Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

La temperatura dell’epidemia è tornata leggermente a salire dopo giorni di stagnazione. Il termometro segna oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 3 agosto) 1.6 gradi pseudo-Kelvin ed è in aumento di 0.1 grado.

Questo risultato si deve al lieve aumento dei decessi e degli ingressi ospedalieri stimati. Sono invece rimasti stabili i nuovi contagi.

La variazione settimanale della temperatura è di +0.1 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 2 agosto), la temperatura dell’epidemia è rimasta invariata a 1.5 gradi pseudo-Kelvin, confermando una fase di sostanziale stagnazione che perdura ormai da più di una settimana.

Alla base di questo ristagno vi è la stabilità di tutte e tre le componenti che concorrono al calcolo dell’indice (decessi, ingressi ospedalieri e nuovi contagi).

La variazione settimanale della temperatura è di -0.1 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

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Riportiamo qui di seguito la temperatura di sabato 1 agosto.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Migranti, i soliti due errori

A dispetto dei raduni negazionisti, ultimo in ordine di tempo quello avvenuto in Senato pochi giorni fa, sono sempre meno numerose le persone che credono che l’epidemia sia un ricordo del passato, e che la situazione sia “sotto controllo”. E hanno perfettamente ragione. La curva dei contagi ha dato segni di peggioramento già a metà giugno, e settimana dopo settimana continua a darne, come da un po’ di tempo riconoscono le stesse autorità sanitarie, preoccupate che – all’improvviso – la situazione possa sfuggire di mano. Né le cose vanno meglio sul fronte ospedaliero, dove, quatti i quatti, da una settimana gli ingressi di nuovi pazienti sono tornati a superare il numero dei morti e dei dimessi.

La ragione per cui le cose non sono ancora precipitate non è, però, il buon comportamento degli italiani. La ragione vera, a mio parere, è che, in questo momento, mancano i tre propellenti fondamentali della diffusione del virus: la stagione fredda (con il suo corredo di nebbia, umidità e smog), la vita al chiuso, ma soprattutto una base di soggetti contagiosi sufficientemente ampia. Ho provato a fare una stima del numero di soggetti contagiosi nel mese di luglio e a confrontarla con quella di fine febbraio, quando l’epidemia partì senza che nessuno si fosse accorto di quel che stava accadendo. Ebbene, il confronto è impressionante: il numero di persone contagiose era, allora, circa 100 volte quello attuale (se volete gli ordini di grandezza: circa 20 mila persone a luglio, circa 2 milioni di persone a fine febbraio).

In concreto, questo significa che a febbraio, in media, incontravamo una persona contagiosa ogni 30, oggi ne incontriamo una ogni 3000. E’ questo, innanzitutto, che ci protegge, non la nostra autodisciplina.

Ma se questa, a grandi linee, è la situazione, allora il problema è di evitare che si ripeta quel che avvenne allora: e cioè che il virus circoli a lungo sottotraccia, senza che ci accorgiamo che il numero di contagiati sta crescendo vertiginosamente, salvo poi – d’improvviso – ritrovarci con gli ospedali ingorgati e le terapie intensive piene. E’ questo lo scenario verso cui ci stiamo avviando?

Per certi versi no, perché i sistemi di allerta sono oggi molto più funzionanti di 6 mesi fa, e quasi sicuramente – se le cose dovessero volgere al peggio – ce ne accorgeremmo intorno a quota 100 o 200 mila, non intorno a quota 1 o 2 milioni di infetti. Ma il punto è che sarebbe comunque troppo tardi, perché una base di 200 mila persone contagiose, in regime di relativo rilassamento, ci mette pochissimo a propagarsi e moltiplicarsi, rendendo la situazione di nuovo incontrollabile.

La domanda quindi diventa un’altra: stiamo facendo tutto il possibile per evitare che la situazione sfugga di mano?

Qui la risposta è risolutamente no. Non solo non stiamo facendo quel che occorrerebbe per limitare i rischi, ma stiamo ripetendo alcuni degli errori che abbiamo già commesso a febbraio, all’inizio dell’epidemia.

Allora commettemmo due errori fatali, che costarono migliaia di morti in più.

Il primo fu di minimizzare la gravità della situazione, e mettere il freno ai tamponi, per non danneggiare il turismo. Ve lo ricordate Luigi Di Maio che, in piena emergenza sanitaria, dichiara che “l’Italia è un paese sicuro”, e che il problema riguarda solo lo 0.1% dei comuni italiani? E Walter Ricciardi, fresco di nomina a consigliere del ministro della sanità, che critica il Veneto per i troppi tamponi, e pare preoccuparsi solo dell’immagine dell’Italia all’estero?

Il secondo errore fu di non bloccare i voli indiretti dalla Cina, e persino di incoraggiare i contatti con la comunità cinese (scuole e ristoranti), il tutto in ossequio al sacro terrore di apparire razzisti, discriminatori, o politicamente scorretti.

Ebbene oggi stiamo ripetendo, pari pari, quei due medesimi errori. Per salvare la stagione turistica, abbiamo riaperto i voli alla maggior parte dei paesi ricchi, compresi quelli più pericolosi non solo e non tanto per la diffusione del virus ma per la massa di persone intenzionate a trascorrere le vacanze in Italia. Avessimo tenuto conto del potenziale di ingressi di persone contagiose di ogni paese, avremmo dovuto mettere al primo posto della black list gli Stati Uniti, ma anche Regno Unito, Svizzera, Francia, Germania, Russia, Belgio, Israele, solo per citare alcuni dei paesi per noi più pericolosi.

E poi c’è il secondo, clamoroso, errore: gestire un’epidemia, ossia un problema sanitario, facendosi guidare dalle preoccupazioni ideologiche anziché dell’imperativo di tutelare la salute dei cittadini. Lo abbiamo commesso con la Cina a febbraio, lo ripetiamo oggi con i migranti in generale, e con gli sbarchi dall’Africa in particolare.

Non voglio qui ricordare, uno per uno, i focolai che negli ultimi 30 giorni sono scoppiati in varie comunità straniere, né riportare una per una le cifre, impressionati, della percentuale di positivi fra i migranti sbarcati dall’Africa. Mi limito a un’osservazione statistica: abbiamo (giustamente) introdotto l’obbligo di quarantena per gli ingressi dalla Romania, il cui numero di infetti è 15 volte quello dell’Italia, ma sembriamo ignorare che la percentuale media di positivi fra gli sbarcati (nei casi in cui sono stati effettuati e comunicati i risultati dei test), è del 19.1%, tra 50 e 100 volte quella di chi proviene dalla Romania. Per non parlare della politica verso la Tunisia, arditamente inclusa fra i paesi extra-Ue ed extra-Schengen da cui si può arrivare senza troppi vincoli, pur sapendo che è il paese che più di tutti alimenta gli sbarchi irregolari in Italia.

Ora che la frittata è fatta, il ministro dell’Interno Lamorgese dichiara “inaccettabili tutti questi sbarchi”, come se non vedesse il nesso fra la politica di apertura e di accoglienza fin da subito proclamata dal suo governo, e l’aumento degli sbarchi, quasi quadruplicati rispetto ai tempi di Salvini, e ora infinitamente più preoccupanti per i rischi sanitari che comportano.

Ma facciamocene una ragione. La priorità degli attuali governanti non è risolvere il problema dei flussi migratori, ma è marcare la discontinuità con il governo precedente, ripristinando la politica dell’accoglienza, cancellando i decreti sicurezza, mandando a processo chi li aveva concepiti. Che tutto ciò possa avere un prezzo, in termini di salute pubblica, di coesione sociale, se non di democrazia (come temeva Marco Minniti), a loro non sembra importare molto.

Speriamo solo che, a pagare il conto finale, non siano chiamati i cittadini italiani, quando l’epidemia dovesse rialzare la testa.

Pubblicato su Il Messaggero del 1 agosto 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Il termometro dell’epidemia continua a rimanere stabile a 1.5 gradi pseudo-Kelvin (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 31 luglio).

Il leggero calo degli ingressi ospedalieri stimati è stato neutralizzato dal cattivo andamento dei nuovi contagi, in leggera crescita per il secondo giorno consecutivo. Sono rimasti sostanzialmente stabili i decessi.

La temperatura è rimasta invariata anche rispetto alla settimana scorsa.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Come procede l’epidemia negli altri paesi?

Il 27 luglio scorso l’OMS, certificando 16 milioni di contagi e oltre 640 mila decessi nel mondo, ha lanciato l’allarme per un’accelerazione dell’epidemia rilevando come, nelle ultime 6 settimane, il numero totale di casi positivi sia quasi raddoppiato.

I grafici che seguono ci aiutano a capire in quali paesi l’epidemia sta avanzando e in quali invece risulta per ora sotto controllo. La valutazione della diffusione del virus si basa sull’andamento dei nuovi casi settimanali per abitante registrato in 49 paesi avanzati o relativamente avanzati in base alle informazioni disponibili il 29 luglio.

Come si vede, sono almeno 17 (su 49) i paesi in cui si possono osservare segnali preoccupanti. Di questi, 8 presentano una curva epidemica con una chiara tendenza all’aumento. Nella maggior parte dei casi si tratta di paesi dell’Est-Europa (Romania, Serbia, Albania e Kossovo) cui si aggiungono due paesi dell’America centro-meridionale (Brasile e Messico). Ma fra i paesi a rischio ritroviamo anche Belgio e Spagna.

In altri 6 paesi (Bulgaria, Israele, Lussemburgo, Bosnia Erzegovina, Stati Uniti e Macedonia) il trend è in crescita, anche se negli ultimi giorni l’epidemia sembra aver rallentato la sua corsa.

Vi sono poi Ucraina, Moldova e Repubblica Ceca. Qui la curva, dopo aver oscillato, ha ripreso a puntare leggermente verso l’alto.

Oltre a queste 17 zone critiche vi sono 6 paesi (Australia, Austria, Paesi Bassi, Canada, Svizzera e Giappone) in cui è possibile intravedere una leggerissima tendenza all’aumento.

Accanto a questi 17+6 paesi ve ne sono altri (Germania, Polonia, Regno Unito, Turchia, Danimarca e Slovenia) in cui i segnali sono meno chiari. Si può però osservare come il procedere dell’epidemia non converga ancora verso il basso.

Segnali positivi arrivano invece da 7 paesi (Croazia, Montenegro, Russia, Svezia, Portogallo, Cile e Armenia): qui la curva epidemica ha iniziato a tendere verso il basso, anche se il numero di nuovi contagi continua a rimanere, nella maggior parete dei casi, ancora alto.

Vi sono infine 13 paesi in cui il numero di nuovi casi settimanali per abitante risulta relativamente contenuto. L’Italia, con circa 3 nuovi contagi per 100mila abitanti, fa parte di questo gruppo.

Un altro modo per capire come sta procedendo l’epidemia è quello di valutare la capacità diagnostica di ogni paese. Un indicatore utile a tale scopo è il numero di nuovi decessi in rapporto ai contagi avvenuti 2-3 settimane prima. Più un paese si dimostrerà in grado di identificare in maniera accurata i soggetti affetti dal virus, minore sarà la letalità apparente (morti su positivi diagnosticati) registrata nel paese.

Naturalmente questo dato ci può fornire solo un’indicazione generale delle reali capacità di diagnosi. L’indicatore potrebbe infatti risentire di due fattori che variano da paese a paese: a) il tasso di mortalità effettiva che potrebbe essere più alto di quello registro dalle fonti sanitarie e b) la pressione sulle strutture sanitarie che potrebbe essere eccessivamente elevata nella fase critica dell’epidemia incidendo negativamente sulla capacità di intervento.

Il risultato di questa analisi è sintetizzato nell’istogramma che segue. Come si vede, solo 7 paesi (fra cui Regno Unito e Irlanda) presentano una letalità apparente (indicativa di una incapacità diagnostica) superiore a quella dell’Italia.

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Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi provengono dal database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 29 luglio.

I dati della Spagna devono essere interpretati cautela perché presentano interruzioni di serie: i primi giorni di giugno le autorità spagnole hanno sospeso l’aggiornamento delle serie per effettuare un ricalcolo della mortalità. In più, nel mese di luglio, il numero dei nuovi contagi non è stato aggiornato quotidianamente.