Del Covid, in questi lunghi mesi, si è parlato quasi sempre da due angolature: come minaccia alla salute, e come minaccia all’economia. Meno spazio ha avuto un terzo possibile punto di vista, quello degli effetti sul modo di funzionare delle nostre menti. Eppure è quest’ultimo, probabilmente, il terreno su cui stanno avvenendo i cambiamenti più radicali. Forse non amiamo parlarne perché questi cambiamenti non ci piacciono, o ci fanno soffrire, o aumentano il nostro disorientamento e la nostra angoscia.
Il cambiamento più evidente, probabilmente, è l’aumento dell’incertezza. Che non significa semplicemente che non sappiamo come sarà il mondo fra un anno, e nemmeno fra un mese, ma che viviamo in uno stato di sospensione perenne, senza fine. Rimandiamo ogni decisione, non siamo più capaci di pianificare nulla, né progettare le nostre vite. Il Covid ci paralizza esistenzialmente. Ma forse sarebbe più esatto dire: il Covid paralizza gli italiani, forse gli europei. Non gli americani: le notizie che provengono da New York, che descrivono una città che si sta svuotando e una popolazione in fuga verso siti più periferici, mostrano che la paralisi non è l’unica reazione possibile. Forse perché molto più abituati di noi ai cambiamenti – cambiare lavoro, cambiare città, cambiare stato – gli americani sembrano aver deciso che il mondo non tornerà come prima, e il momento di cambiare abitudini e modi di vita è adesso, non chissà quando nel futuro. La società americana è elastica, forse anche per questo lì il contraccolpo economico del Covid – nonostante la catastrofe sanitaria (grave quasi come la nostra) – potrebbe risultare meno drammatico che in Europa. Per il 2020 l’Ocse prevede un tracollo del Pil di Italia, Regno Unito, Francia e Spagna compreso fra l’11 e il 15%, mentre per gli Stati Uniti prevede un calo del 7-8%, poco più della metà.
Non è solo la difficoltà di progettare il futuro, però. Il Covid sta portando nelle nostre vite cambiamenti più sottili, ma potenzialmente ancora più distruttivi. Il più importante, a mio parere, è uno stato generalizzato di anarchia mentale, un fenomeno che mi è più facile spiegare con esempi che con un discorso astratto.
Prendiamo un invito a cena. In condizioni normali lo accetti, se ti piacciono le persone che incontrerai. Ma in condizioni Covid, specie se si sono superati i 50 anni, può succedere di chiedersi: quante persone ci saranno? si mangia all’aperto o al chiuso? il pranzo è in piedi, o saremo tutti seduti a tavola? e in questo secondo caso, a che distanza ci metteranno? chi sono gli invitati? sono persone prudenti e isolate, o sono persone che, per lavoro o per svago, hanno centinaia di contatti? potendo scegliere il posto a tavola, è più rischioso sedere fra X e Y o fra Z e W?
Ovviamente sono tutte domande che, di norma, nessuno osa rivolgere esplicitamente ai suoi interlocutori. Però non vuol dire che non ce le facciamo. O che alcuni di noi potrebbero farsele. O che potrebbero abitare le menti delle persone che incontriamo. Ed ecco la conseguenza: puoi essere più o meno ansioso, più o meno preoccupato, più o meno razionale, ma non puoi sfuggire al fatto che il mondo sociale in cui il Covid ti ha gettato è un mondo in cui non è irragionevole pensare che l’altro possa essere un pericolo per te e tu possa essere un pericolo per lui. Possiamo negarlo finché vogliamo, protestare che noi siamo superiori, che per noi tutto è come prima, ma la realtà è che in ciascuno la percezione degli altri è cambiata, tanto o poco, ma è cambiata. E vale anche per i negazionisti: loro possono credere quel che vogliono, ma non possono sfuggire al fatto che gli altri non la vedono come loro.
Quello descritto sarebbe già, di per sé, un mondo inquietante. Ma non è tutto. Nel mondo sociale che il Covid ci ha regalato le nostre menti non si trovano semplicemente a fare i conti con il trauma dell’altro come pericolo. Accanto a quel trauma, che costringe persino genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle a percepirsi come reciprocamente pericolosi, c’è un altro dramma: il sistematico disallineamento fra le soglie di rischio, ossia il fatto che molto raramente due persone hanno il medesimo grado di avversione al rischio, e ancora più raramente hanno le medesime idee su che cosa è veramente rischioso e che cosa non lo è. Può così capitare di essere considerati pavidi (o fobici), se l’interlocutore ha una avversione al rischio minore della nostra, e imprudenti (o incivili) se la sua avversione è maggiore. L’altro non è semplicemente percepito come un pericolo, ma come diverso e incompatibile con noi, perché non ha le nostre stesse sicurezze e paure.
Questa situazione in parte è normale. Le differenze di avversione al rischio ci sono sempre state, Covid o non Covid. Quel che è nuovo, e tutt’altro che normale, è che le soglie di rischio individuali siano del tutto disallineate. C’è chi pensa che il Covid sia un pericolo mortale, e chi pensa che sia poco più di un’influenza. C’è chi porta la mascherina anche all’aperto senza nessuno nelle vicinanze, e chi si ammassa su autobus e vaporetti, in strada, in discoteca. C’è chi pensa che la trasmissione del virus avvenga solo interagendo con altri, e chi teme la trasmissione attraverso le superfici, o attraverso l’aria. C’è chi smette di pensare che il Covid sia un pericolo, perché pensarlo gli rovinerebbe le vacanze, salvo poi tornare a temerlo quando prendere sul serio il Covid comporta solo la noia di sottoporsi a un tampone (è il caso dei giovani di ritorno da vacanze massificate).
La realtà, come ben sanno gli psicologi sociali dai tempi di Leon Festinger, inventore della “teoria della dissonanza cognitiva”, è che gli esseri umani funzionano come macchine di auto-rassicurazione. Mediamente, non pensano quel che l’evidenza empirica disponibile suggerisce, ma quello che li fa stare meglio, o li fa soffrire di meno, o mitiga la loro angoscia. La loro capacità di ignorare la realtà, o di autoingannarsi, non ha alcun riscontro nel mondo animale. E il Covid ha fornito una eccezionale occasione di esercitare questa loro capacità.
E’ un problema?
Sì, perché la vita sociale si regge su regole comuni e accettate, ma anche su schemi condivisi di percezione della realtà. Il regime di anarchia mentale innescato dal Covid è pericoloso per la coesione sociale perché nessun società può sopravvivere senza una descrizione delle cose minimale e comune. Ma è anche pericoloso per l’equilibrio psicologico del singolo, perché un mondo in cui ognuno vede quel che vuol vedere, senza riguardo a quel che vedono gli altri, è altamente ansiogeno, conflittuale, destabilizzante.
Si poteva evitare?
In parte no, perché la paura è uno stato d’animo con cui ognuno fa i conti o modo suo, in base alla sua personalità, alle sue esperienze, e anche ai propri interessi. Per un imprenditore, o per un lavoratore non garantito, prendere sul serio la paura può essere troppo costoso, perché fermarsi significa la rovina economica. Per un pensionato, un dipendente pubblico, o un operaio tutelato dalle organizzazioni sindacali, la paura è meno costosa, perché il suo reddito non è a rischio (per ora).
In parte però sì, l’anarchia mentale e i suoi danni si potevano evitare, almeno un po’. Non era impossibile, volendo, arrivare a un minimo di regole e di standard di prudenza condivisi. Bastava non dire prima che le mascherine e i tamponi non servivano, e poi che erano assolutamente necessari. Bastava non stabilire regole illogiche e incoerenti (distanziamento sui Freccia rossa, ammucchiate sugli altri mezzi di pubblici). Bastava far rispettare le regole che si enunciavano, senza chiudere un occhio sulle violazioni (movida, assembramenti). Bastava essere netti e chiari sulle discoteche, anziché pilatescamente scaricare ogni responsabilità sui Governatori delle regioni. Bastava che gli scienziati e gli esperti veicolassero un messaggio sostanzialmente coerente e ragionevole, anziché dividersi nei programmi televisivi in cerca di attimi di celebrità. Se ognuno può permettersi di percepire la realtà in modo del tutto personale, e privo di agganci obiettivi, è perché in questi mesi il racconto pubblico è stato dissonante e cacofonico.
L’anarchia mentale che ci attanaglia è certamente, innanzitutto, figlia della filogenesi, ovvero di ciò che siamo diventati come membri della specie umana. Ma è anche, in qualche misura, figlia della classe dirigente che ci ritroviamo: incapace di parlare con una voce sola, e proprio per questo destituita di ogni autorevolezza.
Pubblicato su Il Messaggero del 5 settembre 2020