Vaccini, ultima carta

Fino a qualche settimana fa speravo ancora in un cambio di strategia nella lotta contro il virus. Oggi non più. Oggi è evidente che la politica, tutta la politica, ha gettato la spugna. I segnali sono chiarissimi.

Sul versante europeo, innanzitutto. L’accordo su green pass e voli internazionali, secondo cui le compagnie aeree avrebbero dovuto assicurare i controlli, è stato una perfetta presa in giro. La stragrande maggioranza dei passeggeri non vengono controllati né alla partenza né all’arrivo, il che può significare solo due cose: le regole stabilite dalle autorità europee non erano vincolanti, oppure lo erano ma non prevedevano sanzioni.

Le cose non vanno meglio sul versante italiano. I tamponi sono la metà di quelli che si facevano a marzo; da ben 3 settimane l’Rt galoppa al di sopra di 1; da qualche giorno il numero di casi giornalieri ha oltrepassato la soglia (circa 4000 al giorno) che consente il tracciamento. Per tutta risposta il governo sta cambiando i parametri di allarme, puntando sulle ospedalizzazioni (che sono ancora poche, per fortuna) anziché sull’indice di trasmissione Rt e sul numero di casi (incidenza settimanale), che invece stanno crescendo a un ritmo preoccupante e, con le vecchie regole, costringerebbero a far passare alcune regioni in zona gialla. Dunque lo scenario è chiaro: si cercherà di tirare a campare fino a Ferragosto per salvare il turismo, poi, quando saremo arrivati a 30 mila casi al giorno (così dicono le proiezioni), improvvisamente si scoprirà che dobbiamo chiudere tutto il chiudibile.

E a quel punto?

A quel punto, come l’anno scorso, avremo elezioni e ritorno a scuola. E poiché nel frattempo nulla è stato fatto né sul versante del trasporto locale, né su quello della messa in sicurezza delle scuole (per non parlare della riorganizzazione della medicina territoriale), sarà difficile evitare un’ulteriore esplosione dei contagi, anche agevolati dalla fine della bella stagione e della vita all’aperto.

Dunque, non nascondiamocelo: vaccini e green pass a parte, poco si sta facendo per arginare l’esplosione dei contagi. E la scuola non è affatto “una priorità assoluta”, come vorrebbe farci credere il ministro Speranza, ma è l’agnello sacrificale che, per il secondo anno consecutivo, immoliamo in nome del sacro diritto alle vacanze e alla ripartenza.

Detto questo, però, la domanda resta: che fare per limitare i danni?

Spiace essere tranchant, ma – dal momento che le autorità sanitarie hanno deciso, a dispetto della pericolosità della variante indiana, di lasciar correre il virus – non si può che concludere che siamo soli, completamente soli. E ci resta un’unica cosa da fare: provare a limitare i danni vaccinando noi stessi e convincendo gli altri a fare la stessa cosa. La possibilità di scegliere serenamente fra vaccinarsi e non vaccinarsi è un privilegio riservato ai cittadini dei paesi – quasi tutti non europei – in cui l’epidemia è sotto controllo.

Il vaccino, infatti, è l’unica vera arma che ci resta in una situazione in cui, per mille ragioni, si è deciso di rinunciare a usare altre armi, perché giudicate troppo costose o complicate.

Quali sono i vantaggi del vaccino?

Sono essenzialmente tre, uno di tipo altruistico, gli altri due di tipo egoistico.

Il vantaggio altruistico è che le persone vaccinate, pur potendo trasmettere il virus, lo fanno in misura considerevolmente minore. Una persona vaccinata è meno pericolosa per gli altri di una persona non vaccinata. Questo significa che, più persone si vaccinano, più lentamente circola il virus. Il rallentamento indotto dal vaccino, dunque, può controbilanciare (anche se solo in parte) l’accelerazione indotta dalla variante delta.

E veniamo ai due vantaggi egoistici. Il primo è che chi è vaccinato ha minori probabilità di contrarre il virus. Il secondo è che, anche se lo contrae, di norma sviluppa sintomi meno gravi di chi non è vaccinato, e raramente viene ospedalizzato o muore. Sono due vantaggi enormi, che fanno la differenza – esistenzialmente cruciale – fra vivere nell’angoscia e vivere nella consapevolezza di un piccolo rischio.

Questo non significa che la vaccinazione piena (con 2 dosi, o con 1 di Johnson & Johnson) azzeri il rischio di infezione, ospedalizzazione, morte, come alcuni credono. Significa però, ed è decisivo, che i rischi si riducono in modo drastico.

In concreto tutto ciò implica che, ove la quota di pienamente vaccinati si avvicinasse all’80 o al 90%, almeno il numero di ospedalizzati e di decessi potrebbe essere fortemente limitato. E’ a questo che dobbiamo puntare, raggiungendo chi non si può muovere e ragionando con i dubbiosi. Vaccinarci è l’unica arma che ci è stata lasciata in mano, e quindi sarebbe stolto non usarla.

La vaccinazione di massa risolverà ogni problema?

Lo speriamo. Ma pensare che basti, e da sola ci garantisca anni di convivenza pacifica con il virus, potrebbe essere un tantino azzardato. Di per sé, la vaccinazione di massa non esclude due eventualità che dobbiamo sempre tenere presenti. Da un lato, è possibile che, proprio perché si è lasciato circolare il virus, si formino varianti che “bucano” la barriera dei vaccini, o che sono ancora più trasmissibili di quella indiana. Dall’altro, se il virus dovesse infettare quasi tutti, il rischio è che – oltre a scontare un numero di morti non trascurabile – si debba fare i conti con milioni di persone alle prese con il cosiddetto Long Covid, ossia con i postumi più o meno irreversibili della malattia (attualmente si stima che ne siano affetti il 10% dei guariti).

Da questo punto di vista la scelta di cambiare i parametri, abbandonando Rt e l’incidenza settimanale, appare un tantino imprudente. Se la gravità dell’epidemia viene valutata solo o prevalentemente con le ospedalizzazioni, il rischio è che – ancora una volta – ci si accorga del pericolo solo quando l’epidemia galoppa, e i costi economici e sociali per frenarla sono diventati proibitivi.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 luglio 2021




Le dimensioni culturali e la pandemia: come in Cina la cultura ha favorito il successo della gestione del Covid-19

La sorprendente evoluzione dell’epidemia in Cina

Secondo i dati diffusi dalla World Health Organization, la Cina è tra gli Stati che, a oggi, registrano il minor numero di casi e di morti da Covid-19 nel mondo. Ciò risulta particolarmente sorprendente se si tiene conto della densità della popolazione, della presunta paternità finora del virus e dell’ancora permanente stato di squilibrio socioeconomico delle regioni interne.

In particolare, in rapporto all’Italia…

Leggi l’articolo completo Le dimensioni culturali e la pandemia




“Errore imporre i vaccini ai giovani” – Intervista a Mario Menichella

La Verità (nella persona di Daniele Capezzone, ndr) ha conversato con Mario Menichella, fisico e divulgatore impegnato con la Fondazione David Hume, guidata da Luca Ricolfi.

Partiamo dal tema più delicato e spinoso, e cioè la vaccinazione dei ragazzi e poi quella dei bambini. Lei è stato il primo in Italia a individuare un “punto di break even”: sopra i 25-30 anni vaccinarsi è certamente vantaggioso (i rischi legati al vaccino sono senz’altro inferiori ai rischi delle conseguenze del Covid). Sotto quel limite di età, invece, le cose si invertono. Vuole spiegarci meglio?
Il rischio di morte per Covid si abbassa – e davvero di molto – al diminuire dell’età dei contagiati. Purtroppo, come abbiamo imparato nel caso delle trombosi legate ai vaccini, non altrettanto si può dire del rischio di morte per gli effetti collaterali. Pertanto, a un certo punto i due rischi si equivalgono, e ciò avviene grosso modo intorno ai 25-30 anni di età, come mostrato in un’analisi che ho reso pubblica a marzo e come in seguito ammesso ufficialmente anche dall’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali.

Tra l’altro, un conto era la situazione 8-9 mesi fa: l’ipotetica positività di un ragazzo poteva davvero portare il virus in famiglia, con conseguenze pesanti per gli anziani di casa. Ma ora genitori e nonni sono vaccinati. Quindi perché far correre un rischio ai più giovani?
Sì, a livello individuale un giovane ha più da perdere che da guadagnare nel vaccinarsi. A livello di società, invece, l’apparente beneficio sarebbe di non far circolare il coronavirus. Tuttavia, se si analizza la questione dal punto di vista quantitativo, come ho fatto in un’altra analisi più recente pubblicata anch’essa nel sito della Fondazione Hume, si scopre che, perfino se si vaccinasse il 100% dei giovani, il virus potrebbe in teoria ancora tranquillamente circolare, poiché i dati provenienti dal Regno Unito indicano che una buona percentuale dei vaccinati non impediscono la trasmissione del virus se contagiati. Il piccolo contributo alla riduzione dell’Rt fornito dalla vaccinazione dei giovani potrebbe essere quindi ottenuto in altro modo, senza mettere necessariamente a rischio giovani vite.

In generale, non le pare che con i ragazzi si sia esagerato? Tra open day, notti bianche del vaccino, per non dire dell’associazione di idee tra vaccino e vacanza, non le pare che si sia spinto troppo verso di loro?
Sì, non solo non è stata fatta per loro un’analisi rischio-beneficio come ci si aspetterebbe prima di prendere decisioni così importanti, ma più in generale non si è voluto prendere realmente atto del fatto che il problema Covid riguarda – come del resto avviene anche per l’influenza – principalmente gli over 60. Aver voluto coinvolgere i giovani può essere parso politicamente corretto, ma dal punto di vista matematico, ad esempio del minimizzare l’impatto sul tessuto economico e sociale, mi suscita più di qualche dubbio. Perciò, mi pare davvero curioso che nel CTS non vi sia un matematico o almeno uno statistico, nonostante l’importanza degli aspetti quantitativi e dell’ottimizzazione nelle decisioni da prendere.

Vogliamo ribadire un punto che mi pare troppo sottovalutato? Per forza di cose, cioè vista la miracolosa rapidità con cui i vaccini sono stati realizzati, stiamo parlando di vaccini necessariamente in fase sperimentale. Voglio dire che non ne conosciamo gli effetti nel medio e lungo termine. È giusto?
Esattamente. Senza creare inutili allarmismi, è così. E il fatto che un tale modo di procedere normalmente non sarebbe accettabile è il motivo per cui si è derogato alle normali procedure di sperimentazione – che di solito durano molti anni – con l’autorizzazione all’uso di emergenza. Vorrei evidenziare che si sta anche creando un pericolosissimo precedente per altre tecnologie, come ad esempio il 5G, che secondo esperti indipendenti assai qualificati, se fosse un farmaco, non supererebbe neppure la sperimentazione preclinica.

È vero o è falso che alcune delle tecnologie usate non erano mai state utilizzate prima nella vaccinazione umana?
Vero. È ben noto che i vaccini a mRNA non sono mai stati usati prima sull’uomo, per cui questa inattesa occasione di sperimentarli senza troppi “lacci e lacciuoli” ha rappresentato una grossa opportunità per l’industria farmaceutica, che ora evidentemente ha forte interesse a testarli anche su ragazzi e bambini.

A questo punto, la interrogo su due conseguenze. La prima: non dovremmo essere specialmente prudenti verso i ragazzi ed i bambini? La seconda: davanti a farmaci sperimentali, parlare di eventuale obbligatorietà del vaccino sarebbe una ipotesi gravissima, irricevibile, inaccettabile. È così?
Sì, dovremmo essere prudenti con i ragazzi e tanto più con i bambini, perché sul Covid sappiamo tantissimo, ma mi sembra assai poco sugli effetti dei vaccini attuali, al di là di poche scarne statistiche: che io sappia – ma sarei molto felice di sbagliarmi – nessun soggetto terzo rispetto alle case farmaceutiche ha testato un campione di vaccinandi con semplici esami del sangue e monitoraggio dei parametri vitali per vedere l’azione dei vaccini sul livello di coagulazione sanguigna, sulla frequenza cardiaca, etc., nonostante non fosse difficile o costoso farlo. Insomma, ci si è fidati a occhi chiusi dell'”oste” e del suo vino. L’obbligo a sottoporsi a un vaccino di fatto sperimentale mi pare quanto meno eticamente sbagliato, soprattutto per i giovani, tanto più che si è costretti a firmare una manleva dalle responsabilità su eventuali effetti collaterali.

Lei ha detto che l’immunità di gregge è una chimera, perché anche i vaccini attuali, pur per molti versi efficaci, sono “leaky”. Vuole spiegarci meglio?
Come mostrano i dati contenuti nei rapporti periodici di Public Health England, gli attuali vaccini anti-Covid prevengono molto bene la malattia grave ma in una buona percentuale di vaccinati non prevengono l’infezione e, in molti di questi, neppure la trasmissione a terzi della stessa, perciò si dicono “leaky”. L’immunità di gregge è un concetto nato per i vaccini cosiddetti sterilizzanti, cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come quello per il morbillo, la poliomelite, etc. Se si vuole estendere il concetto di immunità di gregge ai vaccini leaky anti-Covid, come ho mostrato quantitativamente in due modi diversi nella mia analisi pubblicata dalla Fondazione Hume, si scopre che troppi vaccinati contribuirebbero alla circolazione del virus, per cui l’immunità di gregge con i vaccini attuali non sembra essere raggiungibile.

Veniamo agli anziani. Ferma restando la libertà di ciascuno di vaccinarsi o no, mi pare che il punto sia qui: negli oltre 2 milioni di over 60 che ancora non si sono vaccinati. Sono loro i soggetti potenzialmente a rischio a settembre-ottobre?
Principalmente, poiché circa il 95% dei morti per Covid è costituito da over 60. Nel mio articolo, sotto ipotesi oggi del tutto ragionevoli, ho mostrato come il bacino di potenziali nuove vittime nel prossimo autunno-inverno sarà verosimilmente costituito soprattutto da anziani non vaccinati e, in misura minore, da quella piccolissima percentuale di anziani vaccinati su cui i vaccini non risultano essere efficaci.

Dunque occorrerebbe informarli e convincerli razionalmente. Condivide?
Assolutamente, e anche raggiungerli capillarmente, ma non mi pare che in tutte le regioni ciò sia stato fatto.

Non dobbiamo trascurare un’altra carta importantissima: le cure domiciliari. Nello scenario che lei ha descritto può essere uno strumento decisivo in autunno.
Per gli anziani non vaccinati avere un protocollo di cura serio e ufficiale sarà fondamentale. Quello proposto dal gruppo del prof. Remuzzi è assai efficace nel ridurre la mortalità. Lo dimostra il loro studio pubblicato a giugno su una prestigiosa rivista peer-reviewed. Ora Aifa e Cts, a mio parere, non hanno più “scuse” per non adottarlo, anche perché in caso di ulteriore inerzia in tal senso qualche magistrato potrebbe magari trovare i presupposti per aprire un caso giudiziario, come già accaduto per il piano pandemico non aggiornato.

La Fondazione Hume e Luca Ricolfi hanno suggerito altri due interventi di buon senso: attivarsi da ora per un notevole potenziamento dei trasporti in vista della ripresa scolastica, e spendere un po’ di soldi (ne basterebbero forse meno dei 300 milioni spesi per i banchi a rotelle) per mettere in tutte le aule impianti di purificazione dell’aria. Conferma?
Sì. Il ricambio d’aria è un approccio interessante e non solo a scuola, non a caso la questione sarà affrontata in dettaglio proprio nella mia prossima analisi quantitativa, che uscirà a settembre. Suggerirei poi una misura a costo zero: eseguire controlli e test a campione sulle mascherine in commercio, anche online, ritirando quelle – temo ancora numerose – che non garantiscono quasi alcuna protezione a chi le indossa.

 Se facciamo tutto questo, possiamo ragionevolmente sperare di trattare le varianti più o meno come le malattie respiratorie stagionali, insomma come delle influenze? Ogni anno ci sono vittime, lo sappiamo bene. Ma nessuno ha mai proposto un lockdown contro l’influenza…
Sì, la matematica ci suggerisce che, ampliando l’arsenale delle armi per ridurre l’Rt e vaccinando più anziani possibile, arriveremo prima a una convivenza pacifica con questo coronavirus. I vaccini ed i farmaci di nuova generazione, probabilmente, faranno il resto.

Intervista rilasciata a Daniele Capezzone e pubblicata su “La Verità” del 12 luglio 2021
(riprodotta per gentile concessione di D. Capezzone / La Verità)




Il “ricalcolo” dei morti in Perù certifica la disfatta dell’Occidente

Quando ero bambino, tra i più famosi cartoni animati dell’epoca c’era quello dei Barbapapà, una famiglia di simpatici esseri gommosi che erano in grado di cambiare forma e dimensioni a piacimento, cosa che in genere facevano allo scopo di aiutare il prossimo e prevenire disastri. Ogni trasformazione era accompagnata dalla mitica frase, entrata anche nell’uso comune fra i bambini di allora, “Resta di stucco, è un barbatrucco!”

Ecco, proprio questa frase, che ormai non usavo da anni, è stata la prima che mi è venuta in mente di fronte all’ultima trovata della OMS, che qualche settimana fa ha improvvisamente deciso di “riscrivere” i numeri della pandemia in base ad alcuni criteri elaborati a tavolino, tra i quali quello fondamentale è l’eccesso di mortalità rispetto agli anni precedenti. Il primo (e finora unico) paese che abbia accettato di fare questo ricalcolo è stato il Perù, che il 1° giugno scorso ha annunciato che i morti erano improvvisamente passati da 69.342 a 180.764, come per magia o, appunto, un “barbatrucco”,

C’è davvero da restare di stucco, infatti, di fronte a un’operazione del genere, che in un solo giorno ha “gonfiato” di ben 2,6 volte il numero dei morti in base ad una stima puramente teorica. Intendiamoci: non è che di per sé l’idea di cercare di valutare più esattamente i numeri dell’epidemia sia sbagliata, ma è il modo in cui ciò è stato fatto che lascia a dir poco perplessi.

Anzitutto, è incredibile che ci sia ancora chi prende sul serio le indicazioni di un’istituzione così palesemente screditata come la OMS, che, per come è ridotta oggi, andrebbe semplicemente rasa al suolo e ricostruita dalle fondamenta. Non è certo un caso che ad andarle dietro per primo sia stato il Perù, paese che conosco molto bene e che da tempo dimostra una sudditanza particolarmente accentuata nei confronti delle organizzazioni internazionali, dovuta da un lato alla cultura illuminista delle sue élites, che vi vedono la possibilità di “modernizzare” il paese (ovviamente secondo il loro concetto di modernità, che non è condiviso dalla maggioranza della popolazione) e dall’altra alla forte crescita economica, che spinge molti a cercare in esse (perlopiù invano) un punto di riferimento più affidabile delle sue fragilissime istituzioni.

Inoltre, è evidente che la OMS, dopo l’iniziale minimizzazione fatta per favorire il tentativo di insabbiamento degli “amici” cinesi, ha sempre cercato di “gonfiare” il più possibile l’allarme Covid e quindi, innanzitutto, le sue cifre, allo scopo di giustificare la propria inutile esistenza. Si noti, fra l’altro, che la OMS ha proposto di ricalcolare solo i morti e non anche i contagi, benché sia evidente che questi ultimi sono di sicuro molto più sottostimati, essendo molto più difficili da identificare, soprattutto gli asintomatici. Il risultato è quello di innalzare artificiosamente il tasso di letalità del virus (che è dato dal rapporto tra il numero dei contagiati e quello dei morti), il che equivale a innalzare artificiosamente il livello di allarme e, di conseguenza, il potere della OMS stessa, che per ovvie ragioni è tanto maggiore quanto più grave è l’emergenza.

Del resto, ciò non deve stupire, perché non è affatto una novità. Già con l’influenza suina (2009-2010), di fronte al numero fortunatamente bassissimo dei contagi e dei morti e a quello invece altissimo delle accuse di incompetenza, nonché di corruzione e di conflitto di interessi per aver fatto comprare a vari governi centinaia di milioni di dosi di vaccini poi rivelatesi inutili, la OMS nel 2012 aveva commissionato uno studio che aveva “ricalcolato” il numero dei morti facendolo passare dai 18.449 accertati a 284.000 stimati.

Che tutta l’operazione sia altamente sospetta è dimostrato dal fatto che, quandanche ciò fosse vero, non giustificherebbe comunque il titolo di pandemia, che invece la OMS continua pervicacemente ad attribuirle, visto e considerato che la suina ha colpito quasi esclusivamente USA, Messico e alcuni paesi sudamericani e asiatici e che 284.000 decessi in due anni equivalgono a 142.000 all’anno, che sono meno di quanti se ne verifichino normalmente nel mondo in un solo giorno.

Più in generale, sono almeno vent’anni che di fronte ad ogni nuovo virus che appare all’orizzonte la OMS, puntuale come la morte e le tasse, annuncia l’imminente arrivo di una pandemia, che poi, altrettanto puntualmente, non si verifica: e anche questo continuo gridare “al lupo, al lupo” ha contribuito a far sì che, per una volta che il suo allarme era giustificato, venisse preso sottogamba.

Ma c’è una considerazione più sostanziale. Infatti, l’eccesso di mortalità può al massimo essere un criterio euristico, cioè un “segnale d’allarme” indicante che in un certo luogo potrebbe esserci un certo numero di morti da Covid che non sono stati riconosciuti come tali. Tale criterio, per esempio, era stato usato da Ricolfi l’anno scorso a proposito di certe zone del Sud che, pur essendo ufficialmente Covid-free o quasi, presentavano un notevole e inspiegato eccesso di mortalità. Tuttavia, che tale eccesso sia realmente dovuto al Covid deve essere dimostrato in base a dati oggettivi e non solo presunto su base puramente statistica, perché nella scienza la sola coerenza logica non basta a convalidare una teoria: occorre sempre la verifica sperimentale.

Inoltre, l’eccesso di mortalità è un dato di per sé molto variabile. Per esempio, questi sono i dati ISTAT relativi all’Italia negli ultimi 9 anni pre-Covid (il valore minimo è evidenziato in azzurro, il valore massimo in giallo):

Come si vede, la minima differenza, che corrisponde anche alla minima variazione tra due anni consecutivi (2018-2019), è di appena 1.284 morti, mentre la massima differenza (2017-2011) è di 55.634 e la massima variazione tra due anni consecutivi (2014-2015) è solo di poco inferiore: 49.207. In altre parole, la mortalità dovuta alle cause usuali (non Covid) è variata spontaneamente da un anno all’altro di quasi il 9%, il che influenza pesantemente anche le stime sui morti da Covid: per esempio, i 746.146 morti totali del 2020 rappresentano un eccesso di 111.729 unità rispetto al 2019, ma di solo 97.085 rispetto al massimo del 2017 e di ben 152.719 rispetto al minimo del 2011.

Ciò significa che l’eccesso di mortalità del 2020 rispetto al 2019 è stato superiore di 37.582 unità ai 74.147 morti da Covid ufficialmente accertati nello stesso 2020, il che suggerisce che il numero reale potrebbe essere di circa il 50% superiore. Ma se la mortalità del 2019 fosse stata pari a quella del 2017 (cosa perfettamente concepibile, dipendendo da cause che nulla hanno a che vedere con il Covid) il gap tra morti da Covid accertati e possibili si ridurrebbe moltissimo, suggerendo che il valore ufficiale sia molto vicino a quello reale; mentre se la mortalità del 2019 fosse stata pari a quella del 2011 tale gap crescerebbe al punto da suggerire che il valore reale potrebbe essere addirittura il doppio di quello ufficiale.

Con le medie le cose vanno (ovviamente) meglio, ma le variazioni restano significative. Questa è la tabella delle medie relative ad alcuni diversi periodi pre-Covid in Italia:

Come si vede, qui la variabilità è minore, ma comunque la differenza tra la media più alta e quella più bassa è pur sempre di 18.330 unità in più o in meno, il che può fare aumentare o diminuire il totale dei morti da Covid stimati per il 2020 della stessa quantità. Ciò rappresenta una variazione di ben il 25% rispetto al numero dei morti accertati ufficialmente, dovuta interamente al mero fatto di scegliere (in modo fondamentalmente arbitrario) un dato periodo di riferimento. E si badi che stiamo parlando di un paese come l’Italia attuale, molto stabile sia dal punto di vista sanitario che demografico: figuriamoci quindi cosa può succedere in paesi come il Perù, in cui la mortalità può essere influenzata significativamente anche da eventi per noi non particolarmente drammatici, come ondate di caldo o di freddo, siccità, alluvioni, crisi economiche o altre malattie (spesso più letali del Covid, ma di cui non parla nessuno solo perché restano confinate nel Terzo Mondo).

Inoltre, fin qui abbiamo ragionato come se tutte le altre cause di morte avessero seguito il loro andamento naturale, cioè come se il Covid non le avesse in alcun modo influenzate. Ma è chiaro che non è così. Infatti, come molti hanno drammaticamente sperimentato sulla propria pelle, l’affollamento degli ospedali ha spesso impedito di curare adeguatamente (e a volte addirittura completamente) persone affette da altre patologie, anche gravi, causando quindi altre morti che, pur essendo state indirettamente provocate dal Covid, tuttavia non sono dovute ad esso e quindi non possono essere classificate come “morti da Covid”.

Il loro numero è però difficile da quantificare perfino in un paese come l’Italia, che pure dispone di uno dei migliori sistemi sanitari al mondo: figuriamoci quindi se è possibile farne una stima affidabile in un paese come il Perù, che ha invece un sistema sanitario molto fragile, che in questo periodo è davvero collassato (mentre il nostro, checché se ne dica, ha sofferto molto, ma nell’insieme ha retto).

Se si considerano tutti questi fattori, dunque, è facile capire come un’operazione del genere non possa che essere molto imprecisa già per sua natura e più ancora se la si vuol fare in paesi poveri e con istituzioni inefficienti, tanto da far dubitare seriamente che abbia senso. In ogni caso, se la si vuole comunque fare, bisognerebbe almeno tenere accuratamente distinti i morti accertati da quelli semplicemente stimati, altrimenti si mescolano fra loro dati del tutto eterogenei, con l’unico risultato di generare una confusione tale da rendere praticamente impossibile ogni confronto statistico.

Ma non sembra essere questa l’intenzione della OMS. Infatti, gli pseudo-dati del “ricalcolo” peruviano sono immediatamente finiti in un calderone unico insieme a quelli reali, “premiando” la sua masochistica docilità al pandemically correct con l’attribuzione della poco invidiabile (e peraltro, per quanto appena detto, altrettanto poco giustificata) “maglia nera” di peggiore paese al mondo nella gestione del Covid.

Tuttavia, c’è almeno una lezione che possiamo davvero trarre da questa pasticciatissima vicenda, il cui significato è però l’esatto opposto di ciò che sembra a prima vista. Infatti, sia negli articoli pubblicati su questo sito che anche altrove, io ho sottolineato ripetutamente che vedere i paesi più ricchi e progrediti del mondo, cioè gli USA e l’Europa Occidentale, con un tasso di mortalità superiore a quello dei paesi sudamericani rappresenta un’abnormità di tale portata che non può essere spiegata se non come il frutto di una sequela di macroscopici e gravissimi errori da parte nostra.

Ogni volta, però, mi veniva regolarmente obiettato che verosimilmente il numero dei morti in Sudamerica era di molto sottostimato, al che io contro-obiettavo che ciò era sicuramente vero, ma non bastava a cambiare i termini della questione. Infatti, da loro i morti potevano essere sottostimati al massimo di due o tre volte, ma non certo di venti o trenta: e se anche noi avessimo avuto solo la metà o perfino solo un terzo dei morti dei paesi sudamericani, la cosa sarebbe stata ugualmente inaccettabile, vista l’enorme sproporzione di mezzi esistente tra noi e loro.

Ebbene, il ricalcolo peruviano conferma in pieno la mia tesi. Infatti, anche accettando per buona la stima fatta dal governo (che, per le ragioni anzidette, è invece quasi certamente esagerata), al 1° giugno 2021 il numero di morti per abitante del Perù risultava essere 5.408 contro i 2.090 dell’Italia, cioè circa 2,5 volte maggiore del nostro e, in generale, della media dell’Occidente progredito.

Ma non basta: dobbiamo ancora considerare due fattori che incidono pesantemente, distorcendo i dati a nostro favore. In primo luogo, infatti, un analogo ricalcolo applicato ai nostri paesi farebbe verosimilmente crescere di parecchio anche il numero dei nostri morti, come si desume facilmente dalle tabelle precedenti. In secondo luogo, all’epoca in Europa e negli USA stava arrivando l’estate e la campagna vaccinale era già abbastanza avanzata, mentre in Perù (che si trova nell’emisfero Sud) stava arrivando l’inverno e la campagna vaccinale era appena agli inizi.

Possiamo quindi senz’altro affermare che il rapporto reale tra il numero di morti per abitante del Perù e quello dei paesi più progrediti è non solo certamente inferiore a 3, ma verosimilmente addirittura inferiore a 2, esattamente come ho sempre sostenuto.

E per l’Occidente avere la metà dei morti del Perù è una disfatta su tutta la linea.




Cultura e salute, interessano solo all’opposizione?

Circa un anno fa, era la fine di giugno, mi presi la briga di scrivere che, per salvare il turismo, stavamo facendo ripartire l’epidemia. Il timore che questo sarebbe potuto accadere mi aveva accompagnato fin dai primi di maggio, ossia da quando il governo Conte aveva dato il via alla stagione delle riaperture. Ma per azzardare quella previsione, poi rivelatasi purtroppo esatta, aspettai che i dati indicassero in modo inequivocabile che la curva epidemica stava svoltando.

Oggi la storia si ripete. Come altri studiosi sono stato perplesso di fronte alle riaperture di aprile, ma fino a non molto tempo fa ho continuato a sperare che avessero torto i profeti di sventura, e che il “rischio ragionato” di Draghi, alla fine, si sarebbe rivelato una scelta lungimirante, o quantomeno una scelta non troppo costosa in termini di salute. Arrivati a questo punto, invece, devo purtroppo gettare la spugna, e ripetere il discorso di un anno fa: per salvare il turismo stiamo riaccendendo l’epidemia.

Che cosa mi ha convinto che le cose si stiano mettendo per il verso storto?

Innanzitutto i dati degli altri paesi. Per molti mesi siamo stati rassicurati sull’efficacia dei vaccini, sulla loro capacità di proteggere dalle varianti e di frenare la trasmissione. Ma ormai l’evidenza che mostra che la campagna di vaccinazione non ferma la diffusione del virus è schiacciante: Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Spagna, Portogallo, Danimarca sono tutti più avanti di noi nella campagna vaccinale, ma cionondimeno stanno tutti subendo un’impennata dei casi, con il valore di Rt che supera 1 (e in 5 casi su 6 è già su valori catastrofici). La ragione di questa inversione di tendenza è presto spiegata: tutti questi paesi sono sì ad alta vaccinazione, ma sono anche sopraffatti dalla variante indiana (o delta), che in tutti ha una penetrazione superiore al 40%, e in due casi (presso i primi della classe delle vaccinazioni: Israele e Regno Unito) sfiora il 100%.

Questi dati indicano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che anche la vaccinazione di massa – pur necessarissima e più che mai auspicabile – non è sufficiente a fermare l’epidemia se si permette alla variante indiana di diffondersi oltre una certa soglia, verosimilmente intorno al 30-35%. L’Italia a quella soglia è piuttosto vicina (secondo l’ultima stima siamo al 28.4%), e infatti accusa i primi segni di cedimento.  Da alcuni giorni il quoziente di positività tende a  salire, mentre il valore di Rt è in crescita da un paio di settimane, e si sta avvicinando pericolosamente al valore soglia 1, che separa la regione di sicurezza (Rt<1) da quella di pericolo (Rt>1).

E non è tutto. Nella prima settimana di luglio gli indicatori di diffusione dell’epidemia (numero di positivi, quoziente di positività) suggeriscono che il numero di persone contagiate sia circa il triplo di un anno fa. Detto altrimenti: non solo l’epidemia è in ripresa, ma la base su cui il contagio si espande è sensibilmente più ampia di quella del luglio scorso.

Difficile sfuggire alla conclusione che se, finora, le cose sono andate abbastanza bene non è solo grazie alla campagna di vaccinazione, che sicuramente ha dato una mano, ma è soprattutto a causa della stagione (vita all’aperto e caldo) e a causa del ritardo con cui la variante delta è penetrata in Italia. Quest’ultimo fattore sta già venendo meno, come mostrano le statistiche sulla penetrazione della variante delta. Quanto alla bella stagione, la situazione resterà stazionaria fino ad agosto, ma invertirà il suo corso a partire da settembre. Pensare che la prosecuzione della campagna di vaccinazione basti ad arginare questi processi è un tantino azzardato. Fatta 100 la popolazione vaccinabile (over 15) Israele è all’85% di persone pienamente vaccinate (e già si vede che non basta), noi siamo appena al 40%, con l’aggravante che nella popolazione vaccinabile il peso degli anziani è in Italia molto maggiore che in Israele.

Rispetto a tutto questo, come si stanno muovendo le nostre autorità politiche e sanitarie? Spiace doverlo dire, ma – vaccini a parte – io vedo un solo elemento di reale discontinuità rispetto alla sciagurata gestione dell’epidemia nell’estate scorsa: Draghi ammette che l’epidemia è tutt’altro che vinta, e il ministro Speranza – per quel che è dato sapere – non sta scrivendo un nuovo libro per lodare il proprio operato.

Per il resto non si può non osservare che stiamo ripetendo esattamente gli errori dell’anno scorso sia nella gestione dell’estate, sia nella preparazione dell’autunno.

Sulla gestione dell’estate impera la leggerezza: porte spalancate al turismo internazionale, forze dell’ordine latitanti, riduzione del numero di test (quasi dimezzato rispetto a marzo), imminente riapertura delle discoteche.

Quanto alla preparazione per l’autunno, dall’agenda del governo paiono sparite, ammesso che vi avessero mai trovato posto, le tre mosse fondamentali che potrebbero rallentare e mitigare la corsa del virus nella stagione fredda: rafforzamento del trasporto locale, messa in sicurezza delle aule scolastiche e universitarie, riorganizzazione della medicina territoriale. E fa una certa impressione constatare che il “governo dei competenti” di tutto questo poco si curi, e che a richiamarlo sui pericoli di una ripresa dell’epidemia in autunno debba essere la “estremista” Giorgia Meloni, a quanto pare – su questo – equipaggiata di maggiore senso di responsabilità, o forse semplicemente di maggiore concretezza.

Perché siamo di nuovo a questo punto? Perché la lezione dell’anno scorso non è stata imparata? Perché le autorità si cullano nell’illusione che i vaccini basteranno a fermare l’epidemia, o a renderne sopportabili le conseguenze?

La risposta credo stia, innanzitutto, in ciò che come italiani (e, in buona parte, come europei) abbiamo dimostrato in questo anno e mezzo di Covid: per noi il turismo, le vacanze, il divertimento, la possibilità di spostarci liberamente e senza controlli sono vitali, irrinunciabili. Per queste cose siamo disposti a pagare un prezzo molto alto in termini di salute, di cultura, di istruzione. Diversamente da altri popoli che – come i giapponesi, i coreani, gli australiani, i neozelandesi –  hanno accettato pesanti limitazioni e sacrifici per combattere la pandemia, noi non siamo disposti a rinunciare alle cose che per noi contano. Certo speriamo che in autunno pochi anziani perdano la vita, e che i nostri ragazzi tornino a scuola in presenza, senza la stramaledetta Dad. Ma se questo risultato, che tutti auspichiamo, ha un costo troppo elevato, allora pazienza: ogni lasciato è perso, quindi cominciamo a prenderci le vacanze (dopotutto ce le meritiamo), poi quando arriverà l’autunno si vedrà. Non possiamo certo fare vacanze di serie B per salvare qualche migliaio di vite umane e per restaurare la scuola di ieri.

Io tutto questo l’anno scorso non l’avevo capito, per questo ingenuamente auspicavo che imitassimo i paesi che l’epidemia l’hanno vinta e, accettando sacrifici tempestivi e temporanei, hanno reso meno drammatico sia il bilancio finale dei morti sia quello delle perdite economiche. Per questo ragionavo come se della salute, della cultura e della scuola importasse davvero molto a tutti, politici e cittadini. Per questo ero incredulo di fronte alla nostra incauta estate, e non mi davo pace di fronte all’inerzia delle autorità politiche e sanitarie.

Invece quest’anno mi è chiaro: salute e scuola sono priorità solo a parole, se ci tenessimo davvero ce ne preoccuperemmo adesso, e gestiremmo l’estate in tutt’altro altro modo. E, poiché questa è la realtà, nessun politico, oggi, può chiedere agli italiani di sopportare dei sacrifici, come ebbe il coraggio di fare Berlinguer nel 1977 per salvare il paese dalla bancarotta economica. Oggi è il tempo del debito (debito “buono”, naturalmente), oggi è il tempo della spesa, oggi è il tempo della ripartenza dell’economia, oggi è il tempo del pass vaccinale, oggi è il tempo del campionato europeo di calcio. Per questo è inutile chiedere che per viaggiare si debba essere pienamente vaccinati, per questo è inutile chiedere di fare controlli veri agli aeroporti, per questo è inutile chiedere di contenere gli assembramenti in strada, allo stadio, in discoteca. E’ inutile perché non siamo pronti, non siamo disposti, abbiamo troppo sofferto, sentiamo di aver diritto a un risarcimento.

E allora?

Allora capisco che i governanti non si suicidino, e non ci chiedano di fare ciò che toglierebbe loro popolarità e consenso. Però una cosa penso che potrebbero farla motu proprio, o sotto la spinta di un’opposizione curiosamente più responsabile dell’esecutivo: porci in condizione di limitare i danni quando l’epidemia riprenderà a correre, e nuove varianti metteranno a dura prova i vaccini.

Perché se, ancora una volta, non si faranno le cose che studiosi e opposizione chiedono di fare sui trasporti, sulla scuola, sui tamponi, sul sequenziamento, sulla medicina di base, l’autunno sarà molto duro. Molto più duro di quel che sarebbe se ci preparassimo in tempo.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 luglio 2021