La frase che più mi ha accompagnato in questo lungo periodo di isolamento forzato è stata, curiosamente, la frase di un allenatore di calcio: Cesare Prandelli.
Ha scritto: “Bisogna decantare il lutto e il dolore. Ci vuole rispetto per chi ha sofferto. Non si può passare dal cimitero allo stadio, da un cimitero di bare alla ola. Se il calcio perde tre o quattro mesi non cambia nulla. Non devono essere pronti a giocare solo i calciatori, deve essere pronta anche la gente a gioire”.
Ho trovato in queste semplici e toccanti parole la riflessione più pertinente al nostro tempo, ai comportamenti e infinite reazioni, reali o virtuali, di questo periodo.
E mi sono interrogato sul Teatro. Sulla necessità legittima di continuare la sua vita e di quelli che lo fanno esistere quotidianamente.
Comprendo perfettamente l’apprensione delle Strutture, delle Compagnie, degli attori e di tutti coloro che partecipano alla vita dello spettacolo dal vivo: E sono totalmente solidale.
Ma, al di là delle comprensibilissime preoccupazioni economiche, ho finalmente sentito una vera condivisione, una vera partecipazione alla situazione presente, solo grazie alle parole di quell’allenatore, che hanno dimostrato un vero senso della collettività.
E al di là delle complicatissime precauzioni che dovremo utilizzare nei luoghi chiusi, come i Teatri, con quale spirito anche noi, gente di teatro, potremmo tornare a “gioire” e “far gioire”?
Forse noi non pensiamo a “decantare il lutto e il dolore” di tutte quelle persone che hanno sofferto o stanno soffrendo e a quelle che sono decedute? Si continua come prima? Si va al ristorante come prima? Come prima si va al cinema, a ballare, allo stadio, ai concerti…e in tutti quei luoghi, che adesso bisognerebbe evitare per problemi di “assembramento”? Come se nulla fosse successo?
Quando ci ritroveremo insieme, con o senza mascherina, di sicuro avremo soprattutto voglia di raccontarci questa condizione, che abbiamo vissuto così a lungo, così soli; senz’altro ci confronteremo sulle sensazioni ed emozioni che abbiamo provato; discuteremo di cosa è giusto ed è sbagliato, di cosa è stato fatto bene e di ciò che, a nostro giudizio, si poteva far meglio. Forse litigheremo e comunque avremo senza dubbio un argomento dominante in comune: il virus che ci ha colpito.
Lo so, avremo anche voglia di distrarci, di leggerezza, di serenità. E so perfettamente che la ricca economia del calcio non può essere avvicinata a quella più umile del Teatro, ma cosa offriremo al pubblico?
Distrazione? Leggerezza? Serenità? Saremo capaci di riproporre, come se nulla fosse accaduto, una rielaborazione shakespeariana o un nuovo testo Covid19 cinicamente ben confezionato?
Leggo di continui appelli affinché il teatro non muoia, di “lavoratori dello spettacolo” in grande difficoltà, della problematica economica del settore, che effettivamente è, e sarà, enorme. Siamo tutti d’accordo che si dovrà trovare un modo di sostenere il settore.
Ma nello stesso settore, purtroppo non scorgo quella profonda interrogazione, presente nelle parole di quell’allenatore che, invece, ci ricorda semplicemente i sentimenti fondamentali di una collettività.
Apparteniamo a questa comunità comunale, provinciale, regionale, nazionale, europea, internazionale, mondiale?
Se sì, perché non percepiamo violentemente questo “arresto” imposto dalla Natura? Perché si corre per riprendere a qualsiasi costo, subito? Anche quelle attività che, seppur considerate importanti per la Società, dovrebbero davvero fermarsi per riconsiderare il loro ruolo e l’energia creativa che le fonda?
Come potremmo re-incontrare il pubblico e riprendere senza quella fascia nera che, ancor oggi, si mette al braccio per dichiarare un lutto?
Invece sento solo parlare di problemi economici, che sono drammatici e di certo non sottovaluto, ma non posso accettare che il mondo del Teatro, di cui faccio parte da quasi cinquant’anni, non reagisca alle banalità imperanti della comunicazione globale, senza almeno interrogarsi sull’opportunità di “ripartire subito” e soprattutto sulla disponibilità del pubblico dopo una tale ondata emotiva.
Non ho soluzioni, né proposte da fare, ma poiché da due mesi osservo e ascolto la natura che, senza sosta parla, e poiché sento prepotentemente il suo richiamarci all’essenziale, avrei voglia di ricordare a tutti noi del Teatro che, se vogliamo essere lo specchio ( deformante o/e deformato) della Società e della Storia, non possiamo sorvolare su questo tempo che ci è dato, spartiacque doloroso ma ineluttabile, ma piuttosto attendere, e modellare fiduciosi, quel “mondo nuovo” che si sta manifestando davanti ai nostri occhi.
Oltre al pubblico, anche noi abbiamo diritto al lutto e al dolore.
Noi che, come tutti, abbiamo assistito, impotenti, a sfilate di carri funebri, a visi deformati dal pianto, al disorientamento di bambini, giovani, adulti e vecchi, ma anche a serietà, professionalità, solidarietà e generosità inaspettate.
Il Teatro che seguirà conterrà tutto il bene e il male di questa esperienza epocale.
Ma solo se si sarà capaci di ascoltare, con pazienza e umiltà, la voce di un mondo che ci ha lasciato.