Kamala Harris versus Donald Trump – Elezioni americane e politicamente corretto

In un solo giorno è cambiato tutto. Prima della rinuncia di Biden, nessuno avrebbe scommesso sulla vittoria dei Democratici alle presidenziali di novembre. Dopo le sue dimissioni, nessuno esclude che, con Kamala Harris, i Democratici possano vincere e
restare alla Casa Bianca.

I sondaggi concordano su un solo punto: lo scarto fra Trump e Harris è modesto e dello stesso ordine di grandezza dell’errore statistico. E a questa incertezza si aggiunge quella sui vice. Harris non ha ancora scelto il suo vice, né potrebbe essere diversamente, visto che non ha ancora ottenuto l’investitura ufficiale come candidata dei Democratici. Quanto a Trump, ha già fatto un errore: scegliere il proprio vice (J.D. Vance) senza sapere ancora chi sarà il suo avversario. C’è chi dice che, se avesse saputo che a sfidarlo sarebbe stata una donna, avrebbe scelto come vice un’altra donna (verosimilmente la sua ex acerrima rivale Nikki Haley).

Alcuni dei temi in campo sono i soliti: economia, immigrazione, diritti. Altri sono nuovi: guerra in Ucraina, guerra a Gaza. Ma è verosimile che, ad infiammare la competizione, saranno soprattutto due temi generali: la gestione dell’immigrazione
(in particolare del confine con il Messico); la questione dei diritti riproduttivi, delle minoranze sessuali, e più in generale della cultura woke.

Su questi due versanti Harris e Trump hanno, entrambi, punti deboli e punti forti.

Sull’immigrazione, Trump non potrà maramaldeggiare troppo perché Harris non è certo stata una paladina delle frontiere aperte, ha anzi più volte preso posizioni che in Italia siamo abituati ad associare a Salvini e Meloni: non venite, vi aiuteremo a casa
vostra, no al traffico di esseri umani, esternalizzazione delle richieste di asilo in paesi terzi (il nostro modello Albania). Trump potrà anche accusarla di non aver fatto abbastanza, ma non certo di aver spalancato i confini. Semmai, le critiche a Kamala
Harris potrebbero arrivare dalla sinistra del partito democratico (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez), schierata su posizioni aperturiste. Insomma, in materia di immigrazione Kamala Harris si è comportata in modo moderato, se non di destra.

In termini diametralmente opposti stanno le cose sul tema dei diritti. Qui Kamala può vantare un non ambiguo posizionamento pro aborto e pro diritti LGBT+, una linea che la colloca nel cuore della cultura woke. Ma proprio questo suo radicalismo in
materia di diritti rischia di farne il bersaglio perfetto della guerra contro il wokismo dichiarata da Trump e dal suo vice. Una guerra che, in America, è molto più vasta e coinvolgente che da noi. E che non è detto trovi donne, neri, ispanici, compattamente schierati a sostegno della candidata democratica. Kamala Harris, ad esempio, ha l’ostilità del movimento Black Lives Matter, che non ha gradito la sua antidemocratica investitura dall’alto. Quanto alle donne, la maggioranza apprezza la difesa dell’aborto, ma una parte delle femministe non gradisce l’appoggio alle istanze dei transessuali, in particolare dei trans MtF (da maschio a femmine), accusati di invadere gli spazi tradizionalmente riservati alle donne.

E poi c’è il tema forse più importante: il politicamente corretto e più in generale la mentalità woke. Una etichetta che un tempo significava solo politica degli eufemismi (sostituire donna di sevizio con colf), ma negli ultimi anni – proprio negli Stati Uniti
– ha enormemente allargato il suo significato, ben al di là del semplice bon ton linguistico. In nome della correttezza politica i campus studenteschi si sono trasformati in campi di rieducazione, migliaia di professori hanno subito sanzioni o perso il posto, la selezione dei candidati e le promozioni hanno sempre più punito le maggioranze “normali” (maschi e femmine bianchi eterosessuali) a favore di minoranze etniche o sessuali, specie se politicamente impegnati in cause ritenute giuste e prioritarie: anti-razzismo, giustizia sociale, inclusione.

Più in generale si è enormemente allargata la frattura fra due mondi: da una parte l’establishment istruito, che occupa le posizioni chiave nell’economia, nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nel mondo della comunicazione, e in virtù della sua adesione alle istanze woke si sente portatore di una superiorità etica; dall’altra i ceti popolari a bassa istruzione, perennemente alle prese con le asperità della vita quotidiana, e del tutto insensibili alle sottili questioni linguistiche e giuridiche che appassionano l’élite colta. Questo è il terreno di scontro ideale per i Repubblicani, perché permette loro di presentarsi come paladini della libertà di espressione (contro la censura) e della meritocrazia (contro la politica delle quote). Già nel 2016 l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto aveva aiutato l’elezione di Trump. Se vuole vincere, Kamala Harris farà bene a non scordare quella lezione.

[Articolo uscito sul Messaggero il 28 luglio 2024]




Diversamente di sinistra ?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante testo di Cristina Cona.

Leggendo l’articolo di Luca Ricolfi  “Bandiere ammainate” mi si sono riaffacciati alla mente certi interrogativi sul ruolo che le varie forze in campo (politiche, culturali ed economiche) hanno svolto e continuano a svolgere nel diffondersi del politicamente corretto, nonché sulla coerenza, o viceversa incongruità, di certe scelte ideologiche.

Prendiamo ad esempio il modo in cui, ormai da anni, la sinistra non solo si beve acriticamente ogni sorta di teorie “woke”, ma si sforza anche di dare a queste ultime realizzazione concreta sul piano didattico, giuridico, penale. Queste prese di posizione non possono non lasciare perplessi, e ciò per un certo numero di ragioni.

Innanzitutto si tratta di dottrine e pratiche che si sono per lo più irradiate dagli Stati Uniti d’America: sì, proprio da quel paese che da decenni la sinistra considera come l’impero del male e la cui egemonia politica, economica e militare non ha mai smesso di denunciare e combattere. Ma allora: non le è mai venuto in mente che difficilmente un’egemonia così pervasiva sul piano strutturale può risparmiare quello sovrastrutturale? Che quando si parla di imperialismo USA bisogna fare i conti anche sui suoi risvolti culturali? Che, in altri termini, lungi dal rappresentare un’autentica opposizione alla tanto disprezzata America neocapitalista, la cultura “woke” ne sia espressione tanto quanto il modello economico, le multinazionali e le basi NATO, e che la scelta di accodarsi ad ogni sua manifestazione sia di fatto uno dei tanti aspetti della nostra sudditanza?

Anche perché un’occhiata anche rapida ai fatti di cronaca internazionale ci mostra come questa cultura sia stata abbracciata con un entusiasmo decisamente sospetto proprio dal grande capitale e dagli organi di stampa che possono essere considerati suoi portavoce, come certi grandi quotidiani prediletti dalle fasce sociali garantite dei paesi avanzati e le pubblicazioni a carattere finanziario. Un pubblico non certo proletario, insomma. Di fronte allo zelo con il quale certe grandi imprese modificano il linguaggio, gli slogan e le immagini da utilizzare a fini pubblicitari in funzione dei (veri o presunti) desiderata di gruppi ritenuti oppressi e vulnerabili (si pensi alla frenesia con la quale l’establishment hollywoodiano si sforza ad ogni pie’ sospinto di “abbracciare la diversità”), è lecito chiedersi quali interessi vengano serviti da queste genuflessioni alla moda “progressista” del momento.

Mi sembra comunque un fatto che, al di là del desiderio di conquistarsi un sempre più vasto numero di clienti e non farsi nemici tra quelli già acquisiti (anche se, ripeto, sussiste il dubbio che questo timore sia spesso più immaginario che reale), queste strategie non siano soltanto, soggettivamente, a finalità commerciale, ma risultino, oggettivamente, del tutto funzionali agli interessi del neocapitalismo, di quella che definirei “l’economia di supermercato”: un mondo dominato dal consumismo ben al di là degli aspetti puramente economici, in cui la vita umana nel suo insieme è vista, per l’appunto, come un gigantesco supermercato in cui ciascuno può scegliere tutto e il contrario di tutto, seguire cioè ogni suo capriccio, usare i rapporti umani, le scelte affettive, come se fossero giocattoli da buttare via quando non interessano più; non solo, ma pretendere di mettere a tacere qualsiasi opinione con la quale non è d’accordo, “cancellare” tutto ciò che sul momento gli può causare il minimo disagio … E’ davvero questo supermercato planetario infantilizzato il mondo al quale la sinistra intende dare il suo contributo? Non ha mai pensato che sotto questo manto falsamente progressista si rivela tutta la sua nudità?

Senza contare, poi, che la cultura “woke” sta regalando ai padroni del vapore un metodo quanto mai efficace di dividere i loro soggetti, attizzando fra loro perenne inimicizia e diffidenza. Alla sinistra (o almeno a quella parte di essa che ancora presta attenzione alle diseguaglianze sociali e al mondo del lavoro) vorrei chiedere: come immaginate di potere, in futuro, organizzare una protesta, un corteo, un’azione a carattere sindacale quando i lavoratori saranno già da tempo autoconfinati in gruppi distinti, contrapposti, talvolta ostili o ad ogni modo restii a collaborare per il bene comune (se pure questo concetto esisterà ancora …) e il risentimento reciproco avrà sostituito la solidarietà? In cui ovunque, ma soprattutto sul luogo di lavoro, la gente avrà smesso di esprimersi e di comunicare perché timorosa di offendere una delle tante categorie oppresse? Non si tratta di un’esagerazione: nei paesi soprattutto del mondo anglofono si afferma sempre più la tendenza, particolarmente marcata nelle scuole e nelle università, a richiudersi nella propria conventicola etnica, di genere, di orientamento sessuale, e vigilare su tutto quanto di dice e si fa, onde evitare guai anche gravi. Di questo autoisolamento ci si potrà forse rammaricare, ma è in fondo una scelta logica: se un uomo, un bianco, un eterosessuale, un non-trans (o “cis”) azzarda un commento o un gesto fino a poco fa considerato del tutto innocente, ma che oggi la cultura PC giudica alla stregua di un peccato mortale, e viene accusato di comportamenti discriminatori (con conseguenti ripercussioni sul piano lavorativo e anche sociale), la conclusione che ne trarrà, e che ne trarranno anche molti suoi colleghi, sarà che è meglio non avere che contatti minimi con quell’altro gruppo o gruppi, stare zitti e badare agli affari propri. E se c’è da unirsi per uno sciopero o una protesta: “chi me lo fa fare?”: tanto ci è stato spiegato che fra “noi” e “loro” non vi è alcuna comunanza di interessi … “Divide et impera”, dunque.

Un altro aspetto da non sottovalutare: lungi dal combattere efficacemente il sessismo, l’omo(trans)fobia, il razzismo, la censura e la minaccia di sanzioni non fanno che incoraggiare questi fenomeni. Se un’opinione è ritenuta sbagliata, il peggio che si possa fare è metterla fuori legge e costringerla alla clandestinità, perché in tal modo non verrà mai contestata e spinta a giustificarsi. Se una persona esprime in mia presenza un parere a mio giudizio errato, per non dire offensivo, posso rispondere “No, guarda che sbagli, e ti spiego perché …”, e magari in tal modo potrei indurre un ripensamento, ma se quella persona non mi conosce, non si fida di me e teme di venire denunciata se dice quello che pensa, le sue opinioni se le terrà per se e per i pochi amici che le condividono. Viene così a crearsi uno spazio autoreferenziale in cui non entra mai aria fresca e i discorsi fatti sempre e soltanto all’interno della propria cerchia rischiano di sfociare in posizioni ancora più estreme, alimentate fra l’altro dal rancore verso quei gruppi visti come privilegiati e immuni da ogni critica.

Rinuncia ormai esplicita alla difesa della libertà d’espressione, subordinazione acritica ai diktat ideologici del neocapitalismo, pseudoegualitarismo astratto e autoritario cui viene accordata la precedenza rispetto alla lotta al disagio sociale ed economico di vaste fasce di popolazione: sì, parliamo pure di bandiere ammainate. O magari, prendendo a prestito una delle formule più diffuse del gergo politicamente corretto, potremmo dire: diversamente di sinistra.