al varco il nuovo governo. Entro la fine di aprile l’Italia dovrebbe comunicare a Bruxelles le sue linee programmatiche sui conti pubblici. Ma è molto improbabile che entro quella data “Lor signori” (i parlamentari neo-eletti) si siano degnati di trovare un accordo che permetta la nascita di un esecutivo. Quindi la Commissione Europea, che già l’anno scorso aveva segnalato all’Italia il mancato rispetto degli impegni presi, dovrà sì attendere che in Italia ci sia un governo, ma poi difficilmente potrà evitare di intervenire. Proprio negli ultimi giorni l’Istat non solo ha confermato gli scostamenti, ma ha dovuto correggere (in peggio) le stime del deficit e del debito pubblico, che a causa dei soldi spesi per i salvataggi bancari sono oggi ancora più preoccupanti di quel che si pensava. Il minimo che si può prevedere è che, una volta insediato il nuovo governo e rese note tutte le cifre, Bruxelles ci chieda una manovra correttiva. Fino a ieri si parlava di 3-4 miliardi, oggi non si esclude che la cifra possa essere maggiore. Una cifra cui, comunque, si dovrà aggiungere qualcosa come 12-13 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, che altrimenti scatterà inesorabilmente dal 1° gennaio 2019.

Questi probabili aumenti delle tasse, peraltro, si inseriscono in un quadro di rallentamento e soffocamento dell’economia. La stima della pressione fiscale del 2017 è stata rivista al rialzo. Fra il 2017 e il 2016 sono saliti sia l’ammontare delle imposte dirette sia, ancor più, quello delle imposte indirette. Nell’anno appena trascorso il potere di acquisto è aumentato leggermente, ma molto meno che l’anno precedente. Il numero di disoccupati resta in prossimità dei 3 milioni di unità, mentre la formazione di posti di lavoro continua a riguardare i contratti a termine assai più che i contratti a tempo indeterminato. Quanto al debito, le ultime correzioni dell’Istat non lasciano dubbi sul fatto che, nonostante gli impegni solennemente e puntualmente assunti ogni anno dal Ministro dell’Economia, il promesso percorso di riduzione del rapporto debito-Pil non sia ancora iniziato.

A fronte di questi numerosi e concordi segnali negativi, si potrebbero mettere in luce alcuni elementi relativamente rassicuranti. Ad esempio, a fine ottobre 2017 Standard & Poor’s, per la prima volta da 29 anni, ha leggermente alzato il rating dell’Italia. Ed era dal 2002, ossia da 15 anni, che nessuna agenzia di rating faceva un passo del genere. Soprattutto, sembra fornire qualche conforto la circostanza che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto il successo delle forze più anti-europee e più disinvolte sui conti pubblici (Cinque Stelle e Lega), nulla si sia mosso. Ferme le altre agenzie di rating, fermi i mercati finanziari, che hanno lasciato sostanzialmente invariato (intorno a 130 punti) lo spread fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.

Ma è una lettura ingannevole, per diverse ragioni.

Le Agenzie di rating, come la Commissione europea, semplicemente hanno deciso di aspettare le elezioni e la nascita del nuovo governo prima di esprimersi. Una delle tre agenzie principali, Moody’s, lo ha affermato esplicitamente. Il 9 febbraio una sua esponente, l’analista senior per i rating sovrani Kathrin Muehlbronner, ha dichiarato: «Moody’s risolverà l’outlook sul rating dell’Italia dopo le elezioni ma è improbabile che questo avvenga già il 16 marzo» (il 16 marzo è una delle date previste dall’Agenzia per emettere giudizi sull’Italia). E’ verosimile che la medesima linea di condotta sia adottata dalle altre Agenzie.

Una seconda ragione che dovrebbe indurre a una certa cautela è che, per ora, al governo non ci sono i barbari anti-euro e anti-Europa ma il super-rassicurante premier Gentiloni, e l’ultra-europeo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. È presumibile che anche i mercati, come i governi e le Agenzie di rating, attendano la nascita del nuovo esecutivo prima di emettere i propri giudizi.

Ma l’elemento che più dovrebbe farci riflettere è l’andamento dell’indice VS, uno strumento messo a punto dalla Fondazione David Hume per misurare la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici delle economie avanzate. Ebbene, i calcoli effettuati per il primo trimestre del 2018 (a breve disponibili su questo sito) mostrano che la vulnerabilità dei nostri conti, che era stata in leggera in diminuzione dall’inizio del 2014 all’inizio del 2017, da circa un anno mostra una pericolosa tendenza all’aumento. C’è solo da augurarsi che di tale vulnerabilità non si sia presto costretti ad accorgerci tutti quanti, quando i mercati dovessero rialzare la testa.

Articolo pubblicato su Panorama del 12 aprile 2018



Le elezioni dell’incertezza

Non tutte le elezioni sono eguali. Ci sono elezioni in cui il voto è carico di tensioni, perché le alternative sembrano radicali e drammatiche. E ci sono elezioni di routine, in cui partiti e media amano drammatizzare, ma pochi elettori ci cascano. Rientrano nel primo gruppo le elezioni del 1948, ai tempi del Fronte popolare comunisti-socialisti; quelle del 1976, quando molti si attendevano il crollo della Dc e l’avanzata del partito comunista; o quelle del 1994, sotto il ciclone di Mani pulite. Mentre rientrano nel secondo gruppo, quello delle elezioni tranquille, molti appuntamenti degli anni ’50, ’60 e ’80, ma anche degli anni ’2000. E le prossime elezioni?

A mio parere le elezioni del 2018 sono un unicum nella storia elettorale del nostro Paese. Ma questo non perché lo scontro politico sia incendiato dalle passioni, bensì per la ragione opposta: scetticismo, disincanto, sfiducia nella politica e disistima dei suoi protagonisti hanno raggiunto livelli senza precedenti.

Non è tutto, però. La vera cifra di questo appuntamento non è né la passione, né il suo contrario, ovvero l’apatia: la sua vera cifra è l’incertezza. Uno stato d’animo che ha due volti distinti.

Il primo volto dell’incertezza è il futuro governo del paese. Non solo non sappiamo da chi saremo governati (questo è normale), ma non sappiamo quali alleanze i partiti che siamo chiamati a votare potrebbero stringere in futuro. Certo anche in passato si poteva nutrire qualche dubbio, ma i dubbi riguardavano alternative tutto sommato simili (1963: la Dc governerà con i socialisti o con i liberali?). Oggi è diverso: nessuno può escludere con sicurezza un governo Pd-Forza Italia, né un governo Cinque Stelle-Lega, e neppure un governo Cinque Stelle-Pd (con un Pd de-renzizzato, naturalmente).

C’è anche un secondo volto dell’incertezza, però, e forse è il più importante. In passato, quando a contendersi la vittoria erano il centro-destra e il centro-sinistra, non era difficilissimo immaginare che cosa ciascuno di essi avrebbe fatto una volta al governo. Oggi, invece, esiste una forza politica, il partito di Grillo, che l’elettore non ha ancora messo alla prova a livello nazionale, e di cui non è facile immaginare che cosa effettivamente farebbe una volta al potere. E’ innanzitutto per questo che le dichiarazioni e le gaffe degli esponenti Cinque Stelle sono al centro dell’attenzione. Ci stiamo attenti perché cerchiamo di capire che cosa succederebbe nel caso dovessero vincere le elezioni (eventualità improbabile), o diventare il primo partito e ottenere l’incarico di provare a formare un governo (eventualità tutt’altro che esclusa).

In attesa di un vero programma, che per ora non esiste, possiamo solo basarci su frammenti: le proposte di legge (come quella sul reddito di cittadinanza), i testi pubblicati sul sito del movimento, le dichiarazioni degli esponenti politici.

Da questi frammenti, possiamo tentare di ridurre l’incertezza su ciò che potrebbe attenderci.

Ma qual è il quadro che, per ora, emerge da questi frammenti?

Il primo elemento che salta agli occhi è uno strano cocktail di reticenza e di confusione. Nei giorni scorsi abbiamo sentito in tv una esponente del movimento dire che non saprebbe se votare no o sì in un referendum sull’euro, dichiarare che la Germania si permette un deficit del 9%, che i Cinque Stelle sono pronti a fare deficit pubblico al 3% se non oltre, nonché a spendere 150 miliardi di euro in 5 anni. Quanto al candidato premier lo abbiamo sentito parlare di 12 miliardi da recuperare tagliando le “pensioni d’oro”, salvo poi fare marcia indietro, qualche giorno dopo, e accontentarsi di colpire la componente retributiva degli assegni pensionistici, contrapponendo chi ha una pensione veramente elevata (8 mila euro, se ricordo bene) al povero pensionato a 300 euro al mese (una figura sociale inesistente, posto che sia la pensione minima sia l’assegno sociale superano ampiamente questa cifra).

Né le cose vanno meglio se, dalle dichiarazioni in tv, si passa a esaminare il piatto forte dei Cinque Stelle, il reddito minimo (erroneamente chiamato “reddito di cittadinanza”, nonostante non sia affatto destinato a tutti i cittadini). Qui sono almeno tre le cose che mi colpiscono. La prima è la sua profonda iniquità: essendo basato sul reddito nominale anziché sul potere di acquisto, esso è destinato a favorire i poveri che abitano nel Sud e/o in realtà rurali (dove i prezzi sono bassi), a danno dei poveri che abitano al Nord e/o in realtà urbane (dove i prezzi sono alti). La seconda è la sua totale incapacità di affrontare il problema che, in tutta Europa, affligge le misure di sostegno al reddito: come evitare che esso si trasformi in un disincentivo al lavoro, ossia in una misura puramente assistenziale. La terza è la scelta delle cosiddette coperture: se si analizzano attentamente, si scopre che la maggior parte di esse sono nuove tasse.

E qui veniamo al succo della visione politica dei Cinque Stelle. Nonostante qualche sparata contro gli sprechi della Pubblica Amministrazione, a me pare che il vero tratto distintivo dei Cinque Stelle rispetto alla maggior parte delle altre forze politiche (eccetto il neonato partito di Grasso), è la loro disponibilità ad aumentare sia il deficit e il debito pubblico sia le tasse, naturalmente specificando che i colpiti saranno i soliti pochi, ricchi e cattivi: finanzieri, banchieri, speculatori, corrotti, grandi evasori. Del resto non è una peculiarità dei Cinque Stelle, né in Italia né in Europa: se il populismo è, innanzitutto, domanda di protezione, non stupisce che esso si accompagni a una forte rivalutazione del ruolo dello Stato, come ombrello protettivo rispetto alle ingiustizie, alle diseguaglianze, alle ingerenze delle autorità sovranazionali (si pensi alle reiterate promesse di rinegoziare i trattati, a partire dall’odiato Fiscal compact).

Questa visione dell’economia e della società italiana, fortemente impregnata di dirigismo e di assistenzialismo, non è necessariamente catastrofica, ma non per questo è meno preoccupante.

Ci sono due scenari principali, infatti. Il primo è che, con l’esaurirsi del quantitative easing e la fine del mandato di Draghi, e in presenza di un governo che pratica con una certa disinvoltura la spesa in deficit, l’Italia torni nel mirino della speculazione internazionale come nel 2011. In questo caso, effettivamente, la finanza allegra dei Cinque Stelle potrebbe rivelarsi catastrofica.

C’è anche un secondo scenario, tuttavia, non catastrofico ma non per questo rassicurante. Una politica fatta di più tasse e, soprattutto, di più spese, potrebbe, molto semplicemente, sospingere più risolutamente l’Italia sul sentiero di declino che ha imboccato un quarto di secolo fa, all’inizio degli anni ’90. È da allora, infatti, che la nostra posizione relativa in Europa, e più in generale fra i paesi sviluppati, non ha fatto che deteriorarsi, in termini di crescita del Pil, tasso di occupazione, produttività del lavoro. E lo ha fatto per una ragione di fondo: sia prima sia dopo la crisi nessun governo è riuscito a invertire stabilmente la corsa delle tasse e delle spese correnti. Un’incapacità che, alla lunga, ha finito per soffocare l’economia, e relegare l’Italia agli ultimi posti in Europa. Non è certo un caso che, dopo la grande recessione del 2009, il ritorno alla crescita abbia interessato innanzitutto i paesi che, come Germania, Regno Unito, Irlanda, sono stati in grado di ridurre l’interposizione pubblica.

Certo, a tutto ciò si può obiettare, come spesso si sente ripetere nel mondo che ruota intorno ai Cinque Stelle, che l’importante è la redistribuzione, che il consumismo si è spinto un po’ troppo in là, che dopotutto la frugalità è un valore, che la decrescita può essere “felice”, o “serena”, come non si stanca di ripetere l’economista Serge Latouche, ascoltato guru dei grillini. Temo però che questa saggia visione del mondo, oggi sponsorizzata anche da economisti e filosofi di valore come Robert e Edward Skidelski (“Quanto è abbastanza” è un bellissimo libro: Mondadori 2013), si adatti di più agli individui e ai paesi ricchi, i quali dall’alto del loro conquistato benessere possono pensare tranquillamente a tagliare qualche consumo superfluo, che non agli individui e ai paesi che sono ancora lontani dai traguardi di benessere raggiunti dai primi.

Pubblicato su Il Messaggero il 23 dicembre 2017