Ha fatto senz’altro bene il Governo a restringere ulteriormente il perimetro della attività produttive essenziali (il “Messaggero” lo aveva già chiesto ben 2 settimane fa, con un editoriale del suo direttore). Ha fatto bene a dare più ascolto ai sindacati, preoccupati della salute dei lavoratori, che alle organizzazioni imprenditoriali, preoccupate del quasi-arresto dell’economia. E stanno facendo benissimo governo, giornali, televisioni, divi dello spettacolo, scienziati a invitarci a rispettare rigorosamente le regole, nonché a stigmatizzare severamente chi non lo fa.
C’è, tuttavia, anche qualcosa che non va affatto bene nella comunicazione da cui siamo investiti, specie in quella che proviene dalle autorità di governo e dai partiti della maggioranza. Troppe volte il messaggio che si cerca di veicolare non contiene solo l’esortazione a rispettare le regole ma veicola anche, più o meno sottilmente (talora spudoratamente) due ulteriori messaggi, entrambi inaccettabili.
Il primo messaggio dice più o meno così: non è il momento delle polemiche, dobbiamo stare tutti uniti, chiunque critica le autorità è un disfattista.
Eh, no, questo proprio non avete diritto di dirlo. L’opposizione non ha solo il diritto di criticare il governo, ma ha il dovere di farlo se ritiene che il governo stia sbagliando. E la libera stampa, gli studiosi, i comuni cittadini hanno tutto il diritto di criticare il Governo: i nostri governanti hanno (giustamente) sospeso la maggior parte delle nostre libertà personali, dal diritto di spostamento a quello di voto, ma non hanno alcun titolo per toglierci una delle ultime libertà che ci è rimasta, quella di dire la nostra opinione senza subire linciaggi e intimidazioni. Chi ci governa non può pretendere l’immunità dalle critiche, e semmai dovrebbe chiederci umilmente e solennemente scusa per i grandissimi sbagli commessi fin qui.
Il secondo messaggio è ancora più insidioso. Esso dice in sostanza: cari cittadini, rispettate le regole, la sconfitta del virus è nelle vostre mani. Solo voi potete fermare l’epidemia, la vittoria dipende da voi e dai vostri comportamenti. Questo messaggio ci è stato ripetuto ossessivamente da tutte le autorità, Presidente del Consiglio e ministro della Salute in testa, da quando – appena 3 settimane fa – il governo si è (finalmente) deciso a prendere sul serio l’epidemia.
Eh, no, anche qui non ci sto. Perché non è vero. L’avanzata e l’arretramento dell’epidemia sono sicuramente influenzati dai comportamenti dei cittadini, ma non solo da essi.
Lo dico innanzitutto pensando agli enormi ritardi e alle gravissime omissioni nel fornire le armi che servono. Vogliamo qualche esempio?
Tantissimi medici e farmacisti sono stati costretti ad operare senza mascherine, tanti lavoratori senza dispositivi di protezione individuale. Il numero di tamponi è straordinariamente basso, e lo è per scelta delle autorità. La protezione Civile ha inviato alla Regione Lombardia 250 mila mascherine inadeguate. Intralci burocratici e la consueta farraginosità delle procedure rallentano i rifornimenti di materiale sanitario. Lo stesso vale per i fondi messi a disposizione da Banca Intesa, fermi per 15 giorni in attesa dell’immancabile “protocollo d’intesa”. Per non parlare dell’incapacità di mettere in piedi un monitoraggio (via internet e cellulari) dei soggetti positivi e dei loro contatti, come quello sperimentato in paesi come la Cina e la Corea del Sud. O almeno un efficace sistema di telemedicina per i pazienti costretti a casa e privi di assistenza, come invano e ripetutamente suggerito dal prof. Massimo Galli.
Potrei continuare, ma il punto è semplice: che cosa c’entriamo noi cittadini con tutto questo? Eppure la velocità con cui l’epidemia avanza, la quantità di medici che muoiono sul campo, il grado di letalità della malattia dipendono in modo cruciale da queste scelte ed omissioni, su cui noi cittadini non abbiamo alcun potere.
Ma non è tutto. Vogliamo parlare della “curva epidemica”? Vogliamo parlare dell’ondata di morti degli ultimi giorni, peraltro sottostimata dal fatto che molti anziani vengono lasciati morire in casa e seppelliti senza un’autopsia e una diagnosi (vedi il drammatico caso di Bergamo, più volte raccontato dal sindaco Giorgio Gori).
Ebbene, la responsabilità del picco di morti è chiaramente imputabile alla leggerezza della politica (e di molti media, bisogna aggiungere purtroppo). I dati parlano chiaro, chiarissimo. Il segnale di Codogno e Vo’, con l’improvvisa apparizione di due focolai di contagiati, è di venerdì 21 febbraio. Per qualche giorno restiamo attoniti, la speranza (ma sarebbe meglio dire: l’illusione) è di circoscrivere l’epidemia isolando i comuni interessati. A quel punto si apre un bivio: riconoscere la gravità della situazione, dichiararla pubblicamente, e prendere subito misure restrittive volte a minimizzare i contatti in tutta Italia; oppure: riesumare la retorica del “noi non ci faremo fermare, noi vogliamo continuare la nostra vita di sempre”, già collaudata nei confronti degli attentati terroristici.
Ebbene, arrivati a questo snodo fondamentale, non solo il governo, ma anche consistenti porzioni dell’opposizione, dei media, dell’arte, della società civile hanno risolutamente imboccato la seconda strada, quella del “riaprire le città” e “riprendersi la vita”. Potrei citare decine di prese di posizione, di video, di campagne di stampa. Mi limito a ricordare due fatti.
Il 27 febbraio, a meno di una settimana da Codogno e Vo’, la campagna “Milano non si ferma” è in pieno svolgimento, e culmina con lo sfortunato aperitivo in città voluto dal sindaco Beppe Sala e da Nicola Zingaretti, assai più preoccupato di “non diffondere il panico” che di diffondere il virus. Ma la linea de “riaprire” è caldeggiata anche da Salvini. Due giorni dopo, un sondaggio certifica che la netta maggioranza dei milanesi è a favore della riapertura. I politici stanno sbagliando, ma forse stanno sbagliando perché, contrariamente a quel che dicono, il loro faro non è la scienza, che da tempo li invitava a prendere sul serio il pericolo, ma è il consenso.
Ebbene, i 7 giorni che vanno dall’aperitivo a Milano alla decisione del governo di chiudere le scuole e le università (primo timido segnale di pericolosità della situazione), è stata cruciale nel favorire l’avanzata del virus. Un’avanzata che ha avuto a disposizione una manciata di giorni in più quando la chiusura delle scuole ha finito per prolungare le vacanze di Carnevale, e il governo ha atteso altri giorni per varare finalmente, una dopo l’altra, le varie ulteriori misure di chiusura, prima rivolte alle regioni e province più colpite, poi – nel week-end di follia del 7-8 marzo – finalmente a tutta l’Italia.
La curva delle morti di oggi (più di 500 al giorno nell’ultima settimana) non fa che riflettere, come la luce che viene da stelle lontane, gli eventi dei 10 giorni di follia che vanno dalla campagna “riapriamo Milano” alla riapertura delle scuole.
Ecco perché dico che a noi spetta rispettare le regole, ma alle autorità spetta tutto il resto. Non solo rifornire medici, malati, comuni cittadini di tutto ciò che avrebbero dovuto avere e non hanno avuto (dalle mascherine ai respiratori, dai tamponi all’assistenza domiciliare), ma anche non ripetere domani gli stessi errori di ieri, che già tante vite ci stanno costando proprio in questi giorni. Perché su un punto la maggior parte degli studiosi è ormai concorde. Se e quando l’epidemia sarà stata domata, il pericolo più grande diventerà quello di non esserci nel frattempo attrezzati a reagire nel modo più tempestivo e risoluto ogni volta che il virus proverà a rialzare la testa.
Una prontezza di reazione che dipenderà dalla nostra maturità e disponibilità ad accettare altri sacrifici. Ma dipenderà anche dalla percezione che chi ci governa abbia imparato la lezione.
Pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2020