L’economia risarcitoria

Lo so che è doloroso, lo so che preferiremmo tutti non doverci pensare. Ma bisognerà pure, a un certo punto, dirci qualcosa di realistico sull’economia italiana.

Di quanto sarà la contrazione del Pil 2020 in Italia e negli altri paesi avanzati? In quanti anni torneremo ai livelli del 2019? E quanti ne occorreranno per tornare ai livelli del 2007, prima della grande recessione? Quanti posti di lavoro verranno bruciati? Come faremo a ripagare l’enorme debito aggiuntivo che stiamo contraendo con l’Unione europea e con i mercati finanziari?

A giudicare dal dibattito politico in corso, non parrebbe che i nostri governanti se ne curino troppo. Eppure il nostro futuro non dipenderà dall’esito del referendum, né da chi vincerà le elezioni regionali, né dai banchi a rotelle della Azzolina, né da quanti migranti sbarcheranno sulle nostre coste prima che i mari agitati dell’inverno mettano tutti d’accordo. Con ogni probabilità, il nostro futuro dipenderà da due cose soltanto: il successo o insuccesso della scienza nella lotta al coronavirus (vaccino e cure), e la saggezza o stoltezza delle scelte economico-sociali dei nostri governanti.

Sul primo punto, quello della scienza, siamo nel buio più totale. Potrebbe andare bene, ma anche malissimo. Nessuno lo sa, e nessuno può saperlo.

Sul secondo punto, le scelte dei politici, invece qualcosa lo sappiamo. Sappiamo, ad esempio, che finora il partito dell’economia (riaprire prima possibile e convivere con il virus) è prevalso su quello della prudenza (mantenere e far rispettare le misure più severe, come il distanziamento, le mascherine, il divieto di assembramento). Quel che non tutti hanno ancora capito, invece, è quali siano i costi del prevalere del partito delle “riaperture” e delle “ripartenze”. Un costo certo e facilmente prevedibile (e di fatto previsto da molti) è l’impossibilità di riaprire le scuole in sicurezza. Quando si è deciso di tenere aperte le discoteche e chiudere un occhio sugli assembramenti (movida e mezzi pubblici) si è anche scelto, al tempo stesso, di sacrificare la riapertura in sicurezza delle scuole (che non generano Pil) all’imperativo di sostenere l’industria delle vacanze e del divertimento (che un po’ di Pil lo genera). E’ inutile negarlo, o arrampicarsi sugli specchi: questo governo la sicurezza delle scuole non l’ha mai messa al primo posto, altrimenti avrebbe dato ascolto a quanti, anche nel Comitato Tecnico-Scientifico, avvertivano dei rischi.

Se il costo sociale e sanitario della incauta riapertura estiva è evidente, più controverso è un secondo costo, questa volta genuinamente economico. E’ certo che la linea permissiva su viaggi, spiagge, discoteche, movide, vaporetti, autobus, treni, ha generato benefici economici, o se preferite ha contribuito a contenere i danni. Ma non è affatto certo che tali benefici siano maggiori dei danni che, nei prossimi mesi, inevitabilmente deriveranno all’economia dalla moltiplicazione dei focolai e da nuovi lockdown. Se i costi autunnali (nuovi focolai) dovessero risultare superiori ai benefici estivi (più turismo), al danno inferto alla scuola si aggiungerebbe la beffa di aver danneggiato pure l’economia.

Ma torniamo alle domande sull’economia. Le stime più recenti assegnano all’Italia l’ultimo posto nella graduatoria del Pil 2020, con una caduta che potrebbe risultare più vicina al 15% che al 10%. Quanto al futuro, neppure per l’Europa nel suo insieme si attende un ritorno ai livelli del 2019 prima del 2023.

E per l’Italia che cosa è ragionevole attendersi?

Difficile dire che cosa succederà a noi, perché molto dipenderà dall’esito della guerra al virus. Però non è difficile immaginare che cosa faranno loro, i nostri governanti. Lo scenario più verosimile è che continuino sulla linea seguita fin qui, che ha avuto il dono della coerenza, sia sul piano dei provvedimenti economico-sociali che su quello della filosofia che li sorregge.

La logica dei provvedimenti è stata chiara. Distribuire soldi a pioggia (e con ritardo), più per sostenere i consumi che per tutelare i produttori di reddito. Agire come se le risorse che l’Europa e i mercati finanziari ci hanno permesso di spendere fossero a fondo perduto, anziché prestiti da restituire. Congelare tutto con la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti, per spostare il più avanti possibile nel tempo (e comunque dopo le elezioni di settembre-ottobre) il momento della resa dei conti, quando tutti potranno vedere a occhio nudo le macerie, fatte di chiusure, fallimenti e posti di lavoro distrutti.

Si potrebbe riassumere tutto ciò con la consueta accusa di assistenzialismo, un male che ormai ha contagiato quasi tutta la politica. Ma sarebbe riduttivo e semplificatorio, a mio parere. Quello che è emerso, in questi mesi, è qualcosa di più radicale e più pericoloso. La filosofia che ha mosso la politica, e che ha catturato il consenso degli italiani, non è basata sulla vecchia (e nobile) idea che i più deboli debbano essere assistiti, sussidiati, aiutati. No, l’idea che si è imposta in questi mesi è che nessuno dovesse perdere alcunché, e che tutti avessero diritto a un risarcimento. Il sostengo indiscriminato ai redditi e ai consumi, dal bonus vacanze al super-bonus per le ristrutturazioni energetiche, dal bonus monopattino a quello per le partite Iva (intascato da alcuni parlamentari!), non poggiavano solo sulla credenza che il motore della ripresa non potessero che essere i consumi, ma anche su una sorta di dottrina o filosofia del risarcimento. Colpiti nei redditi e repressi nelle abitudini di vita, gli italiani sono stati ritenuti degni di risarcimento su tutta la linea. Così abbiamo sentito non solo promettere l’impossibile (“nessuno perderà il suo lavoro”), ma anche garantire diritti per così dire esistenziali, come quelli al divertimento e alle vacanze senza restrizioni, che i due mesi di lockdown hanno reso sacrosanti come altri e più antichi valori della nostra tradizione politica e civile.

Quel che è sfuggito, e tuttora sfugge ai cultori dell’economia del risarcimento, è la differenza tra un terremoto locale e una guerra. Quando c’è un terremoto, è logico e realistico che la comunità colpita chieda alla comunità più ampia di aiutarla, risarcendola più o meno integralmente delle perdite subite. La stessa logica, purtroppo, non si applica nel caso di una guerra, che produce perdite generalizzate che nessuno Stato centrale è in grado di ripianare. E infatti, in una guerra, nessuno pensa in termini di risarcimenti, o pretende che lo Stato ricostruisca celermente la sua abitazione distrutta da un bombardamento.

Ora, il punto cruciale è che quella contro il Covid è una guerra che stiamo perdendo, e che comunque – anche se domani dovessimo trovare un vaccino – ci lascerà tutti molto meno ricchi di prima. Quella italiana era, fino a ieri, una “società signorile di massa” in lento declino. Oggi è una società che, improvvisamente, si trova a non poter conservare il proprio tenore di vita passato, ma non ha alcuna intenzione di rinunciarvi e prendere atto del cambiamento, preferendo cullarsi nell’illusione che ogni cosa possa presto tornare come prima. La filosofia risarcitoria che tutto e tutti pervade ci sta conducendo a diventare una società parassita di massa, in cui allo Stato viene chiesto di sostenere il reddito di chi non produce nulla, ma non di ripagare i debiti che a questo scopo è costretto a fare.

Si potrebbe pensare che la colpa sia di questo governo, e che un governo diverso farebbe cose sostanzialmente diverse. Ma anche questa è un’illusione. L’opposizione politica è leggermente meno assistenzialista di chi ci governa, ma non è di un’altra pasta. Il copyright di “quota cento” è della Lega, e l’ossessione per la riapertura è ancor più forte fra gli esponenti dell’opposizione che fra quelli di governo.

La realtà è quella di sempre: gli italiani hanno la classe politica che si meritano. I politici fanno molti errori, che saranno evidenti fra vent’anni e nei libri di storia del futuro. Ma se sbagliano è, prima di tutto, perché inseguono le nostre illusioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 agosto 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 1° settembre) la temperatura dell’epidemia è tornata a salire, passando da 6.2 a 6.4 gradi pseudo-Kelvin (+0.2 gradi).

Questo aumento si deve soprattutto all’andamento degli ingressi ospedalieri stimati, saliti in modo più marcato rispetto ai giorni precedenti. Più lievi sono invece gli incrementi dei nuovi contagi e dei decessi.

Anche oggi, la variazione settimanale della temperatura è pari a +1.8 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Siamo un popolo che non perde la testa

Una grande potenza come la Cina scatena – non si sa se per colpa dei suoi laboratori di ricerca o per i mancati controlli dei mercati alimentari e dei macelli – la più grande pandemia che si ricordi dal tempo delle pestilenze medievali, per quanto terribili territorialmente limitate; mette in crisi l’economia planetaria, unendo i continenti in una comune tragedia; stravolge i modi di vivere di società che si sentivano sicure dai flagelli antichi, al riparo delle loro tecnologie. Eppure il grado di maturità degli italiani è così alto che non si sono avute recriminazioni incomposte, maledizioni da parte delle vittime del covid19, episodi razzisti. Nessun sit in dinanzi alle ambasciate cinesi, nessun assalto ai megastore che in certe città hanno cambiato il volto di vecchi quartieri, nessuna condanna, nessuna esecrazione degli eredi di Mao. Qualcuno ha fatto notare che un regime democratico non avrebbe tenuto nascosto un “incidente” mille volte più esiziale di Chernobyl e che i ritardi nel darne l’annuncio hanno comportato un costo specie per l’Occidente. Quasi nessuna accusa, però, si è levata contro la Cina: una terribile disgrazia può capitare a tutti. C’è persino qualche giornalista “liberale” che s’è affrettato a elogiare l’industria e la chimica cinese alla notizia che si stava preparando un vaccino antivirus da distribuire urbi et orbi senza ricavarne alcun vantaggio economico (come avrebbero fatto le potenze capitalistiche). Se la notizia fosse stata confermata, chissà, avremmo dovuto chiedere scusa al rosso-celeste Impero per aver parlato di ritardi nell’informazione. Questa è civiltà! E certo nulla sarebbe cambiato se la pandemia fosse venuta dagli Stati Uniti, dall’Ungheria, dal Brasile.. Comprensione, solidarietà, rassegnazione, in nome dell’ever green “legge del Menga”, sarebbero state riservate anche ai governi di Washington, di Budapest e di Brasilia. O sbaglio?




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Dopo gli aumenti degli ultimi giorni, la temperatura dell’epidemia (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 31 agosto) è rimasta invariata a 6.2 gradi pseudo-Kelvin.

Alla base di questo risultato vi è la sostanziale stabilità dei nuovi contagi e dei decessi. Diminuiscono leggermente gli ingressi ospedalieri stimati.

La variazione settimanale della temperatura è pari a +1.8 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Il partito della prudenza

Alla fine Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza (e rappresentante dell’Italia nell’OMS), si è lasciato scappare la verità: la riapertura delle scuole è a rischio, e le elezioni pure. Era un’ovvietà, lo sa chiunque segua i dati dell’epidemia. Ma lo hanno costretto a rimangiarsela: non si stava riferendo all’Italia, avevamo capito male. Il totem della riapertura non si può toccare.

In questi mesi il governo ha finto di puntare tutto sulla riapertura delle scuole. Ma la verità è che la priorità del governo non è mai stata la riapertura delle scuole. Se lo fosse stata avrebbe agito diversamente.

Ricapitoliamo. E’ da due mesi, non da pochi giorni, che i segnali di una ripresa dell’epidemia si moltiplicano. Per tutta risposta, il governo ha accuratamente evitato di imporre la chiusura delle discoteche, lasciando pilatescamente la patata bollente alle Regioni. E su tutti gli altri fronti si è mosso nella medesima direzione: chiudere un occhio su ogni infrazione delle regole, prima fra tutte il distanziamento, per non danneggiare il turismo; permettere che la gente (aiutata da esperti negazionisti o minimizzanti) si autoconvincesse che il peggio era passato, che il virus era in ritirata, e che le regole potevano essere violate impunemente.

Eppure l’evidenza scientifica (e sociologica) diceva tutt’altro. I più giovani si ammalano raramente e poco gravemente, ma sono un vettore formidabile del virus. Il contagio fra coetanei è inevitabile in qualsiasi situazione diversa dal lockdown. Se si vuole impedire che il contagio deflagri nelle scuole, mettendo a rischio innanzitutto la salute di insegnanti e familiari, la via maestra non sono i banchi a rotelle ma è portare il più possibile vicino a zero il numero di contagiati; approfittare dell’estate (alte temperature, poco smog, vita all’aperto) per appiattire ancora la curva epidemica, in modo che il primo giorno di scuola i ragazzi contagiosi siano il meno numerosi possibile.

Perché è vero che dobbiamo imparare a convivere con il virus, è vero che non siamo ancora nelle condizioni di azzerare i contagi, ma è completamente diverso combattere il virus quando i contagiati sono uno ogni 10 mila, uno ogni mille, o uno ogni cento. Fino a un paio di mesi fa eravamo vicini alla prima soglia (1 su 10 mila), ora abbiamo superato la seconda (1 su 1000), e stiamo puntando a vele spiegate verso la terza (1 su 100). E’ una situazione pericolosissima, che molto somiglia a quella di febbraio. Come ha recentemente osservato l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, il problema è che – lasciando correre il virus come finora si è fatto – si stanno creando le condizioni per “l’innesco di una seconda ondata. Lo stesso innesco che a febbraio, semplicemente, non abbiamo rilevato e che poi ha provocato la grande ondata”.

Non sono considerazioni nuove. Sono il nucleo della “dottrina Crisanti”, più volte enunciata pubblicamente da lui stesso, e sottoscritta da una piccola minoranza di istituzioni, studiosi, operatori dell’informazione, preoccupati dell’imprudenza del governo centrale e di non pochi governatori delle Regioni.

Ora, però, siamo a 6 mesi esatti dallo scoppio dell’epidemia (Codogno, era il 21 febbraio), e il “partito della prudenza” è chiaramente e inequivocabilmente sconfitto. Inutile nasconderlo, inutile insistere con i numeri e con le analisi. Persa la battaglia in favore di un vero contrasto dell’epidemia, è forse giunto il momento di capire perché abbiamo perso. O meglio: perché abbiamo perso in modo così rovinoso e totale, perché mai non siamo riusciti a vincere nemmeno una delle nostre battaglie.

Sconfitta (a febbraio) la linea della prudenza verso i cinesi e i voli (diretti e indiretti) dalla Cina. Persa la battaglia contro la campagna “Milano non si ferma”. Sconfitta l’idea di fermarsi subito, ai tempi delle mancate chiusure di Nembro e Alzano. Ignorati (una prima volta a marzo e una seconda a maggio) gli appelli per i tamponi di massa. Snobbate, ai primi di giugno, le analisi che indicavano che alcune regioni del Nord non erano pronte per la riapertura. Recepita con mesi di ritardo la proposta di un’indagine sierologica nazionale. Completamente disattesa la richiesta, non solo nostra ma di tutta l’opinione pubblica, di indicazioni chiare e ragionevolmente stabili su mascherine, distanziamento, assembramenti. Indifferenza alle proteste per le incredibili incongruenze delle norme sul distanziamento (rigorosamente distanziati a teatro, nei musei, sui Freccia Rossa; appiccicati come sardine sui bus, sui treni ordinari, sui vaporetti, sugli aerei). Incomprensibile sordità agli inviti a tenere chiuse le discoteche, nonché alle denunce sulla violazione delle regole nei luoghi della movida e del divertimento. Snobbata ogni critica sulla disastrosa gestione degli sbarchi. Demonizzata ogni idea di limitazione e regolazione dei flussi turistici (un errore che la Sardegna sta pagando a caro prezzo proprio in questi giorni). Del tutto ignorate le richieste degli studiosi di accedere ai dati analitici dell’epidemia.

E’ solo un piccolo campionario della guerra che abbiamo rovinosamente perso. Dunque, veniamo al punto: perché il “partito della prudenza” ha perso tutte le sue battaglie?

Io credo che la risposta, se vogliamo andare subito al succo, sia essenzialmente una: la stella polare della politica, di tutta la politica (non solo del governo), è solo il consenso di breve, brevissimo periodo. Non c’è altro, nelle scelte che fanno i nostri politici, anche se c’è molto altro nelle chiacchiere con cui le accompagnano. Se governo e Regioni avessero agito con maggiore prudenza avrebbero avuto contro almeno tre poteri fondamentali: il mondo dell’economia, interessato alla riapertura persino quando (fine febbraio) era palesemente una follia; l’opinione pubblica, assetata di risarcimenti economici (sussidi) ed esistenziali (vacanze senza restrizioni) dopo il lockdown; l’opposizione politica, schierata dal lato della ripartenza ancora più accanitamente del governo.

Certo, è stato il governo a non avere il coraggio di tenere chiuse le discoteche, e a perseverare in quell’errore nei giorni (Ferragosto) in cui tutti avevano capito che era un errore fatale. Ma non si può dimenticare che, di fronte a una scelta così irresponsabile, Salvini non trovava di meglio che dichiarare: “L’unico problema legato al virus non sono i ragazzi che ballano ma quelli che sbarcano”. Difficile pensare che un governo imprudente possa cambiare rotta se il maggiore partito di opposizione è su una linea ancora meno prudente.

Lo stesso discorso vale per gli altri attori in campo. Se la gente non ha capito quanto erano pericolosi i comportamenti di cui ora constatiamo le conseguenze, è perché il governo, dopo il lockdown (e in particolare dopo la chiusura delle scuole e l’inizio delle vacanze), non ha mai veramente provato a far rispettare le regole. Ma è altrettanto vero che se ci avesse provato, come era suo preciso dovere, avrebbe perso molto del consenso accumulato nei mesi precedenti. Gli attori economici si sarebbero ribellati, le famiglie e i giovani si sarebbero sentiti ingiustamente deprivati dei loro sacrosanti, inalienabili, diritti a vacanze, spiagge, divertimento, movida ecc. (resta naturalmente da vedere se il calcolo del governo non sia stato miope: se le scuole riaprissero a singhiozzo, se dovessimo essere costretti a un nuovo lockdown, se i nuovi danni all’economia risultassero superiori ai vecchi benefici dell’apertura precoce, la gente si arrabbierebbe molto).

E’ questa la logica di quel che è successo. E’ per questo che noi “prudenti” abbiamo perso tutte le nostre battaglie. Siamo stati ingenui, ora non ci resta che sperare di aver avuto torto, e che a settembre si verifichi il miracolo: le scuole riaprono, le elezioni hanno luogo in sicurezza, gli oltre 1000 focolai attuali diminuiscono drasticamente di numero, ci sono abbastanza tamponi per tutti i bambini e i ragazzi messi in isolamento, pochi insegnanti si ammalano, nessuno di loro muore, la stagione fredda e lo smog della pianura padana non alimentano una seconda ondata, l’economia riprende vigore, gli ospedali si svuotano, non ci sono nuovi lockdown.

E’ un atto di fede, ma è tutto quel che ci resta.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 agosto 2020