Di “seconda ondata” ormai si parla da qualche mese. In Europa come in Italia. Ma non mi è ancora capitato di sentire una definizione precisa di che cosa si debba intendere per seconda ondata, e che cosa esattamente distingua un’ondata da una “ondina”, o da una serie di ondine.
In questo vuoto di definizioni statistiche, anche l’affermazione che ci sarà o non ci sarà una seconda ondata diventa vuota di significato. Proviamo allora ad abbozzare una definizione, per poi tornare alla domanda.
Per “seconda ondata” è ragionevole intendere una situazione nella quale sia il numero di contagiati per 100 mila abitanti, sia la sua velocità di crescita siano quantitativamente comparabili a quelli della prima ondata, che nella maggior parte dei paesi si è sviluppata tra marzo e maggio.
Dunque, in Italia sta arrivando una seconda ondata? E negli altri paesi?
Qui arriva il difficile. Per applicare la nostra definizione, bisognerebbe conoscere il numero dei contagiati e il suo andamento nel tempo, che sono grandezze incognite non solo in Italia ma ovunque nel mondo. Quel che conosciamo, paese per paese, è solo il numero di nuovi casi diagnosticati ogni giorno, che sono molti di meno dei casi effettivi. Per ricostruire la curva epidemica reale di ogni paese dovremmo conoscere il moltiplicatore che fa passare dai casi diagnosticati a quelli effettivi. Non solo, ma dovremmo sapere come il moltiplicatore varia nel tempo e nello spazio, fra paesi e all’interno di un paese. Senza queste informazioni sia i confronti nel tempo sia quelli nello spazio diventano problematici.
Fortunatamente, qualche frammento di informazione ce l’abbiamo. Sappiamo, ad esempio, che il moltiplicatore dell’Italia è almeno 6, dal momento che il numero di contagiati totale stimato dall’Istat con l’indagine di sieroprevalenza di giugno-luglio è dell’ordine di 1 milione e mezzo, ossia 6 volte il numero di casi diagnosticati, che è dell’ordine di 250 mila. Sappiamo anche, dai calcoli effettuati dalla Fondazione Hume comparando dati di mortalità e casi diagnosticati, che il moltiplicatore varia notevolmente nel tempo e nello spazio, perché la capacità diagnostica non è né costante né uniforme. La capacità diagnostica, ad esempio, differisce notevolmente da regione a regione (vedi grafico 1), e anche da paese a paese, generando marcate differenze fra i moltiplicatori che occorre applicare ai dati grezzi. Il moltiplicatore dell’Italia, ad esempio, è sensibilmente più alto di quello di Francia e Germania, perché la nostra capacità diagnostica è sensibilmente inferiore. Ecco perché i confronti internazionali, dai quali principalmente traiamo motivi di conforto, andrebbero presi con prudenza: per comparaci alla Germania, ad esempio, dovremmo quasi triplicare i nostri tassi di incidenza.
Detto tutto questo, e nonostante tutto questo, torniamo al punto: è in arrivo una seconda ondata in Italia? Che cosa si può dire in base ai dati disponibili?
La prima parte della risposta è confortante. Se parliamo dell’Italia nel suo insieme, e in mancanza del numero di contagiati “vero” ci basiamo sul numero di contagiati rilevato con i tamponi, possiamo dire che, al momento, siamo ancora molto lontani da una seconda ondata. E’ vero che la curva epidemica è tornata a salire, è vero che di questo dobbiamo ringraziare le imprudenze estive degli italiani e dei loro governanti (discoteche aperte, movida, ecc.), ma è anche vero che sia il numero di contagiati, sia la velocità a cui crescono attualmente non sono comparabili a quelli di marzo-aprile. E il risultato del confronto fra oggi e marzo-aprile risulterebbe ancora più rassicurante se, anziché disporre solo della serie storica dei casi diagnosticati, disponessimo di quella dei casi effettivi. Quel che è certo, infatti, è che il moltiplicatore di marzo-aprile era molto più alto di quello di oggi o, detto in altre parole, ieri la parte sommersa dell’iceberg del contagio era molto più grande.
Ma c’è anche una seconda parte della risposta, ed è meno rassicurante. In una fase come questa, quel che è importante non è che cosa succede in media, ma che cosa succede nei singoli territori. Certo, possiamo tranquillizzarci perché il mare è molto meno agitato di sei mesi fa, ma dobbiamo chiederci se lo è ovunque, o ci sono invece golfi, insenature e calette dove il mare sta salendo pericolosamente. Ebbene, qui la risposta è diversa da quella sull’Italia nel suo insieme. Perché c’è una provincia, La Spezia, in cui la situazione è molto preoccupante. L’incidenza bisettimanale (nuovi casi ogni 100 mila abitanti), corretta per la capacità diagnostica della Liguria, è quasi 20 volte quella media nazionale (vedi grafico 2). E se compariamo la situazione di oggi con quella di ieri è inevitabile concludere che sono piuttosto simili: la curva epidemica di La Spezia presenta due picchi, uno ad aprile (in pieno lockdown), l’altro questo mese di settembre; l’altezza dei due picchi è la stessa, e la velocità del contagio è comparabile.
Insomma, per la Spezia la domanda non è se, e quando, arriverà la seconda ondata: la seconda ondata è in corso. Semmai viene da chiedersi che cosa si aspetta a intervenire con la dovuta determinazione.
E’ l’unico caso, quello di La Spezia?
Se, in assenza di dati comunali, ragioniamo a livello provinciale, la risposta è che, per ora, non ci sono province con una situazione epidemica grave come quella di La Spezia. La peggiore provincia dopo la Spezia è Genova (ancora una provincia ligure), ma i casi di Genova sono meno di 1/6 di quelli di La Spezia, ancorché il triplo della media nazionale. Come Genova, ci sono una decina di altre province, metà al Nord e metà al Sud, in cui l’incidenza effettiva – senza raggiungere i livelli record di La Spezia – è molto superiore a quella nazionale (vedi grafico 3).
Converrà tenerle d’occhio, prima che il mare si alzi anche lì.
Pubblicato su Il Messaggero del 26 settembre 2020