Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 dell’8 settembre) la temperatura dell’epidemia è aumentata di 0.2 gradi, passando da 7.2 a 7.4 gradi pseudo-Kelvin.

L’aumento della temperatura si deve essenzialmente alla crescita dei nuovi contagi. Sono invece leggermente diminuiti gli ingressi ospedalieri stimati, mentre i decessi sono rimasti sostanzialmente stabili.

Come ieri, la variazione settimanale della temperatura è pari a +1.0 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 7 settembre) la temperatura dell’epidemia è aumentata, passando da 7.0 a 7.2 gradi pseudo-Kelvin (+0.2).

Questo peggioramento è il risultato del cattivo andamento di tutti e tre gli indicatori che contribuiscono al calcolo dell’indice: aumentano i decessi, gli ingressi ospedalieri stimati e soprattutto i nuovi contagi.

La variazione settimanale della temperatura è pari a +1.0 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




La ruota e il ruotino. Perché la didattica a distanza non è la soluzione

Avete presente quando bucate una gomma? Questo è quello che facciamo: imprechiamo, montiamo la ruota di scorta, e ci premuriamo di sostituirla con una ruota della misura giusta appena possibile. Tutti e tre questi passaggi sono fondamentali.

Credo sia successo esattamente questo quando il Covid ci ha costretti ad abbandonare le lezioni in presenza: abbiamo forato e, con prontezza, abbiamo montato il ruotino, ovvero siamo passati alle lezioni online. Era la cosa giusta da fare, meno male che ce l’avevamo, la ruota di scorta. Quello che voglio dire è solo questo: le lezioni online non sono niente di più che una ruota di scorta, da sostituire al più presto con una ruota vera. Per favore, non affezioniamoci al ruotino!

Ci tengo a sottolineare che l’imprecazione è fondamentale, ma su questo punto tornerò alla fine.

Parlerò solo di quello che vedo coi miei occhi, e cioè le lezioni universitarie della disciplina che mi dà da vivere, ovvero la matematica. Il principio si applica in generale, anche a lezioni non universitarie. L’unica cosa che dovete sapere sul mestiere del matematico è questa: per comunicare con un suo simile, al matematico lavagna e gesso sono più che sufficienti.

Partiamo dal presente, cioè le lezioni online. Premetto una cosa: durante il lockdown ho comprato un tablet, ci ho messo mezzora a imparare a usarlo e l’ho sfruttato diverse volte per fare seminari, di ricerca e non, che normalmente avrei fatto alla lavagna. Non è solo divertente e facile da usare, è uno strumento eccellente. Ma, appunto, mi fermo qui: è uno strumento. Non può sostituire lavagna e gesso, e voglio spiegare perché.

Com’è una lezione online? Si sceglie una piattaforma in rete a cui collegarsi, per esempio Zoom, e una volta arrivati tutti gli interessati il docente inizia a condividere lo schermo, che sostituisce la lavagna. A questo punto, ci sono diverse modalità possibili (riporto solo le più efficaci tra tutte): il docente può scrivere sul tablet in tempo reale, di solito copiando la lezione preparata in anticipo su dei fogli, e gli studenti vedono il testo apparire sul proprio schermo, proprio come alla lavagna; oppure, può decidere di mostrare delle slide preparate in anticipo. I partecipanti, fin da subito, chiudono il microfono e il video, così da migliorare la connessione e non disturbare la lezione: sono muti e invisibili. Il docente parla per un’ora o due da solo nel salotto di casa sua, e gli studenti ascoltano da casa propria. Se vogliono, alla fine fanno domande. E questo è quanto.

Invece prima era così: lo racconto in prima persona. Entro in aula con due gessetti, nient’altro. Un numero più o meno grande di studenti si sono svegliati quel giorno e sono entrati in università nella speranza di imparare cose nuove guardando quello che succede alla lavagna. Voglio enfatizzare che la matematica, come molte altre discipline, si impara soprattutto parlando con le persone: i libri sono fondamentali, ma difficili da interiorizzare. A volte cinque minuti spesi alla lavagna con qualcuno che ci spiega qualcosa, anche da studente a studente, valgono molto di più di due ore passate su un libro.

Continuiamo: inizio a scrivere alla lavagna. Il gesso fa rumore. Scrivo lentamente, per non mettere ansia a nessuno: il rumore del gesso che batte freneticamente sulla lavagna potrebbe far scattare la preoccupazione di non saper stare al passo. Mi giro spesso a guardare le facce degli studenti: gli sto raccontando una storia, magari non è una storia facile e non sono di certo quello che la sa raccontare meglio, ma girandomi spesso per incontrare i loro sguardi capiscono che sono lì per loro, che sto facendo del mio meglio per passar loro qualcosa e che quel viaggio lo stiamo facendo insieme. Li guardo negli occhi. Così sanno che, se vogliono, possono interagire, fare domande. Avete mai fatto caso ai baristi, quando evitano il contatto visivo? E’ il loro modo di dirci che non hanno tempo per noi. Quindi, li guardo negli occhi. Mentre scrivo, non posso farlo. Ma posso ascoltare. Magari c’è silenzio, ma ci sono diversi tipi di silenzio: per esempio, quello che riflette la consapevolezza che si sta toccando un passaggio cruciale, o quello che mi dice che sono curiosi di vedere come finisce la storia. Significa che devo fare uno sforzo per mantenere quell’atmosfera fino alle fine del discorso.

E poi, arriva la cosa più importante: il brusio. Fondamentale, sentire il brusio. Significa che non sono stato efficace, che la cosa che ho appena detto avrei potuto dirla meglio. Torno indietro, mi ci soffermo, la dico in modo diverso, li riguardo negli occhi e all’istante ho la conferma che non sono stato abbastanza chiaro. Di solito, a quel punto parte una domanda.

Intervallo: siamo a metà lezione. Qualcuno si avvicina alla lavagna, fa una domanda troppo intricata da proporre durante la lezione, o magari mi chiede di rispiegare una cosa. Adesso siamo lì, alla lavagna, anche lo studente ha un gessetto in mano, possiamo scrivere entrambi e guardarci negli occhi, e la vicinanza fisica aiuta quella spirituale: sembra un’idiozia, ma mi ricordo bene che, da studente, le cose che imparavo meglio erano quelle che mi venivano spiegate da qualcuno che avevo la prova tangibile che fosse un essere umano, a pochi passi da me, mentre disegnava simboli alla lavagna che erano lì sopra, bianco su nero, proprio per me.

Non farò una comparazione tra le due descrizioni che ho dato, delle lezioni online e di quelle in presenza. Osservo semplicemente che nulla di quello che ho descritto della lezione in presenza si trova, o è in qualche modo recuperabile, nella lezione online.

Anche i seminari di ricerca si fanno online. Lì il clima è simile ma anche un po’ diverso, per esempio il pubblico non è formato da studenti ma da dottorandi, ricercatori: non si tiene una lezione ma si espongono i risultati delle proprie ricerche. Buttiamola sul ridere, per stemperare un po’: mi manca molto vedere il professore di turno addormentato in prima fila con la bocca aperta dopo dieci minuti che parlo, forse perché una pasta cacio e pepe prima del seminario non era una buona idea, oppure perché sono veramente noioso. In ogni caso, era bello da vedere. Potevo scegliere di fare una battuta, o direttamente dedurre che avrei potuto migliorare l’esposizione. Ma qualunque cosa scegliessi di fare, sapevo esattamente cosa stava succedendo attorno a me. Io stesso, assistendo a dei seminari online fatti da altri, mi sono alzato diverse volte dal divano (sì, li ascoltavo sul divano, e, per essere onesto fino in fondo, non sempre avevo i pantaloni) per prendermi una fetta al latte nel frigo. Le lezioni e i seminari fatti così assomigliano più a delle serie su Netflix, e la cosa mi spaventa proprio per lo smisurato successo di Netflix.

Infine, parliamo dell’imprecazione. Essa non scaturisce solo nel momento in cui foriamo: anche dopo che abbiamo montato il ruotino, ci accorgiamo che in curva la tenuta di strada è peggiorata, e siamo costretti ad andare a velocità ridotta, perché il veicolo è diventato d’un tratto meno sicuro. Voglio chiedere a tutti coloro che sono in posizione di imprecare, per favore di non smettere. Non abituiamoci al ruotino: non è uno strumento sicuro, e chi rischia di rimetterci sono i giovani, gli studenti che ci stiamo impegnando a formare ogni volta che entriamo in un’aula. Non permettiamo ai burocrati di pensare che, siccome la macchina continua ad andare avanti, va bene così e non dobbiamo passare dal gommista. La macchina va avanti solo perché il danno non era al motore, ma le ruote sono ugualmente importanti.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Dopo l’aumento registrato sabato, il termometro dell’epidemia (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 6 settembre) è diminuito, passando da 7.1 a 7.0 gradi pseudo-Kelvin. Il calo è stato però quasi impercettibile (inferiore al decimo di grado). La temperatura continua a rimanere ai livelli di metà giugno.

Questa lieve diminuzione è dovuta al leggero calo dei nuovi contagi. Sono invece rimasti sostanzialmente stabili i decessi e gli ingressi ospedalieri stimati.

La variazione settimanale della temperatura è pari a +0.8 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




La mente sotto il Covid

Del Covid, in questi lunghi mesi, si è parlato quasi sempre da due angolature: come minaccia alla salute, e come minaccia all’economia. Meno spazio ha avuto un terzo possibile punto di vista, quello degli effetti sul modo di funzionare delle nostre menti. Eppure è quest’ultimo, probabilmente, il terreno su cui stanno avvenendo i cambiamenti più radicali.  Forse non amiamo parlarne perché questi cambiamenti non ci piacciono, o ci fanno soffrire, o aumentano il nostro disorientamento e la nostra angoscia.

Il cambiamento più evidente, probabilmente, è l’aumento dell’incertezza. Che non significa semplicemente che non sappiamo come sarà il mondo fra un anno, e nemmeno fra un mese, ma che viviamo in uno stato di sospensione perenne, senza fine. Rimandiamo ogni decisione, non siamo più capaci di pianificare nulla, né progettare le nostre vite. Il Covid ci paralizza esistenzialmente. Ma forse sarebbe più esatto dire: il Covid paralizza gli italiani, forse gli europei. Non gli americani: le notizie che provengono da New York, che descrivono una città che si sta svuotando e una popolazione in fuga verso siti più periferici, mostrano che la paralisi non è l’unica reazione possibile. Forse perché molto più abituati di noi ai cambiamenti – cambiare lavoro, cambiare città, cambiare stato – gli americani sembrano aver deciso che il mondo non tornerà come prima, e il momento di cambiare abitudini e modi di vita è adesso, non chissà quando nel futuro. La società americana è elastica, forse anche per questo lì il contraccolpo economico del Covid – nonostante la catastrofe sanitaria (grave quasi come la nostra) – potrebbe risultare meno drammatico che in Europa. Per il 2020 l’Ocse prevede un tracollo del Pil di Italia, Regno Unito, Francia e Spagna compreso fra l’11 e il 15%, mentre per gli Stati Uniti prevede un calo del 7-8%, poco più della metà.

Non è solo la difficoltà di progettare il futuro, però. Il Covid sta portando nelle nostre vite cambiamenti più sottili, ma potenzialmente ancora più distruttivi. Il più importante, a mio parere, è uno stato generalizzato di anarchia mentale, un fenomeno che mi è più facile spiegare con esempi che con un discorso astratto.

Prendiamo un invito a cena. In condizioni normali lo accetti, se ti piacciono le persone che incontrerai. Ma in condizioni Covid, specie se si sono superati i 50 anni, può succedere di chiedersi: quante persone ci saranno? si mangia all’aperto o al chiuso? il pranzo è in piedi, o saremo tutti seduti a tavola? e in questo secondo caso, a che distanza ci metteranno? chi sono gli invitati? sono persone prudenti e isolate, o sono persone che, per lavoro o per svago, hanno centinaia di contatti? potendo scegliere il posto a tavola, è più rischioso sedere fra X e Y o fra Z e W?

Ovviamente sono tutte domande che, di norma, nessuno osa rivolgere esplicitamente ai suoi interlocutori.  Però non vuol dire che non ce le facciamo. O che alcuni di noi potrebbero farsele. O che potrebbero abitare le menti delle persone che incontriamo. Ed ecco la conseguenza: puoi essere più o meno ansioso, più o meno preoccupato, più o meno razionale, ma non puoi sfuggire al fatto che il mondo sociale in cui il Covid ti ha gettato è un mondo in cui non è irragionevole pensare che l’altro possa essere un pericolo per te e tu possa essere un pericolo per lui. Possiamo negarlo finché vogliamo, protestare che noi siamo superiori, che per noi tutto è come prima, ma la realtà è che in ciascuno la percezione degli altri è cambiata, tanto o poco, ma è cambiata. E vale anche per i negazionisti: loro possono credere quel che vogliono, ma non possono sfuggire al fatto che gli altri non la vedono come loro.

Quello descritto sarebbe già, di per sé, un mondo inquietante. Ma non è tutto. Nel mondo sociale che il Covid ci ha regalato le nostre menti non si trovano semplicemente a fare i conti con il trauma dell’altro come pericolo. Accanto a quel trauma, che costringe persino genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle a percepirsi come reciprocamente pericolosi, c’è un altro dramma: il sistematico disallineamento fra le soglie di rischio, ossia il fatto che molto raramente due persone hanno il medesimo grado di avversione al rischio, e ancora più raramente hanno le medesime idee su che cosa è veramente rischioso e che cosa non lo è. Può così capitare di essere considerati pavidi (o fobici), se l’interlocutore ha una avversione al rischio minore della nostra, e imprudenti (o incivili) se la sua avversione è maggiore. L’altro non è semplicemente percepito come un pericolo, ma come diverso e incompatibile con noi, perché non ha le nostre stesse sicurezze e paure.

Questa situazione in parte è normale. Le differenze di avversione al rischio ci sono sempre state, Covid o non Covid. Quel che è nuovo, e tutt’altro che normale, è che le soglie di rischio individuali siano del tutto disallineate. C’è chi pensa che il Covid sia un pericolo mortale, e chi pensa che sia poco più di un’influenza. C’è chi porta la mascherina anche all’aperto senza nessuno nelle vicinanze, e chi si ammassa su autobus e vaporetti, in strada, in discoteca. C’è chi pensa che la trasmissione del virus avvenga solo interagendo con altri, e chi teme la trasmissione attraverso le superfici, o attraverso l’aria. C’è chi smette di pensare che il Covid sia un pericolo, perché pensarlo gli rovinerebbe le vacanze, salvo poi tornare a temerlo quando prendere sul serio il Covid comporta solo la noia di sottoporsi a un tampone (è il caso dei giovani di ritorno da vacanze massificate).

La realtà, come ben sanno gli psicologi sociali dai tempi di Leon Festinger, inventore della “teoria della dissonanza cognitiva”, è che gli esseri umani funzionano come macchine di auto-rassicurazione. Mediamente, non pensano quel che l’evidenza empirica disponibile suggerisce, ma quello che li fa stare meglio, o li fa soffrire di meno, o mitiga la loro angoscia. La loro capacità di ignorare la realtà, o di autoingannarsi, non ha alcun riscontro nel mondo animale. E il Covid ha fornito una eccezionale occasione di esercitare questa loro capacità.

E’ un problema?

Sì, perché la vita sociale si regge su regole comuni e accettate, ma anche su schemi condivisi di percezione della realtà. Il regime di anarchia mentale innescato dal Covid è pericoloso per la coesione sociale perché nessun società può sopravvivere senza una descrizione delle cose minimale e comune. Ma è anche pericoloso per l’equilibrio psicologico del singolo, perché un mondo in cui ognuno vede quel che vuol vedere, senza riguardo a quel che vedono gli altri, è altamente ansiogeno, conflittuale, destabilizzante.

Si poteva evitare?

In parte no, perché la paura è uno stato d’animo con cui ognuno fa i conti o modo suo, in base alla sua personalità, alle sue esperienze, e anche ai propri interessi. Per un imprenditore, o per un lavoratore non garantito, prendere sul serio la paura può essere troppo costoso, perché fermarsi significa la rovina economica. Per un pensionato, un dipendente pubblico, o un operaio tutelato dalle organizzazioni sindacali, la paura è meno costosa, perché il suo reddito non è a rischio (per ora).

In parte però sì, l’anarchia mentale e i suoi danni si potevano evitare, almeno un po’. Non era impossibile, volendo, arrivare a un minimo di regole e di standard di prudenza condivisi. Bastava non dire prima che le mascherine e i tamponi non servivano, e poi che erano assolutamente necessari. Bastava non stabilire regole illogiche e incoerenti (distanziamento sui Freccia rossa, ammucchiate sugli altri mezzi di pubblici). Bastava far rispettare le regole che si enunciavano, senza chiudere un occhio sulle violazioni (movida, assembramenti). Bastava essere netti e chiari sulle discoteche, anziché pilatescamente scaricare ogni responsabilità sui Governatori delle regioni. Bastava che gli scienziati e gli esperti veicolassero un messaggio sostanzialmente coerente e ragionevole, anziché dividersi nei programmi televisivi in cerca di attimi di celebrità. Se ognuno può permettersi di percepire la realtà in modo del tutto personale, e privo di agganci obiettivi, è perché in questi mesi il racconto pubblico è stato dissonante e cacofonico.

L’anarchia mentale che ci attanaglia è certamente, innanzitutto, figlia della filogenesi, ovvero di ciò che siamo diventati come membri della specie umana. Ma è anche, in qualche misura, figlia della classe dirigente che ci ritroviamo: incapace di parlare con una voce sola, e proprio per questo destituita di ogni autorevolezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 settembre 2020