Occupazione, redditi e produttività – Sostenere il ceto medio?

Che la parola d’ordine della manovra di quest’anno sia “meno tasse al ceto medio” è comprensibile. Sorprendenti, semmai, erano state le manovre precedenti, decisamente sbilanciate nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. Dopo un biennio di
politiche di sinistra, è normale che un governo di destra faccia anche qualcosa di destra. Nella prossima manovra, oltre alla conferma delle misure pro ceti bassi, avremo qualche modesta misura a favore dei ceti medi, e forse pure dei ceti alti.

Niente di eclatante, niente di strano. Quel che colpisce, piuttosto, è il ripetersi – da decenni – del medesimo schema: ricerca disperata di “risorse” da ogni rivolo del bilancio pubblico, constatazione che le risorse non bastano a fare quel che si vuol fare, parziale ricorso al deficit per finanziare le misure-bandiera della manovra. Il tutto aggravato, per il futuro, dalla necessità di rispettare impegnativi “piani di rientro” del debito pubblico.

Ma può un governo, un qualsiasi governo, andare avanti così?

Certo che può, e infatti tutti i governi da trent’anni vanno avanti così. La vera domanda è se noi siamo consapevoli che, per questa strada, nessuno dei problemi che tutte le forze politiche denunciano – sanità, scuola, povertà – potrà mai essere risolto, chiunque governi.

L’impressione è che non lo siamo, consapevoli. Se lo fossimo, la smetteremmo di discutere di “politiche palliative”, e ci concentreremmo sulle politiche radicali o “agonistiche” (così le chiama la politologia Chantal Mouffe), ossia su politiche che
provano ad aggredire i problemi alla radice, anche a costo di pagare qualche prezzo in termini di consenso.

Ma qual è la radice dei nostri problemi?

Dipende dalla prospettiva che adottiamo. In astratto la radice è il debito: se il debito fosse al 60% del Pil, anziché al 140%, ogni anno risparmieremmo 40-50 miliardi di interessi sul debito, e con quel “tesorone” potremmo affrontare molti dei nostri
problemi. Peccato che, per arrivare fin lì, ci vorrebbero decenni di austerità, alla fine dei quali potremmo ritrovarci più poveri di oggi.

Se cambiamo angolatura, e diamo il debito come incomprimibile o poco comprimibile, la vera radice dei nostri problemi diventa un’altra. A debito invariato, il nostro guaio è semplicemente il Pil, che è troppo piccolo sia rispetto al debito, sia rispetto al numero di abitanti. Una politica “agonistica”, non meramente palliativa, dovrebbe innanzitutto affrontare il problema del livello troppo basso del Pil pro capite.

Ma perché il nostro Pil pro capite è basso?

Qui è essenziale distinguere due ragioni. La prima è che, da molti decenni, il nostro tasso di occupazione è fra i più bassi dei paesi avanzati. Meno persone che lavorano significa meno redditi che entrano nei bilanci famigliari: la prima causa delle difficoltà economiche di tante famiglie non è il basso livello dei salari orari, ma il fatto che a lavorare sia solo il capofamiglia.

La seconda ragione del nostro basso Pil pro capite è la dinamica della produttività, che ristagna da circa trent’anni. Quando si lamenta che, negli ultimi decenni, i salari reali sono aumentati un po’ dappertutto in Europa, ma in Italia sono rimasti al palo, si
dimentica che la precondizione per l’aumento dei salari orari è l’aumento della produttività del lavoro, che a sua volta dipende in modo cruciale dal progresso organizzativo e dagli investimenti in tecnologie materiali e immateriali.

Rispetto a questi due fattori di crescita del Pil – occupazione e produttività – la situazione del nostro paese è marcatamente asimmetrica. Sul versante occupazionale, le cose vanno benissimo, perché l’occupazione cresce al ritmo annuo di 500 mila
posti, il che significa quasi il 2% all’anno (un risultato particolarmente soddisfacente, perché accompagnato da una riduzione del tasso di occupazione precaria). Sul versante della produttività, comunque la si misuri (produttività totale dei fattori, produttività del lavoro, produttività del capitale), le cose vanno decisamente meno bene: il ritmo di crescita resta ampiamente inferiore a quello degli altri maggiori paesi, con ovvi effetti negativi sulla dinamica salariale.

Se la politica volesse andare alla radice del problema Italia, continuerebbe con le politiche para-keynesiane di sostegno dell’occupazione fin qui adottate, ma le carte residue le giocherebbe sul versante della produttività, con incentivi alle imprese che
innovano e investono in tecnologia. Perché il rischio, se non si agisce anche su questo versante, è che l’aumento dell’occupazione anziché trascinare il sistema nasconda la stagnazione della produttività, che è il nostro vero, troppo spesso dimenticato, tallone
d’Achille.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]




L’eredità del debito nell’economia post Covid

Il mondo travolto dalla pandemia ha un evidente problema di debito. Lo segnalano i dati diffusi dal Fondo Monetario Internazionale che già ad aprile aveva ipotizzato una risalita del peso delle pendenze pubbliche sul Pil pari a circa 13 punti percentuali fino a quota 96%. La successiva revisione al rialzo delle stime prefigura oggi il superamento di quota 100%, un record storico. Il fenomeno non sorprende. La recessione da Covid-19 dovrebbe costare al Pianeta quasi 5 punti di Pil per l’anno in corso e la crisi economica imporrà un aumento della spesa pubblica da finanziare con nuove emissioni. Una combinazione di fattori che produce un allargamento della forbice tra ricchezza prodotta e indebitamento complessivo. Il ricorso a misure d’emergenza nel contesto attuale, ha notato Gavyn Davies, presidente di Fulcrum Asset Management, sulle colonne del Financial Times, sembra trovare un consenso quasi unanime tra gli economisti. L’ipotesi è intuitiva: l’epidemia lascerà in eredità un’imprevista quota di debito da gestire.

Tra le numerose questioni aperte tre temi, in particolare, potrebbero caratterizzare il dibattito nei mesi e negli anni a venire: la sostenibilità in termini fiscali; l’autonomia delle banche centrali; i rischi affrontati dai mercati emergenti e in via di sviluppo. Sono problematiche essenziali destinate a intrecciarsi con l’eredità delle politiche monetarie dell’ultimo decennio. Ma sono soprattutto questioni irrisolte nel contesto di una crisi del tutto peculiare.

 

Un crisi completamente diversa

Undici anni fa la Grande Recessione post Lehman si sviluppò come conseguenza di una drastica riduzione del credito disponibile. All’epoca, come noto, le banche centrali risposero avviando una politica monetaria espansiva senza precedenti basata sul riacquisto di prodotti finanziari di qualità variabile (dai titoli di Stato alle asset-backed securities) garantendo così un abnorme e costante apporto di liquidità al sistema. I programmi di sostegno al comparto bancario hanno fatto il resto. Da allora la ricetta monetaria espansiva si è diffusa più o meno ovunque producendo essenzialmente due conseguenze strettamente correlate: una disponibilità senza precedenti di credito a basso costo e un rally borsistico ultradecennale.

La crisi del Grande Lockdown ha stimolato inevitabilmente un’ulteriore accelerazione delle iniziative di alleggerimento monetario. Non è un caso che dopo un’iniziale e tutt’altro che trascurabile correzione ribassista gli indici di borsa abbiano ripreso a correre trascinando al rialzo quasi tutte le asset class finanziarie presenti sul mercato (dalle azioni alle obbligazioni passando per l’oro). Ma la contrazione economica legata alla pandemia, come detto, ha origini completamente diverse. Si tratta, semplificando, di una crisi da “economia reale” manifestatasi in primis sul fronte dell’offerta – l’esplosione dell’epidemia in Cina ha impattato direttamente sulla catena di fornitura globale – e in seguito su quello della domanda. La lunga fase della quarantena ha depresso i consumi e alcuni settori – dall’automotive al turismo senza dimenticare il comparto petrolifero – sono entrati in un tunnel senza luce generando nei Paesi più esposti contrazioni economiche a doppia cifra percentuale. È in questo contesto che la spesa per il welfare e le politiche di sostegno a imprese e consumatori sono entrate in una fase espansiva alimentando la necessità di un crescente indebitamento.

In linea teorica una futura ripresa economica accompagnata da bassi tassi d’interesse potrebbe favorire una contrazione della forbice debito/Pil. Ma questa dinamica dovrà essere sorretta, per così dire, da un’opportuna strategia fiscale. Molti Paesi, ha osservato ancora il Fondo Monetario Internazionale, saranno chiamati a intraprendere «solide politiche di risanamento di bilancio nel medio periodo» attraverso le classiche strategie suggerite dalla teoria e dalla logica: «taglio della spesa superflua, allargamento della base imponibile, introduzione di una maggiore progressività fiscale e minimizzazione dell’elusione». Un percorso possibile?

 

Gli ostacoli fiscali

Forse. Ma non mancano gli ostacoli. Il primo grande problema, ad esempio, è dato proprio dalle palesi difficoltà rappresentate dalla stessa fiscal consolidation – il risanamento di bilancio, appunto – che, come noto, non potrà essere uguale per tutti. Paesi caratterizzati da un’onda lunga di crescita modesta, alti livelli di spesa e forte indebitamento – l’Italia, ovviamente, ma un discorso simile vale anche per il Giappone – rischiano di pagare quegli effetti negativi sulla crescita che sono tipicamente associati alle strategie di ristrutturazione dei conti pubblici. Anche per questo, forse, il dibattito su nuove forme di tassazione che escludano i contribuenti tradizionali attira oggi un significativo interesse. In una ricerca pubblicata all’inizio di luglio, il think tank Bruegel (Brussels European and Global Economic Laboratory) ha proposto di intervenire sul sistema di scambio di quote di emissione (ETS) e sull’Energy Taxation Directive (ETD) dell’Unione Europea raddoppiando il carbon price (che si aggira oggi attorno ai 25 euro per tonnellata di CO2). L’operazione, sostengono i ricercatori, potrebbe generare introiti per 90 miliardi, oltre la metà del fabbisogno fiscale destinato alle politiche di risanamento di bilancio (pari a oltre l’1% del Pil, più o meno 140 miliardi di euro).

Ipotesi interessante, non c’è dubbio. Ma il rischio è che la palude delle trattative che caratterizza abitualmente le iniziative di riforma in sede europea possa produrre schemi di tassazione eccessivamente annacquati e per questo scarsamente efficaci (tradotto: capaci di generare gettiti assai più modesti rispetto alle attese). I precedenti non mancano. L’ultima bozza normativa relativa all’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie all’interno dei dieci Paesi della cooperazione rafforzata UE (tra cui l’Italia) si ispira all’esperienza francese, basata sull’applicazione di un’imposta nel trading azionario delle maggiori compagnie quotate. I ricavi annuali previsti, secondo le stime, ammonterebbero a 3,5 miliardi di euro, circa un decimo del gettito ipotizzato dalla Commissione Europea nel 2013 di fronte a proposte di tassazione decisamente più ambiziose in termini di base imponibile.

Impasse politica, si potrebbe dire. E non è certo una novità. Il contrasto all’elusione fiscale, restando alle raccomandazioni del FMI e al contesto continentale, ad esempio, fa i conti con le divisioni nel Vecchio Continente. A gennaio, intervenendo al World Economic Forum di Davos, il sottosegretario alle finanze polacco Jan Sarnowski e il direttore del think tank governativo Polish Economic Institute di Varsavia, Piotr Arak, hanno presentato uno studio per denunciare il peso delle pratiche elusive da parte di individui e imprese che, secondo le loro stime, costerebbero all’Europa circa 170 miliardi di mancati introiti ogni anno. L’80% dei profitti trasferiti, precisa la ricerca, sarebbe convogliato verso altri Paesi della UE «che dovrebbero essere definiti come paradisi fiscali», vale a dire Irlanda, Paesi Bassi, Malta, Cipro, Belgio e Lussemburgo. Lo scorso anno, tramite una risoluzione, il Parlamento europeo aveva chiesto alla Commissione di riconoscere formalmente come tax haven cinque Stati membri (i Paesi di cui sopra con l’eccezione del Belgio). La richiesta, ad oggi, non è ancora stata accolta.

 

Il ruolo delle banche centrali

In tutto questo la strategia espansiva delle banche centrali resta una costante. Il costo del denaro nelle principali economie globali viaggia da anni attorno a quota zero; i programmi di acquisto sul mercato – tradotto: l’immissione di liquidità – sono storicamente impressionanti. In meno di 15 anni il controvalore degli asset a bilancio dei quattro maggiori istituti centrali del Pianeta – Fed, Bce, Bank of Japan e People’s Bank of China – è quintuplicato passando da 5 a 25,2 trilioni di dollari (dati a giugno 2020). In termini teorici si parla di rischio-bolla ma il problema, in realtà, sembrerebbe essere più ampio. Lo ha suggerito alla fine di giugno Agustín Carstens, General Manager della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bank for International Settlements, BIS) intervenendo all’assemblea annuale dell’ente a Basilea. In sintesi: l’intreccio tra le politiche fiscali – di pertinenza dei governi – e quelle monetarie – in capo alle banche centrali – si è consolidato negli anni e le cosiddette misure non convenzionali, a partire dall’alleggerimento quantitativo, hanno perso il loro carattere estemporaneo assumendo al contrario una persistenza sostanziale. Lo insegna l’esperienza del decennio post crisi e lo confermerebbe il contesto attuale.

Per quanto necessarie, argomenta Carstens, le azioni fin qui condotte «possono minacciare l’indipendenza e la credibilità delle banche centrali stesse». In particolare, ha aggiunto, «data la massiccia risposta fiscale e il significativo aumento del debito pubblico che inevitabilmente seguirà, saranno in molti a chiedere che i costi di finanziamento siano mantenuti artificialmente bassi». Anche per questo, una volta superata la crisi, «sarà fondamentale che le banche centrali si mantengano indipendenti per adempiere ai loro mandati». A partire dal mantenimento della stabilità dei prezzi.

Tutto ampiamente auspicabile ma l’esperienza recente racconta una storia diversa. Fed e Bce sono sottoposte da tempo a una pressione più o meno esplicita da parte dei governi. La scorsa estate, da parte sua, la banca centrale indiana è arrivata persino a sostenere direttamente la spesa del governo.

 

I rischi per i Paesi emergenti

Ogni analisi sulla sostenibilità globale del debito, infine, non può prescindere da una valutazione sulla delicata posizione dei mercati emergenti e in via di sviluppo. Dal 2005 ad oggi, ha rilevato di recente il Financial Times, il debito dei Paesi più vulnerabili è passato da meno di mille miliardi a 3,2 trilioni di dollari, pari al 114% del loro Pil. Le pendenze complessive pubbliche e private (Stati, famiglie, imprese e società finanziarie) dei mercati emergenti, rileva l’Institute of International Finance, ammontano a 71 mila miliardi (16.700 dei quali ascrivibili ai governi).

Lo sbilanciamento fiscale è evidente: alla fine del quarto trimestre 2019 il debito pubblico dei Paesi emergenti aveva raggiunto quota 52,7% del Pil con una crescita di 3,2 punti percentuali rispetto a dodici mesi prima. Le pendenze pubbliche e private totali di queste nazioni valgono oggi il 220% del prodotto interno lordo contro il 147% del 2007. E i segnali di crisi non mancano di certo. Il drastico calo delle riserve valutarie impatta negativamente sulla capacità di ripagare i debiti in essere tanto più di fronte alla presenza di due fattori concomitanti: la crescita dei costi di rifinanziamento e un rilevante deflusso di capitali.

In questo quadro, infine, pesa l’incognita delle tensioni politiche tra Stati Uniti e Cina. La possibile escalation del conflitto commerciale tra Washington e Pechino, nota Bloomberg, «potrebbe ritardare la ripresa dell’economia globale, spingere gli operatori a investire nei beni rifugio come i titoli di Stato USA e rafforzare il dollaro». Un fenomeno, quest’ultimo, che renderebbe ancora più gravosa la gestione dei debiti dei mercati emergenti e in via di sviluppo denominati in valuta statunitense che, escludendo il settore bancario, ammontavano alla fine del 2019 a 3,9 trilioni di dollari.




Sul populismo fiscale

Non sono particolarmente incline all’ottimismo. Tendo a pensare che questo governo ce lo terremo il tempo sufficiente a distruggere l’economia del paese, un’impresa per completare la quale – dopo tutto quel che (non) si è fatto – basta ancora davvero poco. Altri sei mesi così, e neanche Mandrake potrà fare il miracolo. Però dentro di me albergava ancora, fino a pochi giorni fa, un lumicino di speranza. Pensavo: magari adesso hanno capito che devono assolutamente fare qualcosa per salvare l’economia, e magari sanno persino che cosa. Magari nei prossimi mesi vedremo un altro film, magari Renzi – che ci ha messi in questo guaio – prova anche a tirarcene fuori.

Poi, pochi giorni fa, è arrivata una trasmissione televisiva (credo fosse “In Onda”), e quella domanda di uno dei conduttori al ministro dell’economia. Più o meno diceva così: signor ministro, si rende conto che, a forza di scostamenti di bilancio, a breve il rapporto debito/Pil schizzerà dalle parti del 170%, e a quel punto ci sarà poco da fare, o aumenti le tasse o riduci la spesa pubblica, “tertium non datur”, insomma altre alternative non ce ne sono.

A questa osservazione perfettamente ragionevole del conduttore, il ministro dell’economia accennava un sorrisetto di soddisfazione, e ribatteva che no, non è vero, “tertium datur”, un’alternativa c’è.

Non ero affatto curioso di sapere che cosa questo “tertium” potesse essere, perché credevo di saperlo già. Dentro di me mi sono detto: ecco, adesso ripeterà il solito discorsetto degli ultimi 10 anni, tanto elegante quanto evanescente: il problema non è ridurre il numeratore (il debito) ma far crescere il denominatore (il Pil). Il che tradotto significa: se cresciamo abbastanza, il rapporto debito/Pil può diminuire senza aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica, due cose che nessun politico ama fare per paura di perdere voti.

Invece, sorpresa: il “tertium” che il ministro dell’economia ha in mente per ridurre il rapporto debito/Pil è un massiccio recupero di evasione fiscale. Un’idea non nuova, ripetuta per decenni sindacalisti e politici convinti che “se tutti pagassero le tasse, l’Italia risolverebbe tutti i suoi problemi”.

A quel punto ho perso ogni speranza. Perché si può anche ipotizzare che un’idea simile sia un parto solitario del ministro dell’economia, ma la realtà – temo – è che è il governo nel suo insieme che a questo punta: ridurre l’extra-debito rimpinguando le casse dell’erario (e dell’Inps) con i proventi della sacrosanta “lotta all’evasione fiscale”.

Che questa idea, che agli ingenui e ai moralisti pare una genialata, sia invece catastrofica, lo si può capire da due semplici considerazioni.

Primo, una parte non trascurabile dell’evasione fiscale è “di necessità”, come da anni coraggiosamente ripete Stefano Fassina, il che significa che, se dovessero pagare le tasse con le attuali aliquote, centinaia di migliaia di piccole attività semplicemente chiuderebbero, distruggendo un numero enorme di posti di lavoro. Ma c’è anche una seconda considerazione, ancora più decisiva. Supponiamo che, domattina, un fisco improvvisamente divenuto onnisciente ed efficiente, riuscisse a scovare tutti gli evasori, e che nessuna impresa fallisse. Anche ammettendo questa eventualità (chiaramente impossibile), il risultato sarebbe un aumento spaventoso della pressione fiscale, già oggi a livello record, perché i soldi eventualmente recuperati non verrebbero da Marte, come tanti parrebbero credere, ma verrebbero prelevati dalle tasche di produttori e consumatori, con conseguente drastica contrazione del reddito disponibile e della domanda aggregata. Qualcuno può pensare che, con un incremento della pressione fiscale di 7-8 punti di Pil (a tanto ammonta l’evasione fiscale e contributiva) l’economia non riceverebbe il colpo di grazia?

Si può obiettare, naturalmente, che i soldi recuperati con la lotta all’evasione dovrebbero andare a ridurre le aliquote che pesano sull’economia regolare, ma è proprio qui che il ragionamento del ministro dell’economia va in cortocircuito: se non si vuole aumentare la già insostenibile pressione fiscale attuale, e quindi tutti i proventi della lotta all’evasione fiscale vengono (molto opportunamente!) usati per ridurre le aliquote, alla fine non resta un solo euro per ridurre il debito pubblico. Questo è il duro, e inaggirabile, nocciolo del problema.

Giunti a questo punto, si potrebbe supporre che io auspichi che il timone dell’economia passi ad un ministro espressione dell’opposizione, che della riduzione della pressione fiscale ha fatto un articolo di fede. Sfortunatamente, però, anche questa non è una via rassicurante. Uno dei drammi dell’Italia attuale è il populismo fiscale, che vagheggia riduzioni generalizzate delle aliquote senza fare i conti con la realtà, ed è purtroppo radicato sia in buona parte della sinistra giallo-rossa sia in buona parte della destra verde-azzurra. Riduzione dell’Iva e dell’Irpef, taglio delle aliquote contributive, flat tax per tutti e su tutto: di questo parlano i maggiori partiti, a destra come a sinistra. E se la sinistra di governo preoccupa per la sua incapacità di individuare delle priorità e scegliere una politica fiscale realistica, ancor meno rassicura la destra quando Salvini ripropone forme più o meno mascherate di condono fiscale per finanziare la flat tax, o quando dice che la Lega è pronta ad appoggiare qualsiasi riduzione delle tasse, come se questo non equivalesse a confessare di non avere delle chiare priorità.

Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che in materia fiscale le forze più avvedute, e avvedute in quanto capaci di scegliere, non siano quelle con il maggiore seguito elettorale. A sinistra, solo i piccoli partiti di Calenda e Renzi paiono in grado di formulare delle priorità, ancorché talora un po’ vaghe (detassare le imprese e il lavoro). A destra solo Giorgia Meloni, sia pure molto cautamente, ha più volte dato segni di capire che occorre scegliere, e procedere con gradualità: premiare innanzitutto le imprese che aumentano l’occupazione, introdurre la flat tax solo sul reddito incrementale (sui maggiori guadagni da un anno all’altro), unificare le tutele sul mercato del lavoro, superando la frattura fra garantiti e non garantiti.

Una situazione che lascia un enorme spazio al populismo fiscale. Perché la politica economica del governo la fanno Cinque Stelle e Pd, non certo il partitino di Renzi. E, a destra, la linea continua a dettarla Salvini, non certo il partito di Berlusconi, né quello di Giorgia Meloni. Per adesso.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 luglio 2020




La finzione delle regole europee

Con i ballottaggi di domenica, finalmente, dovremmo – almeno per qualche mese – lasciarci alle spalle i battibecchi fra comari che ci hanno deliziato negli ultimi mesi. Da domani sentiremo ancora litigare i nostri governanti, ma le questioni su cui si accapiglieranno fra loro e con le opposizioni saranno, inevitabilmente, ben più cruciali di quelle su cui si sono esercitati fin qui.
Al centro di tutto, la prossima legge di bilancio e il nostro modo di stare in Europa (ammesso che in Europa si resti, e che una sciagurata concatenazione di volontà e di circostanze non ci forzi ad uscirne).
Il problema di fondo è ben noto. L’attuale governo ha speso, in deficit, una quindicina di miliardi per mantenere alcune promesse elettorali, in particolare reddito di cittadinanza e quota 100. Altre promesse, in particolare la flat tax, le ha sostanzialmente accantonate (il mini provvedimento sulle partite Iva fino a 65 mila euro vale appena un centesimo del costo globale della flat tax). Altre promesse ancora, in particolare quella di non aumentare l’IVA, per ora le ha tradite, perché nella legge di bilancio dell’anno scorso non ha cancellato le clausole di salvaguardia che ne prevedono l’aumento fin dal 2020.
La situazione si può dunque riassumere così: il governo, che nel 2019 ha aumentato la pressione fiscale, ora vorrebbe occuparsi di ridurla, ma può farlo solo in deficit perché reddito di cittadinanza e quota 100, ossia le due promesse più demagogiche di Lega e Cinque Stelle, sono state anteposte alla promessa più utile al Paese, quella di alleggerire la pressione fiscale.
E’ da questi dati di fondo che scaturisce il racconto che ascolteremo nei prossimi mesi. Dovendo trovare un colpevole, e non potendo individuarlo in sé stessi, i nostri governanti se la prenderanno con l’Europa (che ci imporrebbe regole assurde) e con i governi precedenti (che avrebbero sempre aumentato il debito).
Però, attenzione. Il fatto che la attuale mancanza di risorse dipenda anche dalle scelte demagogiche del governo (tanta assistenza, pochi investimenti), non implica che i rilievi verso l’Europa e verso i governi passati siano del tutto ingiustificati. Bisogna essere molto faziosi per non accorgersi di alcune stranezze dell’una e degli altri.
La più grave, a mio parere, è la fortissima discrezionalità con cui vengono fatte valere le regole comuni, e in particolare la regola del 3% di deficit, negli ultimi anni sostituta dalla ancor più severa regola che obbliga i paesi a convergere verso il pareggio di bilancio. Ebbene queste regole sono state tranquillamente ignorate quando a violarle erano paesi come la Francia o la Germania ma, fatto a mio parere ancora più grave, nel caso dell’Italia sono state addolcite o inasprite a seconda che il governo fosse o non fosse in sintonia con il pensiero dominante a Bruxelles. E’ così potuto accadere che al governo italiano fosse concessa ogni sorta di sforamento e dilazione negli anni di Renzi e Gentiloni, nonostante fosse proprio allora che, grazie alla buona congiuntura economica, avremmo dovuto e potuto provare a mettere in ordine i nostri conti; e, simmetricamente, ora accade che, a dispetto della cattiva congiuntura economica, al governo italiano venga assai più perentoriamente richiesto di obbedire alle regole. Le difficoltà dell’attuale governo sono anche la conseguenza della rinuncia della Commissione a mettere in riga i governi precedenti, spesso rimproverati ma mai sanzionati.
La realtà, temo, è che – giuste o sbagliate che siano – le regole europee sono usate dalla Commissione come uno strumento di politica economica, per impedire ai paesi membri di attuare politiche sgradite e per indurli ad attuare quelle che la Commissione stessa giudica corrette. Il che non è sbagliato in sé, ma per il modo, opaco per non dire ipocrita, con cui questo ruolo di indirizzo viene esercitato. Anziché promuovere una franca discussione pubblica sulla politica economica dell’Europa, le autorità europee preferiscono governare gli Stati membri attraverso la finzione delle regole, chiudendo un occhio quando lo Stato che sgarra è forte o in linea con i principi di Bruxelles, e tenendo entrambi gli occhi ben spalancati quando a violare le regole è uno Stato debole o in contrasto con l’ortodossia europea.
Personalmente credo che, insieme ad alcuni principi arbitrari o basati su un’evidenza empirica traballante, vi siano anche molte buone ragioni dal lato delle autorità di Bruxelles, e che molte raccomandazioni della Commissione – prima fra tutte quella di contenere il debito pubblico – siano più che ragionevoli. Ma proprio per questo trovo assai grave che, con il loro esercizio spudorato della discrezionalità, siano le autorità europee stesse a infliggere i colpi più micidiali alla propria credibilità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del  10 giugno 2019



Il racconto dell’Italia

A proposito del successo della Lega

Quel che è successo domenica scorsa in Italia, ovvero l’exploit della Lega (dal 17% di un anno fa al 34%), accoppiato al flop dei Cinque Stelle (dal 32% al 17%), non ha precedenti in nessuna elezione italiana del passato, ma credo non ne abbia neppure in alcuna elezione mai avvenuta in un paese occidentale. Se anziché sui voti ottenuti dal singolo partito consideriamo la differenza fra i voti dei due partiti, l’entità del cambiamento diventa ancora più evidente: la Lega era 15 punti sotto i Cinque Stelle alle politiche dell’anno scorso, ora è 17 punti sopra, dunque lo spostamento complessivo di consensi è di ben 32 punti. Un’enormità.
Tutti sappiamo che un fattore decisivo nel successo della Lega è stata la ostilità agli ingressi irregolari in Italia, e più in generale la sensibilità di Salvini alla domanda di sicurezza degli elettori. Ma basta questo elemento a spiegare un simile terremoto elettorale?
Penso di no, e credo che dovremmo interrogarci sulle radici profonde del successo leghista, al di là della linea dura sui migranti. Lo farò partendo da una autocritica: nel mio ultimo articolo su questo giornale avevo ipotizzato, erroneamente alla luce di quel che è poi successo, che la Lega avrebbe raccolto meno consensi di quanti gliene venivano attribuiti da alcuni sondaggi. Non avevo indicato cifre, ma ora che il silenzio elettorale è terminato, posso confessare che mi aspettavo un risultato vicino al 30%, magari appena al di sotto, ma non il 35% che certi sondaggi autorizzavano a ipotizzare, e che poi è stato sostanzialmente raggiunto.
Dunque c’era qualcosa di sbagliato nel mio modo di vedere le cose. Ma che cosa? La domanda non sarebbe interessante se io fossi il solo ad aver sottovalutato l’entità del boom leghista, ma non è questo il caso. Lo stesso Salvini, che nella campagna elettorale di un anno fa non aveva esitato a dirsi certo di superare Forza Italia, nel caso del voto europeo ha ammesso di essere rimasto lui stesso stupito del trionfo elettorale della Lega. Così come stupiti, o meglio costernati, attoniti, inorriditi, sono apparsi tanti oppositori di Salvini.
Ecco perché credo che la domanda ci stia tutta: dove abbiamo sbagliato? Che cosa non abbiamo capito?
Per parte mia credo di aver imparato almeno una cosa: anche in politica, come su internet, nella scuola, alla radio, in tv, il costume è profondamente cambiato, e ciò che a una parte di noi, evidentemente minoritaria, appare come inappropriato in bocca a chi dovrebbe rappresentare il Paese intero, alla maggior parte degli italiani risulta invece non solo accettabile, ma divertente, eccitante, parte del grande spettacolo della politica. Una deriva, questa, cui i mezzi di comunicazione di massa negli ultimi dieci-quindici anni hanno dato un impulso decisivo.
Non è tutto, però. Credo che se vogliamo capire il successo della Lega non possiamo limitarci a dire che tanti italiani sono contrari agli ingressi irregolari, e non si scandalizzano affatto se questa contrarietà viene enunciata in modo un po’ rude e semplicistico. Più sento Salvini parlare, specie quando i temi sono economici, più mi convinco che, accanto al tema dell’immigrazione, nel successo della Lega conti anche un altro fattore: il tipo di racconto della storia di questi anni che essa ha fatto proprio. Dico “ha fatto proprio” perché quel racconto ha le sue radici teoriche a sinistra, anzi nell’estrema sinistra, e risale indietro nel tempo almeno al 2005-2006 (un paio di anni prima della crisi), quando sulle riviste accademiche e sui giornali scoppiò la contesa sull’abbattimento del debito, difeso dai riformisti-doc ma osteggiato dalla sinistra radicale.
Al cuore di quel racconto vi è l’idea che sia sbagliato perseguire, come le regole europee imporrebbero, l’abbattimento del debito pubblico, e che buona parte dei guai dell’Italia, bassa crescita, bassa occupazione, bassi salari, non dipendano da noi ma dall’assurdità delle regole europee e dalla sciagurata scelta di entrare nel club dell’euro.
Ora, il punto è che quel racconto, giusto o sbagliato che sia, è stato progressivamente adottato da tutte le forze politiche estreme, di sinistra, di destra e né di destra né di sinistra. Agli eredi di Rifondazione comunista si sono aggiunti lungo la via la Lega, Fratelli d’Italia, il Movimento Cinque Stelle: una traiettoria magistralmente impersonata dall’economista Alberto Bagnai, passato senza battere ciglio dall’estrema sinistra alla Lega proprio perché l’analisi di fondo sulla società italiana e sull’origine delle sue difficoltà era assai simile. E, per certi versi, è condivisa anche da una parte delle forze politiche moderate: dopotutto è stato Prodi il primo a definire “stupido” il patto di stabilità; sono stati Berlusconi e Tremonti a denunciare gli aspetti più barocchi e masochistici della costruzione europea; è stato Renzi a ingaggiare estenuanti negoziati sulla flessibilità irridendo con stile pre-salviniano gli “zero-virgola” dei burocrati europei.
Ed ecco la conclusione. Il racconto per cui, fondamentalmente, i problemi dell’Italia hanno la loro origine a Bruxelles, proprio perché sostanzialmente condiviso da quasi tutte le forze politiche, è penetrato profondamente nel senso comune dell’opinione pubblica. Che la sua origine sia soprattutto a sinistra, non ha impedito alla destra di appropriarsene e di farne un potente strumento di agitazione politica. Proprio perché quel racconto, anche grazie ai media, è poco per volta divenuto dominante, alla Lega oggi è facilissimo raccontare che abbiamo avuto dieci anni di austerità, che l’austerità ci è stata imposta dall’Europa, che l’austerità non ha funzionato, e dunque si tratta solo di fare il contrario di prima: se cercando di limitare il deficit siamo andati indietro, sfondando il 3% andremo avanti.
Che questo racconto possa non stare in piedi, e che la ricetta possa portarci al disastro come nel 2011, poco importa e poco conta. Perché la forza del racconto salviniano è che non chiede sacrifici e non prevede obblighi, e anzi aiuta gli italiani ad autoassolversi, a pensarsi come vittime degli errori dell’Europa, piuttosto che come corresponsabili del declino del proprio Paese.
Del resto, un racconto non decade perché ha qualche falla logica o qualche tassello fuori posto. In politica un racconto decade perché al suo posto ne subentra uno diverso, più convincente, o più capace di suscitare energie e speranze. E un tale racconto, è amaro ma doveroso riconoscerlo, finora nessuno è stato in grado di costruirlo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 1 giugno 2019