Una manovra coraggiosa?

A proposito della “manovra del popolo”

Il presidente del Consiglio ha definito “coraggiosa” la manovra del suo governo, che rifiuta di ridurre il deficit pubblico e anzi pianifica di mantenerlo per tre anni al 2.4% del Pil. I critici del governo giallo-verde, per parte loro, vedono nella manovra una sorta di svolta epocale, una specie di contro-riforma che capovolge la linea di prudenza adottata dai governi che lo hanno preceduto (Renzi e Gentiloni).

Mi permetto di dissentire radicalmente con entrambi. No, si possono scegliere mille aggettivi per definire questa manovra, ma “coraggiosa” no, quello non è l’aggettivo giusto. Nella lingua italiana un comportamento è coraggioso se comporta l’assunzione di un rischio per chi lo mette in atto, e solo per chi lo mette in atto. Se ti butti in un fiume in piena per salvare un bambino che sta annegando, stai compiendo un atto coraggioso. Ma se induci un tuo amico a fare un investimento che potrebbe anche fargli perdere metà del suo patrimonio, e magari pretendi anche una provvigione per i consigli che gli dai, non ti stai comportando in modo coraggioso, ma semmai in modo opportunista e irresponsabile.

Ora, comunque la si pensi sulla “manovra del popolo”, l’aggettivo giusto non è certo coraggioso. Non pretendo di stabilire quale sia l’aggettivo giusto, perché questo dipende dal giudizio che diamo sulle intenzioni dei nostri governanti e sulle conseguenze delle loro azioni. Ma la gamma degli aggettivi è tutta un’altra: “audace”, se pensiamo che anche loro corrano qualche rischio, “imprudente” se pensiamo che tutti corriamo dei rischi, “miope” se pensiamo che le conseguenze di lungo periodo siano negative per l’Italia, “suicida” se pensiamo che porterà (solo) alla caduta del governo, “incosciente” se pensiamo che porterà anche alla nostra rovina, “avventurista” se pensiamo che porterà alla catastrofe del Paese ma che “loro” troveranno il modo di salvarsi.

Ecco perché parlare di coraggio è del tutto fuori luogo. Coraggioso è un governo che, per il bene del Paese, mette in atto misure impopolari, e perciò corre, consapevolmente, il rischio di perdere il consenso. Una misura popolare, giusta o sbagliata che sia, non richiede alcun coraggio, perché il consenso lo alimenta. Ecco perché della “manovra del popolo” tutto si può dire, tranne che sia coraggiosa.

Detto questo, possiamo almeno ammettere che la manovra, giusta o sbagliata che sia, audace o incosciente, sia comunque una svolta radicale rispetto a quelle attuate dai passati governi?

Prima di provare a rispondere a questa domanda, vorrei far notare una cosa: la tesi della svolta epocale accomuna i critici più feroci e i difensori più accaniti dell’attuale governo. I critici considerano saggi e gloriosi gli anni dei governi Pd, i difensori del governo (specie i Cinque Stelle) non perdono occasione per dire che siamo entrati nella Terza Repubblica, e che ora – finalmente – tutto cambierà. In poche parole: il giudizio sul passato è opposto, ma l’idea di una rottura radicale con esso è perfettamente condivisa.

E’ su questa analisi comune che vorrei sollevare qualche dubbio. Io vedo tanta, tanta continuità con il passato, sia con quello recente sia con quello remoto. E mi conforta di non essere il solo a notarlo. Come non essere d’accordo, ad esempio, con Giorgia Meloni quando nota che, più che traghettarci nella terza Repubblica, Di Maio sta riesumando le peggiori pratiche della prima, quella dei Fanfani e dei Cirino Pomicino? E’ allora che la politica imparò a comprare il consenso con misure assistenziali (ricordate le baby pensioni? le false pensioni di invalidità?) che fecero esplodere il debito pubblico che ora soffoca l’economia e limita i margini di manovra della politica stessa. Ma non è solo il passato più remoto che ritorna. L’economista Roberto Perotti, per qualche tempo collaboratore del governo Renzi, ha ricordato che nei gloriosi anni del Pd (2013-2017) il disavanzo è sempre stato maggiore di quello programmato, e comunque superiore al 2.4% che ora tanto ci preoccupa. Altri hanno giustamente fatto notare che fu Renzi, appena un anno fa, a proporre di mantenere il disavanzo al 2.9% per ben 5 anni, contro il 2.4% (per 3 anni) dell’attuale governo.

Ma c’è molto di più e molto ancora. Si pensa giustamente che la fretta di Di Maio sul cosiddetto reddito di cittadinanza sia dettata dall’approssimarsi delle elezioni europee (maggio 2019), cui vuole arrivare con una misura-simbolo già in vigore, pur sapendo benissimo che quella misura non potrà che risolversi in pura assistenza finché i centri per l’impiego non saranno stati riformati, e la crescita non avrà acquistato vigore. Ma che cosa c’è di diverso rispetto agli 80 euro di Renzi, anche allora presentati come sostegno alla domanda, ma in realtà concepiti essenzialmente per vincere alle elezioni europee?

E la cosiddetta pace fiscale? Che cos’altro nasconde dietro l’eufemismo “pace” se non l’ennesimo condono, la solita sanatoria, di nuovo in perfetta continuità con la prima e la seconda Repubblica?

Per non parlare dell’orientamento generale della politica economica. Ci viene presentato come un cambio di rotta rispetto all’austerità che avremmo infruttuosamente praticato in questi anni. Ma la realtà è che in questa legislatura, lo ha ricordato più volte l’economista Veronica De Romanis, l’orientamento della politica economica è sempre stata espansivo, non restrittivo. Ancora una volta, la differenza con il passato è solo che, di una medicina che non ha funzionato (siamo tuttora ultimi in Europa per crescita del Pil), ora si prova ad aumentare la dose, anziché cambiare la medicina stessa. So che ricordarlo suscita incredulità (e qualche malumore), ma la realtà è che di austerità l’Italia ha fatto esperienza solo sotto il governo Monti, e l’austerità “buona” – quella che aggiusta i bilanci pubblici riducendo la spesa e tagliando le tasse – semplicemente non l’ha mai sperimentata, né con Berlusconi, né con Monti, né con Letta-Renzi-Gentiloni.

Ecco perché l’opposizione a questo governo è impotente, o addirittura si capovolge in consenso (è il caso della sinistra radicale, da sempre fautrice della spesa in deficit). La ragione è semplicemente che non c’è una differenza qualitativa vera con i governi precedenti, ma solo una differenza di grado, un “salto di imprudenza” mi verrebbe da chiamarlo, perché la medesima politica di prima ci viene somministrata in dosi più massicce, e quindi più rischiose.

Con questo non intendo dire che la politica economico-sociale di questo governo ci porterà necessariamente al disastro, o addirittura a uscire dall’euro. Questo non può saperlo nessuno, e l’opposizione che se ne proclama certa dà solo prova di isteria e di disfattismo. Quel che voglio dire è semplicemente che il cocktail che ci stanno somministrando è pericoloso, molto pericoloso. Non tanto perché il deficit programmato è al 2.4%, ovvero al medesimo livello degli ultimi anni. Ma perché quel deficit si accompagna a due ingredienti altamente infiammabili, se mi si consente l’immagine: una manovra sbilanciata dal lato della spesa, un drammatico deficit di credibilità, aggravato dall’umiliazione inflitta al ministro dell’Economia, uno dei pochi che un po’ di credibilità ce l’aveva.

Per questo, tutto possiamo pensare di questo governo, persino che le cose alla fine andranno bene (dopotutto nessuno ha la palla di vetro), ma su una cosa sarebbe meglio non autoingannarci: ci sono già stati parecchi danni per il bilancio pubblico, per i risparmiatori, per le imprese, e nulla assicura che non ve ne saranno altri, anche molto più gravi, quando dovessero aumentare le rate dei mutui e le banche stringessero i cordoni del credito. Insomma la “manovra del popolo” apre molte speranze, forse anche qualche opportunità reale, ma carica sul popolo stesso una notevole dose di incertezza e di rischio.

Questo è il motivo per cui possiamo chiamarla come vogliamo, ma non coraggiosa. Almeno finché continuiamo a pensare, con il dizionario della lingua italiana, che coraggioso è chi mette in pericolo sé stesso a beneficio degli altri, non chi il rischio lo fa correre a un intero paese e si comporta come se il rischio fosse zero. Proprio come, ironia della sorte, facevano le (giustamente) vituperate banche fallite, che vendevano obbligazioni ad alto rendimento senza avvertire i risparmiatori dei rischi che si assumevano.

 




Perchè i mercati ce l’hanno con l’Italia

Pubblichiamo qui di seguito un grafico che dovrebbe spiegare, almeno in parte, perché i mercati ce l’hanno con l’Italia.
Nell’ultimo triennio, ovvero fra il 2015 e il 2017, su 19 paesi che hanno adottato l’euro, ben 14 stanno riducendo il rapporto debito-Pil. Fra questi vi sono anche 3 cosiddetti PIIGS, ossia Irlanda, Spagna e Portogallo.
Cinque paesi, invece, nonostante la ripresa dell’economia, hanno aumentato il rapporto debito-Pil: Grecia, Italia, Francia, Lussemburgo, Lettonia.
Ma, fra questi, solo Italia e Grecia hanno un rapporto debito-Pil sensibilmente superiore al 100%.
Ecco perché i mercati non si fidano né della Grecia né dell’Italia.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Eurostat



Abbattere il debito pubblico?

All’inizio della campagna elettorale, di debito pubblico si parlava poco.  I partiti, piuttosto che spiegare se e come si sarebbero occupati del debito, preferivano snocciolare il rosario delle promesse: molto sbilanciato verso le maggiori spese nel caso del Movimento Cinque Stelle e del Pd, più sbilanciato verso le minori tasse nel caso del Centro-destra. Poi, lentamente, le cose sono cambiate.  I leader dei tre maggiori partiti devono aver capito che, anche di fronte agli investitori internazionali e alle autorità europee, non potevano esimersi dal mettere le carte in tavola. E così hanno fatto.

I tre maggiori partiti un programma di riduzione del debito ce l’hanno. Il più radicale (o irrealistico, se preferite) è quello di Forza Italia: portare il rapporto debito/Pil dal 132% attuale al 100% in 5 anni, il che significa ridurlo al ritmo medio di 6.4 punti di Pil all’anno (ai prezzi attuali 6.4 punti di Pil corrispondono a circa 110 miliardi di euro). Un po’ meno ambizioso è l’impegno dei Cinque Stelle: portare il rapporto debito/Pil al 90% ma in 10 anni costa 4.2 punti di Pil all’anno, ossia poco più di 70 miliardi. Quanto al Pd, l’obiettivo è lo stesso di Forza Italia (rapporto debito/Pil del 100%), ma diluito in 10 anni anziché in 5: il conto è di “soli” 3.2 punti di Pil, pari a circa 55 miliardi l’anno. Tutte cifre che potrebbero essere indolori solo con tassi di crescita cinesi, non certo con i nostri asfittici 1 virgola qualcosa.

Se accanto a queste cifre poniamo quelle delle mirabolanti promesse (più spese e meno tasse) dei tre maggiori partiti, non importa se valutate ai costi dichiarati dai proponenti o a quelli ben più credibilmente calcolati nei giorni scorsi dal prof. Roberto Perotti, non è difficile rendersi conto che ci stanno proponendo due obiettivi incompatibili: se manterranno l’impegno a ridurre il debito, non potranno fare le decine di cose meravigliose che ci promettono, se invece cercheranno di attuare una parte ragguardevole delle cose che ci promettono, non potranno che aumentare il debito, ovvero il fardello che peserà sui nostri figli e nipoti.

Se dai tre partiti maggiori ci spostiamo verso gli altri, il quadro cambia un po’. Lega, Liberi e Uguali, Fratelli d’Italia, forse anche perché si sentono meno investiti da responsabilità di governo, non paiono molto interessati ad assumere impegni precisi di riduzione del debito pubblico. Con qualche sfumatura e differenza, mi pare li accomuni l’idea che in questi anni abbiamo già avuto troppa austerità, che solo la crescita ci salverà, e che per sostenere la crescita stessa un po’ di deficit e di debito in più non guastino.

Dobbiamo concludere che la riduzione del debito non interessi proprio nessuna delle forze in campo?

Non esattamente. Una forza politica che, anche nei giorni scorsi, ha molto insistito sulla assoluta necessità di abbattere il debito pubblico c’è, ed è la lista “Più Europa” di Emma Bonino. L’idea della Bonino è di portare il debito pubblico sotto il 110% del Pil in 5 anni, un percorso che costerebbe 4.4 punti di Pil (75 miliardi) all’anno, più o meno lo stesso ritmo ipotizzato dai Cinque Stelle.

Ma come fare?

Leggendo i documenti della lista Più Europa, e scorrendo le dichiarazioni di Emma Bonino, si scopre una circostanza di cui pochi sembrano essersi accorti: habemus Thatcher. L’analisi e le ricette che ci vengono proposte sono sostanzialmente le stesse delle due grandi rivoluzioni liberiste degli anni ’80, quelle attuate dalla signora Thatcher nel Regno Unito e da Reagan negli Stati Uniti. Cose che, se a proporle fossero Berlusconi o Tremonti, scatenerebbero la piazza, le tv, i giornali, i sindacati, gli intellettuali, gli artisti, i preti, tutti indignati contro i tagli alla sanità, alla scuola, al welfare in genere (la cosiddetta “macelleria sociale”).

L’analisi parte da un giudizio durissimo (peraltro condivisibile) sulla politica degli ultimi anni: “quasi tutte le risorse come gli 80 euro, i vari bonus, la quattordicesima alle pensioni basse sono state fatte in deficit e ben poche risorse sono state trovate grazie alla spending review, che per motivi elettorali è stata messa in soffitta”. Di qui l’idea che si debba capovolgere le politiche attuate finora: “la nostra proposta in materia fiscale e di bilancio è esattamente l’opposta rispetto a quanto fatto in questi anni”.

Il nucleo della proposta di Più Europa è di congelare per alcuni anni la spesa pubblica bloccandola al livello attuale in termini nominali (il che significa farla scendere in termini reali), tagliando “uscite correnti e agevolazioni fiscali”, e solo in un secondo tempo, dopo una spending review draconiana, cominciare a ridurre le tasse (Irpef e Irap). Il tutto naturalmente corredato da privatizzazioni, liberalizzazioni, misure a favore della concorrenza.

Per certi versi la posizione di Emma Bonino non deve stupire, e forse neppure scandalizzare se non per il suo estremismo economico. Dopotutto i radicali hanno sempre predicato la concorrenza e le virtù del mercato, spesso scavalcando i riformisti di destra e di sinistra su terreni minati come l’articolo 18 o la flat tax. Ma la realtà storica è che quasi tutte le grandi battaglie dei radicali non sono state sull’economia, bensì sul terreno dei diritti.  Perché, nel profondo, ai radicali le questioni che interessano davvero, quelle per cui sono pronti a scatenare campagne politiche all’ultima firma, sono quelle che riguardano il funzionamento delle istituzioni (giustizia, carceri, ecc.) e le grandi “battaglie di civiltà”: divorzio, aborto, testamento biologico, eutanasia, fecondazione assistita, coppie di fatto, diritti dei migranti, diritti dei gay, e così via. Non certo l’articolo 18, o le tasse, o la spending review, che fanno parte della loro ideologia, non della loro pratica. Ecco perché possono preoccuparsi del debito: perché, occupandosi di regole e di diritti civili, non hanno una lista della spesa imbarazzante come quella degli altri partiti.

Per altri versi, invece, la durissima requisitoria di Emma Bonino sulle politiche di questi anni lascia un po’ perplessi. L’elettore ingenuo come me, che ha fatto l’errore di leggere sia il programma di Più Europa sia quello del Pd si chiede come possano essere alleati, visto che Emma Bonino definisce la sua proposta di politica economica “esattamente opposta” a quel che il Partito democratico ha praticato in questi anni (per non parlare dei contrasti con Minniti sulla gestione dei migranti).

Se proviamo a tirare le fila il quadro è sconcertante. Nessuno dei sei maggiori partiti italiani ha veramente intenzione di ridurre il debito, altrimenti non farebbero le promesse che fanno. L’unico che prende sul serio il problema, ovvero Più Europa, lo fa con un programma ultra-liberista che non spaventa nessuno solo perché pochi lo conoscono, tutti sappiamo che le questioni che davvero scaldano il cuore del mondo radicale sono altre, e comunque non è a loro che sarà affidato il governo dell’economia.

La cosa che più mi sorprende, tuttavia, è un’altra. Ed è che tutti gli attori politici che provano a dire qualcosa sul debito pubblico diano per scontato che il problema sia abbattere il rapporto debito/Pil. Eppure non è detto che questa sia l’unica strada per alleggerire il fardello delle nuove generazioni, e ridurre i rischi di una nuova crisi come quella del 2011. La comparazione con gli altri paesi, e l’analisi statistica del funzionamento dei mercati finanziari in questi lunghi anni di crisi, suggeriscono anche un altro approccio possibile. Più che pretendere di abbattere in pochi anni la massa complessiva di un debito che si è accumulato in decenni e decenni, dovremmo forse porci due obiettivi più limitati e realistici. Il primo è di mantenere gli impegni che prendiamo in Europa, anziché disattenderli come facciamo ogni anno. Meglio promettere poco, ad esempio una riduzione del rapporto debito/Pil di soli 2 punti l’anno, ma poi attuarla davvero, implacabilmente e anno dopo anno. Il secondo obiettivo è di aumentare progressivamente la quota di debito detenuta da investitori interni, secondo il modello giapponese (il Giappone sopporta tranquillamente un rapporto debito/Pil superiore al 200% perché esso è in gran parte in mani giapponesi). E’ facile mostrare, infatti, che la vulnerabilità dei conti pubblici di un paese non dipende tanto dal rapporto debito/Pil, ma dal rapporto fra debito pubblico detenuto da investitori esteri e Pil, una grandezza che può avere un andamento sostanzialmente diverso da quello del debito complessivo (negli ultimi due anni, ad esempio, il suo andamento è stato relativamente favorevole).

Ma forse non dovrei sorprendermi troppo. Il fatto che i partiti enuncino obiettivi di abbattimento del debito del tutto irrealistici, e disdegnino sentieri di risanamento più graduali e praticabili, è semplicemente il segno che, con quel problema, non hanno la minima intenzione di fare i conti.




La tenda a ossigeno

Da qualche settimana siamo sommersi dai “segno +”. Di qualsiasi cosa si parli, consumi, esportazioni, inflazione, occupazione, disoccupazione, fiducia dei consumatori, pressione fiscale, Pil, è tutto un compiacerci che finalmente la barca va, il Paese si è rimesso in moto. Tv e giornali non si stancano di riprendere, con grande risalto, ogni bit di nuova informazione statistica sui progressi dell’Italia.

Questo profluvio di buone notizie, tuttavia, non ha impedito ai commentatori più attenti (e inascoltati), di puntare l’attenzione anche sull’unico vero grave fattore di rischio dell’Italia: l’andamento della finanza pubblica. Detto in poche parole, il timore è che, dopo la grande sbornia delle promesse elettorali, a primavera l’Italia si possa trovare di nuovo in una situazione molto critica, come nel 2011.

Sono giustificati questi timori?

Difficile dare una risposta secca, perché ci sono fattori che stanno riducendo i nostri rischi, e altri che li stanno aumentando. Fra i fattori favorevoli, che ci proteggono dal rischio di una crisi, si devono menzionare soprattutto tre elementi che nel corso del 2017 hanno ridotto la vulnerabilità dei nostri conti pubblici: la crescita del Pil, la ripresa dell’inflazione, la riduzione della quota di debito pubblico detenuta da investitori esteri. Ma i fattori favorevoli si fermano qua, per il resto, sfortunatamente, possiamo solo guardare con apprensione al 2018, o meglio a quel che potrà succedere dopo il voto di marzo.

Alcuni fattori di rischio sono ben noti. Il più noto è l’uscita dell’Italia dalla tenda ad ossigeno che l’ha protetta negli ultimi anni: nel 2018 la Banca centrale europea allenterà il Quantitative Easing, ovvero l’acquisto di titoli di Stato dei paesi della zona Euro; nel 2019 scadrà il mandato di Mario Draghi, il “cavaliere bianco” che ci ha protetti e salvati in questi anni (così lo chiama Roberto Napoletano, in un libro di grande interesse sulla crisi del 2011: Il cigno nero e il cavaliere bianco, La nave di Teseo 2017). Un secondo fattore di rischio ben noto è l’incertezza politica, nelle sue due varianti fondamentali: una situazione di stallo, con possibile ricorso a nuove elezioni; la formazione di un governo delle forze più anti-europee (Cinque Stelle e Lega). Un terzo fattore di rischio è il probabile arrivo, fra marzo e aprile, di una richiesta della Commissione europea all’Italia di effettuare una manovra correttiva dei conti pubblici. Un altro fattore di rischio è il possibile aumento del tasso di riferimento della Bce, con conseguente aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. E infine, un ultimo fattore di rischio è un cambiamento delle regole bancarie, che potrebbe condurre a una valutazione dei titoli di Stato detenuti dalle banche agganciata al rating delle Agenzie (100 euro di Bot italiani valgono meno di 100 euro di Bund tedeschi), con conseguente repentina svalutazione dei patrimoni delle banche italiane, i cui bilanci sono tuttora appesantiti da più di 300 miliardi di titoli di Stato).

Quel che è meno noto, a giudicare da quanto poco se ne parla, è che a qualche giorno prima del voto potrebbe arrivare la notizia che nel 2017, ancora una volta, il governo italiano ha mancato la promessa di iniziare a ridurre il rapporto debito/Pil.

Secondo le stime ufficiali, nel 2017, per la prima volta da dieci anni, il rapporto debito/Pil comincerà a scendere, sia pure in misura irrisoria, dal 132.6% al 132.5%. Ma se guardiamo gli ultimi dati del Pil, pubblicati dall’Istat, e gli ultimi dati del debito, pubblicati dalla Banca d’Italia, il quadro che ci si presenta è assai poco rassicurante.

Nel corso del 2017 il Pil nominale, che è quello che conta ai fini del calcolo del rapporto debito/Pil, dovrebbe registrare una crescita compresa fra il 2.1 e il 2.2%. Questo è il parametro chiave per capire se, nel 2017, il rapporto debito/Pil scenderà come promesso, o continuerà a salire come temuto: se, quando la Banca d’Italia comunicherà i dati del debito al 31 dicembre 2017, il debito stesso sarà salito meno del 2.1% rispetto all’anno precedente, il rapporto debito/Pil risulterà in discesa, e il ministro Padoan potrà giustamente esultare per aver mantenuto la promessa di ridurlo; se, viceversa, il debito sarà cresciuto più del 2.2% ancora una volta dovremo constatare che i governi si impegnano a ridurre il debito ma poi, invariabilmente, si accorgono di non esserci riusciti.

Ebbene, qual è la dinamica del debito pubblico dell’Italia nel 2017? L’ultimo dato disponibile è relativo a ottobre 2017 e, per quel che se ne sa, non include ancora tutti gli esborsi per i salvataggi bancari. Ebbene la tendenza a ottobre, rispetto a 12 mesi prima (ottobre 2016), segna +2.9%, dunque ben oltre la soglia del 2.2%; la tendenza a settembre è ancora più preoccupante: +3.2%; quella di agosto è +2.5%, e solo nei mesi precedenti si colloca al di sotto del 2%. Se consideriamo la media degli ultimi tre mesi, la tendenza del debito è a crescere del 2.9%. Una deriva preoccupante, iniziata nei primi mesi dell’anno: fra febbraio e settembre del 2017 la velocità di crescita del debito è sempre aumentata, passando dall’1.1% di febbraio al 3.2% di settembre.

Che dire?

Forse, semplicemente, che l’Italia avrebbe fatto meglio, in questi anni, a non sprecare il dividendo dell’euro e, soprattutto, i benefici del Quantitative Easing, che ci hanno permesso, di pagare interessi sempre minori sul debito pubblico. Se, anziché disperdere risorse preziose in benefici elettorali, avessimo cominciato a ridurre la montagna del debito, magari avviando finalmente qualcuna delle tante privatizzazioni messe in agenda e mai attuate, oggi il voto del 4 marzo ci si presenterebbe con un volto meno minaccioso.

Articolo uscito sul numero di Panorama dell’11 gennaio 2018



Le elezioni dell’incertezza

Non tutte le elezioni sono eguali. Ci sono elezioni in cui il voto è carico di tensioni, perché le alternative sembrano radicali e drammatiche. E ci sono elezioni di routine, in cui partiti e media amano drammatizzare, ma pochi elettori ci cascano. Rientrano nel primo gruppo le elezioni del 1948, ai tempi del Fronte popolare comunisti-socialisti; quelle del 1976, quando molti si attendevano il crollo della Dc e l’avanzata del partito comunista; o quelle del 1994, sotto il ciclone di Mani pulite. Mentre rientrano nel secondo gruppo, quello delle elezioni tranquille, molti appuntamenti degli anni ’50, ’60 e ’80, ma anche degli anni ’2000. E le prossime elezioni?

A mio parere le elezioni del 2018 sono un unicum nella storia elettorale del nostro Paese. Ma questo non perché lo scontro politico sia incendiato dalle passioni, bensì per la ragione opposta: scetticismo, disincanto, sfiducia nella politica e disistima dei suoi protagonisti hanno raggiunto livelli senza precedenti.

Non è tutto, però. La vera cifra di questo appuntamento non è né la passione, né il suo contrario, ovvero l’apatia: la sua vera cifra è l’incertezza. Uno stato d’animo che ha due volti distinti.

Il primo volto dell’incertezza è il futuro governo del paese. Non solo non sappiamo da chi saremo governati (questo è normale), ma non sappiamo quali alleanze i partiti che siamo chiamati a votare potrebbero stringere in futuro. Certo anche in passato si poteva nutrire qualche dubbio, ma i dubbi riguardavano alternative tutto sommato simili (1963: la Dc governerà con i socialisti o con i liberali?). Oggi è diverso: nessuno può escludere con sicurezza un governo Pd-Forza Italia, né un governo Cinque Stelle-Lega, e neppure un governo Cinque Stelle-Pd (con un Pd de-renzizzato, naturalmente).

C’è anche un secondo volto dell’incertezza, però, e forse è il più importante. In passato, quando a contendersi la vittoria erano il centro-destra e il centro-sinistra, non era difficilissimo immaginare che cosa ciascuno di essi avrebbe fatto una volta al governo. Oggi, invece, esiste una forza politica, il partito di Grillo, che l’elettore non ha ancora messo alla prova a livello nazionale, e di cui non è facile immaginare che cosa effettivamente farebbe una volta al potere. E’ innanzitutto per questo che le dichiarazioni e le gaffe degli esponenti Cinque Stelle sono al centro dell’attenzione. Ci stiamo attenti perché cerchiamo di capire che cosa succederebbe nel caso dovessero vincere le elezioni (eventualità improbabile), o diventare il primo partito e ottenere l’incarico di provare a formare un governo (eventualità tutt’altro che esclusa).

In attesa di un vero programma, che per ora non esiste, possiamo solo basarci su frammenti: le proposte di legge (come quella sul reddito di cittadinanza), i testi pubblicati sul sito del movimento, le dichiarazioni degli esponenti politici.

Da questi frammenti, possiamo tentare di ridurre l’incertezza su ciò che potrebbe attenderci.

Ma qual è il quadro che, per ora, emerge da questi frammenti?

Il primo elemento che salta agli occhi è uno strano cocktail di reticenza e di confusione. Nei giorni scorsi abbiamo sentito in tv una esponente del movimento dire che non saprebbe se votare no o sì in un referendum sull’euro, dichiarare che la Germania si permette un deficit del 9%, che i Cinque Stelle sono pronti a fare deficit pubblico al 3% se non oltre, nonché a spendere 150 miliardi di euro in 5 anni. Quanto al candidato premier lo abbiamo sentito parlare di 12 miliardi da recuperare tagliando le “pensioni d’oro”, salvo poi fare marcia indietro, qualche giorno dopo, e accontentarsi di colpire la componente retributiva degli assegni pensionistici, contrapponendo chi ha una pensione veramente elevata (8 mila euro, se ricordo bene) al povero pensionato a 300 euro al mese (una figura sociale inesistente, posto che sia la pensione minima sia l’assegno sociale superano ampiamente questa cifra).

Né le cose vanno meglio se, dalle dichiarazioni in tv, si passa a esaminare il piatto forte dei Cinque Stelle, il reddito minimo (erroneamente chiamato “reddito di cittadinanza”, nonostante non sia affatto destinato a tutti i cittadini). Qui sono almeno tre le cose che mi colpiscono. La prima è la sua profonda iniquità: essendo basato sul reddito nominale anziché sul potere di acquisto, esso è destinato a favorire i poveri che abitano nel Sud e/o in realtà rurali (dove i prezzi sono bassi), a danno dei poveri che abitano al Nord e/o in realtà urbane (dove i prezzi sono alti). La seconda è la sua totale incapacità di affrontare il problema che, in tutta Europa, affligge le misure di sostegno al reddito: come evitare che esso si trasformi in un disincentivo al lavoro, ossia in una misura puramente assistenziale. La terza è la scelta delle cosiddette coperture: se si analizzano attentamente, si scopre che la maggior parte di esse sono nuove tasse.

E qui veniamo al succo della visione politica dei Cinque Stelle. Nonostante qualche sparata contro gli sprechi della Pubblica Amministrazione, a me pare che il vero tratto distintivo dei Cinque Stelle rispetto alla maggior parte delle altre forze politiche (eccetto il neonato partito di Grasso), è la loro disponibilità ad aumentare sia il deficit e il debito pubblico sia le tasse, naturalmente specificando che i colpiti saranno i soliti pochi, ricchi e cattivi: finanzieri, banchieri, speculatori, corrotti, grandi evasori. Del resto non è una peculiarità dei Cinque Stelle, né in Italia né in Europa: se il populismo è, innanzitutto, domanda di protezione, non stupisce che esso si accompagni a una forte rivalutazione del ruolo dello Stato, come ombrello protettivo rispetto alle ingiustizie, alle diseguaglianze, alle ingerenze delle autorità sovranazionali (si pensi alle reiterate promesse di rinegoziare i trattati, a partire dall’odiato Fiscal compact).

Questa visione dell’economia e della società italiana, fortemente impregnata di dirigismo e di assistenzialismo, non è necessariamente catastrofica, ma non per questo è meno preoccupante.

Ci sono due scenari principali, infatti. Il primo è che, con l’esaurirsi del quantitative easing e la fine del mandato di Draghi, e in presenza di un governo che pratica con una certa disinvoltura la spesa in deficit, l’Italia torni nel mirino della speculazione internazionale come nel 2011. In questo caso, effettivamente, la finanza allegra dei Cinque Stelle potrebbe rivelarsi catastrofica.

C’è anche un secondo scenario, tuttavia, non catastrofico ma non per questo rassicurante. Una politica fatta di più tasse e, soprattutto, di più spese, potrebbe, molto semplicemente, sospingere più risolutamente l’Italia sul sentiero di declino che ha imboccato un quarto di secolo fa, all’inizio degli anni ’90. È da allora, infatti, che la nostra posizione relativa in Europa, e più in generale fra i paesi sviluppati, non ha fatto che deteriorarsi, in termini di crescita del Pil, tasso di occupazione, produttività del lavoro. E lo ha fatto per una ragione di fondo: sia prima sia dopo la crisi nessun governo è riuscito a invertire stabilmente la corsa delle tasse e delle spese correnti. Un’incapacità che, alla lunga, ha finito per soffocare l’economia, e relegare l’Italia agli ultimi posti in Europa. Non è certo un caso che, dopo la grande recessione del 2009, il ritorno alla crescita abbia interessato innanzitutto i paesi che, come Germania, Regno Unito, Irlanda, sono stati in grado di ridurre l’interposizione pubblica.

Certo, a tutto ciò si può obiettare, come spesso si sente ripetere nel mondo che ruota intorno ai Cinque Stelle, che l’importante è la redistribuzione, che il consumismo si è spinto un po’ troppo in là, che dopotutto la frugalità è un valore, che la decrescita può essere “felice”, o “serena”, come non si stanca di ripetere l’economista Serge Latouche, ascoltato guru dei grillini. Temo però che questa saggia visione del mondo, oggi sponsorizzata anche da economisti e filosofi di valore come Robert e Edward Skidelski (“Quanto è abbastanza” è un bellissimo libro: Mondadori 2013), si adatti di più agli individui e ai paesi ricchi, i quali dall’alto del loro conquistato benessere possono pensare tranquillamente a tagliare qualche consumo superfluo, che non agli individui e ai paesi che sono ancora lontani dai traguardi di benessere raggiunti dai primi.

Pubblicato su Il Messaggero il 23 dicembre 2017