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La caduta degli DEI

1 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Ci sono parecchi equivoci nelle polemiche degli ultimi giorni sulle misure adottate da Trump conto le politiche DEI, acronimo che sta per Diversity, Equity, Inclusion. In estrema sintesi, per politiche DEI si intendono un vasto insieme di misure di sensibilizzazione, controllo e reclutamento con cui, da parecchi decenni (ma con particolare veemenza dal 2012), aziende e organizzazioni hanno cercato di tutelare, proteggere o privilegiare varie minoranze definite per lo più su base sessuale, razziale, etnica, nonché altre varie caratteristiche (disabilità, orientamento sessuale, ruoli di genere). L’effetto più tangibile della politiche DEI è stata la modificazione dei criteri di reclutamento e assunzione nelle imprese, nella pubblica amministrazione e nelle università, con la parziale sostituzione del criterio del merito (capacità di svolgere bene il compito per cui si viene reclutati) con criteri estrinseci, come il colore della pelle e il sesso biologico. Di qui la frustrazione, talora il risentimento, delle categorie penalizzate, cui non sempre era chiaro perché – ad esempio – una ragazza bianca di oggi dovesse essere penalizzata per le colpe, vere o presunte, dei suoi antenati colonialisti e/o padroni di schiavi. È il caso di aggiungere che, nella storia americana, la pressione a praticare politiche DEI ha rappresentato un completo capovolgimento del sogno di Martin Luther King, che aspirava a una società color blind (cieca al colore, o “daltonica”) in cui finalmente i suoi figli potessero essere giudicati non per il colore della pelle ma per il tipo di persone che erano. Viste con gli occhi dei loro critici, le politiche DEI – recentemente messe in discussione – altro non erano che forme di “discriminazione alla rovescia”, oltreché violazioni del principio della responsabilità individuale, che vieta di far cadere sul singolo colpe del suo gruppo, o peggio dei suoi antenati.

Ed eccoci al primo equivoco: quello che a noi europei spesso appare come un attacco ai valori occidentali di inclusione, per l’amministrazione Trump è semmai una affermazione del principio occidentalissimo di equità, che vieta di valutare le persone per le loro caratteristiche ascritte (di nascita) o non pertinenti (orientamento sessuale ecc.). Insomma: il confronto non è fra difesa (europea) dei valori occidentali e attacco (americano) ai medesimi valori, ma semmai è fra due diverse – e incompatibili – interpretazioni dei valori occidentali, dove Trump sta con Luther King, mentre Macron – indignato per l’attacco USA alle politiche DEI – sta con la cultura woke.

Ma c’è anche un secondo equivoco. Dalle cronache di questi giorni sembrerebbe che lo smantellamento delle politiche woke sia il nefasto effetto dell’autoritarismo trumpiano. In parte è vero, ma non dobbiamo dimenticare che sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito il processo era iniziato ben prima della vittoria di Trump. Sono centinaia le grandi imprese e organizzazioni che, specie negli ultimi 4-5 anni, hanno fatto retromarcia rispetto alle politiche DEI, anche se per ragioni non sempre simili. Nel Regno Unito la retromarcia è stata favorita dagli eccessi delle lobby LGBT+ e da scandali come quello che ha coinvolto la clinica Tavistock, un tantino leggera nelle autorizzazioni alle transizioni di genere di ragazzi e ragazze. Negli Stati Uniti, invece, decisive sono state le prosaiche leggi dell’economia. Dopo anni di infatuazione per le politiche DEI, grandissime aziende come Jack Daniels, Harley-Davidson, Tesla, Microsoft, Google si sono rese conto degli inconvenienti a esse associati: i costi elevati degli staff DEI, l’inefficienza delle politiche del personale (non poter scegliere i migliori per una data mansione ha un ovvio costo economico), la ribellione di una parte degli utenti e dei dipendenti. Anche qui Trump non c’entra molto: se nel primo mandato non aveva fatto quasi nulla, e ora pare scatenato, è perché allora l’onda woke era fortissima e invincibile (anche grazie agli scandali sessuali che, fra il 2016 e il 2017, innescarono il MeToo), mentre oggi al neo-presidente è bastato fare surf sull’onda di una ribellione anti-woke in corso da alcuni anni.

E non è tutto, a proposito di equivoci. Noi europei troviamo scandaloso che l’amministrazione americana discrimini le aziende europee che ancora adottano politiche woke. Anche a me non piace, ma per ragioni diverse da quelle invocate da Macron (la presunta ingerenza negli affari interni di un paese). Quel che trovo pericoloso (e alla lunga controproducente) è, in generale, il fatto che gli acquirenti di un bene o servizio anziché scegliere in base alle sue qualità intrinseche, lo valutino in base a fattori esterni, di tipo morale, etico, politico o ideologico. All’amministrazione americana non dovrebbe interessare nulla il fatto che l’azienda che fornisce i pasti al personale dell’ambasciata a Parigi sia più o meno impegnata nelle politiche DEI. Un tramezzino è un tramezzino è un tramezzino, direbbe Gertude Stein. E invece no: ora pare diventato importante se l’azienda ha o non ha una determinata politica del personale. E, orrore degli orrori, per l’amministrazione Trump conta che l’azienda non abbia una politica inclusiva, basata sui principi DEI.

E qui incontriamo l’ultimo equivoco. Che sta in questo: non ci rendiamo conto che quel che fa Trump è solo una variante di quel che, da molti decenni, fanno le imprese e i consumatori occidentali, ossia includere la virtù nel calcolo economico. Le imprese hanno capito, già molti decenni fa, che la reputazione di un marchio è fondamentale, e può essere migliorata con politiche di pura immagine, molto meno costose di quanto lo sarebbero modificazioni effettive del prodotto o miglioramenti delle condizioni di lavoro dei dipendenti. Ma i consumatori non sono stati da meno: quanta gente compra un prodotto anche perché è pubblicizzato come green, eco- sostenibile, agganciato a qualche pandoro benefico? Quanti consumatori smettono di comprare determinati beni o servizi perché detestano chi li produce? Oggi tocca a Fratoianni e consorte dismettere la loro Tesla in odio a Trump, ma quante volte abbiamo assistito a campagne di boicottaggio contro i prodotti israeliani, o contro le aziende di Berlusconi, a partire dalla campagna Bo.Bi (Boicotta il Biscione, 1993)?

La realtà è che, ormai da tempo, viviamo in un mondo in cui anche il mercato è drogato dall’ideologia. Un mercato che noi stessi abbiamo contributo a drogare. E in cui Trump sguazza benissimo.

[articolo uscito sul Messaggero il 31 marzo 2025]

Oltre il follemente corretto

27 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Ormai lo riconoscono tutti: una delle ragioni fondamentali del successo di Trump, oggi come otto anni fa, sono stati gli eccessi del
politicamente corretto. O, se preferiamo, la progressiva trasformazione del politicamente corretto in “follemente corretto”, un processo che – negli Stati Uniti – è durato una decina di anni, grosso modo dal 2012 al 2022. Pilastri di questo processo sono stati la colpevolizzazione (e discriminazione) dei bianchi, la proliferazione degli staff DEI (Diversity,Equity, Inclusion) nelle imprese e nelle amministrazioni, le transizioni di genere precoci, la diffusione della gestazione per altri (utero in affitto), le limitazioni alla libertà di espressione, la diffusione della cancel culture, la politicizzazione dell’insegnamento universitario, le discriminazioni verso docenti e studiosi non allineati, l’ingresso di maschi biologici (in transizione di genere) negli spazi delle donne, incluse carceri e gare sportive.

Tutto questo aveva cominciato a scricchiolare per conto proprio già un paio di anni fa, ma oggi – dopo la vittoria elettorale di Trump – sta franando rovinosamente, travolto non solo dalla rivolta del senso comune ma, molto più concretamente, dagli “ordini esecutivi” del neo-presidente, che uno dopo l’altro stanno smontando tutti i caposaldi economici, sociali e culturali dell’ideologia woke. Apparentemente, un grandioso contrappasso collettivo, che giustamente colpisce – e punisce – gli eccessi di una parte politica, quella liberal e progressista.

Ma è solo questo che sta accadendo?

Non mi sembra. Intanto, bisogna notare che la reazione contro la cultura woke, fortissima negli Stati Uniti, robusta nel Regno Unito, agli esordi in Canada, è debolissima se non inesistente in altre parti dell’occidente, e in particolare in alcuni paesi europei. Spagna e Germania, ad esempio, hanno entrambe varato negli ultimi anni una “Ley Trans” (legge sulla transizione di genere), che rende completamente libera la scelta del genere, suscitando la vigorosa (e indignata) reazione di parte del mondo femminile. Come spesso accade, i fenomeni culturali sono sfasati nel tempo: noi europei abbiamo importato la cultura woke dal mondo anglosassone, e ce ne stiamo ancora entusiasmando nel momento in cui loro la stanno già seppellendo.

C’è però soprattutto un altro elemento che, a mio parere, complica il quadro. Quello che sta avvenendo negli Stati Uniti, e potrebbe presto arrivare anche da noi, non è semplicemente il superamento del follemente corretto, il ritorno alla normalità, il ripristino del senso comune. Quella che si sta profilando è una sorta di sanguinosa rivincita, che rischia – insieme alle degenerazioni della cultura woke – di sopprimere anche le buone ragioni che, cinquant’anni fa, ispirarono la nascita del politicamente corretto. Trattare il prossimo con rispetto, combattere l’odio, non discriminare in base al colore della pelle o altri caratteri ascritti (sesso, razza, etnia, nazionalità), tutelare le minoranze oppresse o emarginate, cercare di includere le fasce o marginali, erano ottime cause ieri ma lo sono anche oggi. Il peccato originale della cultura woke non è di avere sollevato determinati problemi, ma di aver imposto soluzioni assurde, e di averlo fatto con hybris, ovvero con fanatismo e disprezzo per i non allineati all’ortodossia progressista.

Di qui un rischio, un grande rischio: che la reazione al follemente corretto travolga anche il nucleo etico e razionale del politicamente corretto delle origini, e che – per insofferenza agli eccessi – si finisca per “gettar via il bambino con l’acqua sporca”. L’alternativa al follemente corretto non può essere il politicamente scorretto, proclamato con baldanza e spregio delle minoranze. La vera alternativa al follemente corretto è tornare alla ragionevolezza, o se preferite al sogno di Martin Luther King, quello di una società “cieca al colore” (colour-blind), una società in cui “i miei quattro figli piccoli non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per ciò che la loro persona contiene”.

Questo è il sogno tradito dalla cultura woke, con la sua pretesa di regolare la vita sociale in base a caratteri ascritti e identità percepite. A quel sogno occorre tornare. E l’Europa, forse più dell’America, è oggi in condizione di provarci.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 gennaio 2025]

Kamala Harris versus Donald Trump – Elezioni americane e politicamente corretto

29 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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In un solo giorno è cambiato tutto. Prima della rinuncia di Biden, nessuno avrebbe scommesso sulla vittoria dei Democratici alle presidenziali di novembre. Dopo le sue dimissioni, nessuno esclude che, con Kamala Harris, i Democratici possano vincere e
restare alla Casa Bianca.

I sondaggi concordano su un solo punto: lo scarto fra Trump e Harris è modesto e dello stesso ordine di grandezza dell’errore statistico. E a questa incertezza si aggiunge quella sui vice. Harris non ha ancora scelto il suo vice, né potrebbe essere diversamente, visto che non ha ancora ottenuto l’investitura ufficiale come candidata dei Democratici. Quanto a Trump, ha già fatto un errore: scegliere il proprio vice (J.D. Vance) senza sapere ancora chi sarà il suo avversario. C’è chi dice che, se avesse saputo che a sfidarlo sarebbe stata una donna, avrebbe scelto come vice un’altra donna (verosimilmente la sua ex acerrima rivale Nikki Haley).

Alcuni dei temi in campo sono i soliti: economia, immigrazione, diritti. Altri sono nuovi: guerra in Ucraina, guerra a Gaza. Ma è verosimile che, ad infiammare la competizione, saranno soprattutto due temi generali: la gestione dell’immigrazione
(in particolare del confine con il Messico); la questione dei diritti riproduttivi, delle minoranze sessuali, e più in generale della cultura woke.

Su questi due versanti Harris e Trump hanno, entrambi, punti deboli e punti forti.

Sull’immigrazione, Trump non potrà maramaldeggiare troppo perché Harris non è certo stata una paladina delle frontiere aperte, ha anzi più volte preso posizioni che in Italia siamo abituati ad associare a Salvini e Meloni: non venite, vi aiuteremo a casa
vostra, no al traffico di esseri umani, esternalizzazione delle richieste di asilo in paesi terzi (il nostro modello Albania). Trump potrà anche accusarla di non aver fatto abbastanza, ma non certo di aver spalancato i confini. Semmai, le critiche a Kamala
Harris potrebbero arrivare dalla sinistra del partito democratico (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez), schierata su posizioni aperturiste. Insomma, in materia di immigrazione Kamala Harris si è comportata in modo moderato, se non di destra.

In termini diametralmente opposti stanno le cose sul tema dei diritti. Qui Kamala può vantare un non ambiguo posizionamento pro aborto e pro diritti LGBT+, una linea che la colloca nel cuore della cultura woke. Ma proprio questo suo radicalismo in
materia di diritti rischia di farne il bersaglio perfetto della guerra contro il wokismo dichiarata da Trump e dal suo vice. Una guerra che, in America, è molto più vasta e coinvolgente che da noi. E che non è detto trovi donne, neri, ispanici, compattamente schierati a sostegno della candidata democratica. Kamala Harris, ad esempio, ha l’ostilità del movimento Black Lives Matter, che non ha gradito la sua antidemocratica investitura dall’alto. Quanto alle donne, la maggioranza apprezza la difesa dell’aborto, ma una parte delle femministe non gradisce l’appoggio alle istanze dei transessuali, in particolare dei trans MtF (da maschio a femmine), accusati di invadere gli spazi tradizionalmente riservati alle donne.

E poi c’è il tema forse più importante: il politicamente corretto e più in generale la mentalità woke. Una etichetta che un tempo significava solo politica degli eufemismi (sostituire donna di sevizio con colf), ma negli ultimi anni – proprio negli Stati Uniti
– ha enormemente allargato il suo significato, ben al di là del semplice bon ton linguistico. In nome della correttezza politica i campus studenteschi si sono trasformati in campi di rieducazione, migliaia di professori hanno subito sanzioni o perso il posto, la selezione dei candidati e le promozioni hanno sempre più punito le maggioranze “normali” (maschi e femmine bianchi eterosessuali) a favore di minoranze etniche o sessuali, specie se politicamente impegnati in cause ritenute giuste e prioritarie: anti-razzismo, giustizia sociale, inclusione.

Più in generale si è enormemente allargata la frattura fra due mondi: da una parte l’establishment istruito, che occupa le posizioni chiave nell’economia, nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nel mondo della comunicazione, e in virtù della sua adesione alle istanze woke si sente portatore di una superiorità etica; dall’altra i ceti popolari a bassa istruzione, perennemente alle prese con le asperità della vita quotidiana, e del tutto insensibili alle sottili questioni linguistiche e giuridiche che appassionano l’élite colta. Questo è il terreno di scontro ideale per i Repubblicani, perché permette loro di presentarsi come paladini della libertà di espressione (contro la censura) e della meritocrazia (contro la politica delle quote). Già nel 2016 l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto aveva aiutato l’elezione di Trump. Se vuole vincere, Kamala Harris farà bene a non scordare quella lezione.

[Articolo uscito sul Messaggero il 28 luglio 2024]

Diversamente di sinistra ?

17 Maggio 2021 - di Cristina Cona

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante testo di Cristina Cona.

Leggendo l’articolo di Luca Ricolfi  “Bandiere ammainate” mi si sono riaffacciati alla mente certi interrogativi sul ruolo che le varie forze in campo (politiche, culturali ed economiche) hanno svolto e continuano a svolgere nel diffondersi del politicamente corretto, nonché sulla coerenza, o viceversa incongruità, di certe scelte ideologiche.   Leggi di più

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