Vaccinare non basta

Come va l’epidemia nelle società avanzate?

Dipende dalla direzione in cui guardiamo. Il dato più drammatico è il tasso di mortalità (e di occupazione delle terapie intensive) nei paesi dell’Est Europa, che è quasi 14 volte quello dell’Italia. E’ verosimile che la ragione di questo squilibrio stia essenzialmente nella vaccinazione, che è in clamoroso ritardo nei paesi ex-comunisti. Ed è possibile che, alla radice di tale bassissima propensione a vaccinarsi, vi sia anche, se non soprattutto, la diffidenza dei cittadini di quei paesi verso lo stato centrale, una diffidenza maturata in 70 anni di dittatura e di invasione della vita privata.

Ma nelle altre società avanzate, occidentali e orientali, come vanno le cose?

Qui ci sono due sorprese, o meglio due dati, che contraddicono la narrazione oggi prevalente in Italia.

Il primo dato è che l’Italia non è affatto un’isola relativamente felice, e tantomeno un modello per gli altri paesi. Se guardiamo alla mortalità dell’ultimo mese, ci sono 13 paesi che stanno meglio di noi e 12 che stanno peggio (vedi grafico seguente). In breve: siamo a metà classifica. Lo stesso accade se, anziché guardare ai morti per abitante, guardiamo al valore di Rt: anche in questo caso, metà dei paesi ci precedono e metà ci seguono.

Il secondo dato è che, nella stragrande maggioranza dei paesi, il valore di Rt è maggiore di 1. Ossia: l’epidemia galoppa quasi ovunque. Ma soprattutto, e qui sta il lato sorprendete, galoppa indipendentemente dalla copertura vaccinale. Anche nei paesi che, come Portogallo e Spagna, hanno vaccinato quasi il 100% della popolazione vaccinabile, il valore di Rt è ampiamente sopra 1, e analogo a quello dell’Italia. A giudicare dai dati disponibili, la vaccinazione riduce drasticamente la mortalità, ma non ha alcun impatto apprezzabile sulla diffusione del contagio. Dunque vaccinare è necessario, ma non sufficiente.

Sulle ragioni che fanno sì che il pieno successo della campagna vaccinale non basti a fermare l’epidemia si può discutere a lungo, perché nessuno ha dati sufficienti a fornire una riposta incontrovertibile. Al momento la spiegazione che più mi convince, anche in quanto supportata da alcune analisi statistiche su dati americani, è che la capacità dei vaccinati di trasmettere l’infezione sia stata ampiamente sottovalutata. Detto in altre parole: si confonde la capacità dei vaccini di proteggere dalla morte e dalla malattia grave (che è indubbia e molto elevata) con la loro capacità di rallentare la trasmissione. Da questo punto di vista la strategia di “premiare i vaccinati”, lasciando loro la libertà di fare quasi tutto, o la scelta di rimandare la quarantena nelle classi scolastiche fino a quando non vi sia un focolaio di almeno tre studenti positivi, appare quantomeno imprudente. L’idea che la colpa sia (quasi) tutta dei non vaccinati, e che vaccinando (quasi) tutti le cose tornerebbero miracolosamente a posto, è incompatibile con i dati: se fosse corretta, non assisteremmo a una preoccupante espansione dei casi in Spagna, Portogallo, Irlanda, Danimarca, Malta, Islanda, tutti paesi che hanno vaccinato moltissimo.

Che fare, dunque?

Prima di tutto, prendere atto che non siamo i primi della classe. E poi avere il coraggio di farci la domanda cruciale: siamo sicuri che la ricetta italiana, fatta di vaccini + restrizioni, sia la strada giusta per tenere sotto controllo l’epidemia?

Io penso che non lo sia, e che anche l’Europa dovrebbe cominciare a riflettere sul problema. L’esperienza di due stagioni fredde e due stagioni calde dovrebbe averci insegnato che l’illusione di domare il virus prende forma e si consolida in estate, ma immancabilmente svanisce con l’autunno.

Puntare tutte le carte su vaccini e restrizioni significa tenere permanentemente sotto pressione il sistema sanitario (100 o 150 milioni di vaccinazioni all’anno non sono uno scherzo, come ha fatto notare il prof. Crisanti), con conseguente drammatica riduzione delle cure ordinarie, e chiamare periodicamente i cittadini (compresi i vaccinati) ad accettare pesanti restrizioni alla loro libertà, ogni qualvolta il generale inverno subentra al generale estate.

Possibile che non vi siano alternative? Possibile che, al di là della vaccinazione perpetua che ci si prospetta, quasi tutto l’onere dell’aggiustamento ricada sui cittadini?

In realtà le alternative diverse dalla diade vaccinazioni + sacrifici esistono, e sono state più volte indicate, non solo dagli studiosi. Non le ricorderò tutte, ma vorrei almeno ricordarne due: il tracciamento elettronico (del tutto abbandonato dopo il fallimento dell’app Immuni) e la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire da scuole, uffici, metropolitane, mediante filtri e ventilazione meccanica controllata (ne ha parlato pochi giorni fa l’ing. Buonanno su questo giornale).

L’elemento comune di tali interventi, snobbati non solo in Italia ma in buona parte d’Europa, è che non impattano né sul sistema sanitario (a differenza della vaccinazione di massa), né sulla nostra libertà (a differenza delle restrizioni). E, nel caso dell’approccio ingegneristico al controllo della qualità dell’aria negli ambienti chiusi, ci regalano una realistica speranza: quella di affrontare meno indifesi la stagione fredda, che è il vero tallone di Achille della lotta al virus.

Pubblicato su Repubblica del 6 dicembre 2021




Covid19, il sogno di un’estate senza fine

Modificando una condizione al contorno applicata ad un sistema termodinamico, esso evolve fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, compatibile con i nuovi vincoli del sistema.

E’ un principio basilare della termodinamica: ma che significa per noi?

Immaginate come sistema la nostra società di individui con la propria moltitudine di interazioni. E ritornate con la mente all’estate, quando il sistema era in equilibrio con bassa incidenza del virus, ridotta trasmissione, alta protezione da vaccinazione. Cosa è cambiato da un paio di mesi rispetto a questa condizione? Quali condizioni al contorno stanno spingendo il sistema verso una nuova condizione di equilibrio?

Le percentuali di vaccinazione sono cresciute ulteriormente, ma non si è tenuto conto che i vaccini hanno una efficacia che si riduce nel tempo, sia nella protezione contro l’infezione che contro la malattia. Stime recenti indicano un tempo di soli 3-4 mesi per una diminuzione sostanziale dell’efficacia all’infezione. Quindi la durata della protezione è di gran lunga inferiore al tempo necessario per vaccinare percentuali elevate di popolazione (in Italia abbiamo impiegato 9 mesi per vaccinare l’80% della popolazione) e, non potendo mai avere una copertura adeguata, saremmo sempre costretti ad inseguire le ondate.

Una diversa condizione al contorno è l’autunno (e ancor più l’inverno) con un aumento dell’interazione dei soggetti negli ambienti chiusi. E qui entra in gioco un errore importante che le autorità sanitarie continuano a commettere: infatti il virus si propaga quasi esclusivamente per aerosol e non con i droplets (goccioline) o le superfici. Una persona infetta (vaccinata o non vaccinata) emette il virus dalla bocca all’interno di particelle in grado di galleggiare in aria come del fumo: e queste non cadranno al suolo in prossimità della persona come il mondo medico ci ha raccontato.

Come ci difendiamo dal fumo di una sigaretta? All’aperto è facile, perché il rischio dipende solo dalla distanza e dal tempo di esposizione. Tempi di esposizione di qualche secondo all’emissione di un soggetto infetto rendono accettabili anche distanze inferiori al metro. Non c’è necessità di utilizzare mascherine in ambienti aperti se non per esposizioni di diversi minuti davanti ad un soggetto che parla. Il rischio di inalare una dose sufficiente di carica virale sospesa in aria è invece rilevante negli ambienti chiusi senza un intervento sull’ambiente.

Sono attualmente protetti gli ambienti chiusi? Assolutamente no, non lo sono mai stati neanche durante le precedenti ondate per il mancato coinvolgimento delle competenze ingegneristiche. Questo errore non lo commettiamo a casa nostra quando cuciniamo perché ci affidiamo agli ingegneri per ridurre la nostra esposizione al fumo (cappe aspiranti, ventilazione) pur sapendo che nuoce alla salute. Le nostre autorità purtroppo si sono affidate solo al vaccino, senza coinvolgere gli ingegneri.

Dalla storia sappiamo che tutte le epidemie passano, ma la storia può esserci di aiuto anche per acquisire la consapevolezza necessaria per affrontare le prossime. Nella Londra vittoriana John Snow (1813-1858) intuì che il contagio da colera avveniva attraverso l’acqua e non attraverso i miasmi millantati dalla comunità medica. Da allora gli ingegneri hanno messo in sicurezza l’acqua e oggi nessuno di noi utilizza dispositivi per purificare l’acqua, un bene primario. Non temiamo più agenti patogeni trasmessi dall’acqua, perché sappiamo come si trasmettono e come limitare il contagio.

Perché questo non dovrebbe essere valido anche per l’aria?

Gli ingegneri sono oggi in grado di mettere in sicurezza l’aria e ogni cittadino dovrebbe avere il diritto di respirare aria priva non solo di inquinanti, come è stabilito dal rapporto The Right to Breathe Clean Air (Il diritto di respirare aria pulita) delle Nazioni Unite, ma anche di agenti patogeni. E’ un dovere del gestore di ogni luogo pubblico o di lavoro garantire la sicurezza di chi entra in un ambiente. Visione questa opposta all’attuale, in cui la sicurezza di un individuo è delegata ai comportamenti non virtuosi ma spesso inconsapevoli dei cittadini.

Le rassicurazioni delle autorità sanitarie sull’evoluzione del nostro sistema non sono realistiche: senza una modifica sostanziale delle attuali condizioni che riduca in modo drastico i contagi negli ambienti chiusi, si arriverà a situazioni simili a quelle di altri paesi Europei, e la protezione della popolazione mediante percentuali ancora più elevate di vaccinati rischia di essere un miraggio. Il mancato coinvolgimento degli ingegneri (utili anche per uno smorzamento delle tensioni sociali) rende probabile il sopraggiungere delle temute chiusure con conseguenze pesanti sul piano sanitario ed economico. La risposta decisiva alla presenza di un virus endemico esiste: trasformare gli ambienti chiusi in ambienti simil-aperti che ci proteggano anche dalle nuove varianti in arrivo, come se vivessimo in una estate continua. Sembra fantascienza, ma anche la visione di Snow nell’Ottocento fu probabilmente considerata solo l’utopia di un sognatore.

Prof. Giorgio Buonanno
Università di Cassino e del Lazio Meridionale
Queensland University of Technology, Australia

Luca Ricolfi
Docente di Analisi dei dati
Università di Torino

 




Chi sono i No Green Pass? Molte conferme e qualche sorpresa

È ovvio che le manifestazioni dei No Green Pass, presenti in molte città italiane da diverse settimane, non vedano coinvolto che qualche migliaio di persone. Non tutti hanno voglia di scendere in piazza, sfidando magari le intemperie meteorologiche o delle forze dell’ordine, senza altro obiettivo concreto se non quello di cercare di sensibilizzare il governo a ritirare quelle misure da loro giudicate illiberali.

Ma se non sono molti coloro che si mobilitano “fisicamente”, dietro quei pochi ci sono milioni di italiani che, in qualche modo, la pensano più o meno come loro, ritengono cioè che il green pass sia “una misura esagerata che viola la libertà di chi non vuole farsi vaccinare”. Piuttosto interessante quindi cercare di capire chi sono, quali sono le loro caratteristiche in termini demografici e politici.

Utilizzando un campione sufficientemente numeroso di elettori (circa 4mila individui interrogati negli ultimi due mesi da Ipsos) è possibile tracciare un quadro significativo del loro profilo, confrontandolo poi con chi non si dichiara contrario al greenpass. La tipologia costruita ad hoc tiene conto di una ulteriore specificità, differenziando i “no green pass” non vaccinati da quelli invece vaccinati.

Avremo quindi tre tipi: il primo, che chiameremo “SI vax SI gp”, è composto da chi si è vaccinato ed è d’accordo con l’adozione del green pass (il gruppo più numeroso, pari al 70% circa degli intervistati); il secondo (“SI vax NO gp”) dai contrari al green pass ma vaccinati (18%); il terzo (“NO vax NO gp”) dai contrari sia al vaccino che al green pass (12%). Esiste per la verità anche uno gruppo molto ridotto (meno del 2%) di non vaccinati ma favorevoli al green pass, che ho tralasciato nell’analisi.

Occorre innanzitutto sottolineare come al trascorrere del tempo sia la seconda categoria, i vaccinati contrari al greenpass, quella a crescere in maniera significativa: se in ottobre erano soltanto il 10-12%, nelle ultime settimane arrivano infatti a superare il 20% della popolazione elettorale, mentre cala contestualmente il gruppo dei “non vaccinati”. E già questo pare un primo dato estremamente interessante: vanno cioè aumentando poco alla volta coloro che, pur vaccinati, reputano di fatto una sorta di attentato alla libertà (anche lavorativa) l’obbligo del passaporto verde. Potremmo identificarli con l’etichetta di “rivoltosi”, e mi sembra questa la categoria più interessante da analizzare, laddove il terzo gruppo (quello dei non-vaccinati), in tendenziale calo, è composto da individui le cui caratteristiche li fanno assomigliare maggiormente all’area più nota degli emarginati dalla politica (non-votanti, livelli di informazione e di scolarizzazione poco elevati, poco inseriti nel mondo del lavoro, casalinghe e disoccupati, convinti anti-europeisti, favorevoli al ritorno della lira).

Cosa contraddistingue dunque questi “rivoltosi”, rispetto alla fetta più rilevante della popolazione, quel 70% di “mainstream” che concorda con l’utilizzo del greenpass? Dal punto di vista del loro orientamento politico, sono tendenzialmente poco presenti gli elettori dei partiti di sinistra, di centro-sinistra e di Forza Italia, mentre le scelte più significative vanno in direzione del Movimento 5 stelle e, soprattutto, verso la Lega e Fratelli d’Italia, che sfiorano in questo gruppo il 30% nelle intenzioni di voto, oltre il doppio dei “mainstream”.

Sono anch’essi, in sintonia con i non vaccinati e con le parole d’ordine dei partiti di loro maggior riferimento, in prevalenza anti-Euro e anti-Europeisti e per il 70% pensano che le cose nel nostro Paese stiano andando in generale nella direzione sbagliata. Il loro livello di scolarizzazione non è molto dissimile dalla media italiana, con la presenza quindi di quote significative di laureati e diplomati, benché siano più numerosi coloro che si fermano alla scuola dell’obbligo. Sono ben inseriti nel mondo del lavoro, in particolare tra gli operai e gli autonomi con reddito relativamente più basso. Dal punto di vista generazionale, spicca la presenza tra i “rivoltosi” delle classi d’età relativamente più giovani, mentre tra le loro fonti d’informazione appare sovra-rappresentata la presenza dei social e del passaparola, dell’interazione tra amici e parenti per formarsi un’opinione, mentre meno presenti sono le fonti d’informazione più “ufficiali”, come i giornali cartacei e i telegiornali.

L’atteggiamento di decisa sfiducia nei confronti dell’attuale governo e delle principali istituzioni, italiane ed europee, è il tratto marcato che contraddistingue questo gruppo di elettori, certo meno agguerrito dei variegati manifestanti che quotidianamente (in forme quasi pre-politiche) scendono in piazza, al grido di “libertà”, ma che in qualche modo rappresenterebbero soltanto la punta di un iceberg di sentimenti diffusi nella popolazione. Sentimenti che paiono in costante crescita anche tra coloro che, forse di malavoglia, sono arrivati alla vaccinazione sospinti più dall’opinione pubblica dominante che da una reale convinzione dell’efficacia dei vaccini. Tanto che quasi il 70% tra loro si trova tuttora in disaccordo con la simbolica affermazione: “Oggi, il vaccino è la libertà”.

I milioni di italiani “rivoltosi” sembrano dunque rappresentare un’ondata di crescente profondo dissenso con la quale confrontarsi seriamente, nelle settimane a venire, per evitare che quell’iceberg emerga ancora più evidente nel mare della nostra società.




Quant’è difficile parlare di vaccini con libertà. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, perché stampa e talk show sul Covid sembrano prigionieri di una logica da «curva»? Inscenando lo scontro tra opposti estremismi – vaccino «sola salus» contro no vax per principio – non ci si preclude la possibilità di una discussione seria e informata?
La possibilità di una “discussione seria” non interessa granché neppure i cosiddetti scienziati, troppo spesso prede di faziosità (e di conflitti di interesse), figuriamoci la grande stampa e i talk show. La realtà è che tutta la comunicazione pubblica risente del clima di guerra che si è instaurato dopo l’arrivo del vaccino. E in guerra chi solleva dubbi è trattato come un disertore.

Lo scontro, comunque, non è simmetrico: c’è una posizione, quella di totale adesione alle scelte del governo, che ha dalla sua una sorta di «bollinatura». È per questo che, dall’altro lato, si sovrarappresentano le voci più grottesche, dai negazionisti ai complottisti del vaccino? Insomma, si dà l’impressione che l’unica alternativa all’agenda governativa sia un coacervo di tesi deliranti…
E’ una precisa strategia, specie nei talk show. I paladini della campagna vaccinale vengono selezionati fra gli studiosi autorevoli, o comunque insediati in posizioni apicale del sistema sanitario, e per ciò stesso guardati con rispetto. Per quanto riguarda gli “infedeli” si alternano tre tecniche principali: non dar loro la parola; invitare solo i personaggi da operetta; farli parlare, ma affiancati da personaggi che li interrompono continuamente, insultando e screditando.

Al contrario, gli elementi che potrebbero incrinare la narrativa dominante e che provengono da fonti qualificate sono prontamente minimizzati. Il caso più recente mi sembra il tentativo di liquidare l’inchiesta del British medical journal sulle gravi lacune in uno dei trial di Pfizer. Questo atteggiamento non rischia di privarci di elementi di riflessione importanti?
Certo, questo atteggiamento priva il pubblico di informazioni cui avrebbe diritto ad accedere. Con la complicazione che il pubblico rischia di trovarle lo stesso (su internet), senza però essere in grado di soppesarle. Però…
Forse la deluderò, ma voglio provare a fare l’avvocato del diavolo dei grandi media, giusto per mettere a fuoco un meccanismo (e un problema). Supponiamo che la stampa e le tv non stendessero il velo pietoso che sono solite stendere sulle numerose controindicazioni della campagna vaccinale, a partire da quelle sulla vaccinazione di massa dei bambini: lei pensa che avremmo la medesima copertura? Crede davvero che il generale Figliuolo sarebbe riuscito a superare l’80% di vaccinati?
Se lei fosse convinto (come molti) che senza un’altissima copertura vaccinale avremmo decine di migliaia di morti in più, non sentirebbe la pressione a censurare le informazioni che disincentivano la vaccinazione? Forse è anche questa convinzione che induce una parte dei media a rinunciare alla completezza e imparzialità dell’informazione, che pure dovrebbero essere imperativi categorici della professione di giornalista.

In suo articolo sul sito della Fondazione Hume, lei ha deplorato il modo in cui è stata frettolosamente accantonata un’ipotesi, discussa in seno alla comunità scientifica, sulla possibilità che la vaccinazione di massa favorisca la selezione di varianti più resistenti del virus. Un altro tabù pericoloso?
Più che deplorarlo, ho messo in evidenza questa ed altre omissioni, alcune innocue (frutto di pura sciatteria), altre influenti e presumibilmente intenzionali. Quello che mi dà fastidio è il paternalismo di questo modo di fare informazione: si assume che noi popolo-bue non capiremmo, ci spaventeremmo, e agiremmo in modo sconsiderato. A me invece piace credere che le persone vadano aiutate a vagliare le informazioni, e a prendere decisioni difficili. Qualche volta tragiche.

Tragiche?
La decisione di una madre che vaccina un bambino di 6 anni è tragica, come quella di Antigone: proteggere il figlio, o proteggere la città?

È apparentemente impossibile, a livello mediatico, separare il giudizio sul vaccino e quello sul green pass. Indipendentemente da come la si pensi sulla tessera verde, perché non si possono avanzare obiezioni al passaporto Covid senza essere accusati, se non di essere dei no vax, di servire assist alle tesi di questi ultimi?
Per il solito motivo: si ritiene che se si critica il green pass si finisce per indebolire la campagna vaccinale. Ma potrebbe esserci anche un altro motivo…

Quale?
Che il governo abbia il problema di trovare un capro espiatorio in caso di fallimento della campagna vaccinale: e i critici del green pass sono “un colpevole quasi perfetto”, come l’uomo bianco nel bel libro di Pascal Bruckner.

Lei non crede che i no-pass siano la causa dell’attuale esplosione dei contagi?
Sono una concausa. E forse nemmeno la più importante. Lei lo sa che l’epidemia galoppa, con un Rt preoccupante, anche nei paesi che hanno vaccinato quasi tutti, come ad esempio il Portogallo, che ha una copertura del 98%?

E allora qual è la causa principale?
Il “generale inverno”, e la scelta del governo di non contrastarlo con la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire da aule scolastiche e metropolitane. Avessero dato retta ai sostenitori della ventilazione meccanica controllata nelle scuole (studiosi, medici, ingegneri e, fra i partiti, ahimè solo Fratelli d’Italia) forse non saremmo a questo punto. Dico “forse” perché l’impatto protettivo dei filtri Hepa e della Vmc (ventilazione meccanica controllata) nessuno lo conosce ancora con esattezza.

Anche sulla vaccinazione dei bambini si è determinata una curiosa coincidenza: ora che si vuole spingere su questo fronte, dei piccoli, finora descritti come sostanzialmente al riparo dalla malattia grave, si è iniziato a dire che finiscono in terapia intensiva, che sviluppano il long Covid e che sono «untori» per i nonni, peraltro già vaccinati. È ancora legittimo esprimere dubbi sul programma di iniezioni sui bambini?
Lo sarà ancora per qualche giorno, approfittando del fatto che gli esperti sono divisi, poi non più. La libertà di parola finisce quando, nel mondo della cosiddetta scienza, la politica riesce a far emergere una posizione nettamente dominante, che mette fuori gioco tutte le altre.

La comunicazione scientifica è stata caratterizzata da una quantità spropositata di giravolte. Più si va indietro, più si trovano casi clamorosi: ad esempio, gli esperti che snobbavano la mascherina sono gli stessi che dopo l’hanno santificata. Cambiare idea può essere il risultato di un avanzamento nelle conoscenze, ma allora perché ogni affermazione dei tecnici ci viene presentata in modo apodittico? Con questo metodo, alla fine, i progressi appaiono, invece, come delle contraddizioni.
E’ esattamente così. La scienza dice di coltivare il dubbio e la discussione critica, ma questo avviene solo finché il dubbio e la discussione critica non urtano contro interessi economici o politici soverchianti. Quando questo accade, il dubbio si può esprimere solo a condizione che gli utenti che possono accedervi siano pochi, come nei giornali a bassa tiratura e nelle riviste. E’ una delle cose che mi ha insegnato Piero Ostellino, il padre spirituale della Fondazione Hume.

E poi ci sono i toni trionfalistici, seguiti da altrettante inversioni a U nella narrativa. Gli stessi vaccini, fino a pochi mesi fa, ci venivano presentati come l’unica via d’uscita dalla pandemia (con un’aperta sottovalutazione del ruolo delle terapie), come la sola salvezza che ci avrebbe riconsegnato la libertà. Adesso, il vento è cambiato: la protezione cala, serve un’altra dose, ma poi vi promettiamo che basterà così, tornerà veramente la libertà. Ecco, questo approccio alla comunicazione non è controproducente? È proprio questo il modo di fornire un assist ai no vax – e poi ci si ritrova a dover «convincere» gli indecisi con un obbligo vaccinale surrettizio…
E’ la conseguenza della sfiducia nella gente. Pensano che noi non capiremmo, se ci dicessero tutto.

Franco Locatelli, alcuni giorni fa, in conferenza stampa ha affermato che non ci sono under 59 vaccinati in terapia intensiva. Sono gli stessi dati Iss a smentirlo. È lecito, o almeno utile, rimaneggiare un po’ i numeri a scopi persuasivi? Non è sempre meglio essere precisi e dire la verità? Anche perché bastano i numeri reali a dimostrare l’efficacia dei vaccini…
Sì, ma è anche colpa della stampa e dei media, che sulle bugie dei potenti raramente hanno il coraggio di chiedere dimissioni che in altri paesi sarebbero scontate.

È indubbio che le vaccinazioni – e, auspicabilmente, questo effetto sarà consolidato dai richiami sulle fasce di popolazione più a rischio – abbiano mitigato enormemente l’impatto del Covid su ricoveri e decessi. Ma in questo contesto, ha senso tenere in piedi lo stato d’emergenza? Se i vaccini funzionano, perché ogni «ondata» viene accompagnata da una massiccia offensiva «terroristica» sui canali d’informazione, e si tiene in piedi anche sul piano giuridico una sorta di regime speciale? Non sarebbero opportuni un approccio più sobrio e un’uscita anche de iure dalla logica emergenziale?
Su questo sono completamente d’accordo con lei (e con Cacciari!). Non possono continuare a dirci che dovremo convivere con il virus, che i vaccini ci consentiranno di farlo, e poi mantenere ad oltranza lo stato di emergenza. O meglio: possono anche farlo, ma allora ci dicano quali sono le soglie di morti-ricoverati-infetti-Rt al di sotto delle quali “lorsignori” si degneranno di rinunciare ai poteri speciali.

Intervista rilasciata a La Verità, del 14 novembre 2021




L’illusione vaccinale

Chi ha meno di 50 anni non può ricordarselo, ma c’è stato un tempo in cui molto si discuteva, in Italia e non solo, di “illusione monetaria”.

Di che cosa si tratta?

L’illusione monetaria è la credenza che il nostro reddito cresca, mentre in realtà sta diminuendo a causa dell’inflazione, che si mangia gli aumenti e ci lascia con meno potere di acquisto di prima. Succedeva negli anni ’70 e nei primi anni ’80, sotto la spinta delle dissennatezze politiche e sindacali, che facevano lievitare i salari nominali e i rendimenti dei titoli di Stato ma non abbastanza da pareggiare un’inflazione galoppante e fuori controllo.

Oggi qualcosa di simile si sta ripetendo, ma in ambito sanitario. Da mesi scrutiamo con ansia la curva della percentuale di vaccinati, dandoci obiettivi ogni volta più ambiziosi, nella più o meno segreta speranza che, raggiunta una data copertura vaccinale (80%? 90%?), si arrivi a una situazione di equilibrio, in cui l’epidemia, pur non spegnendosi, rimanga sotto controllo e ci permetta un ritorno alla normalità, o a una quasi-normalità. Ma questo approccio è fuorviante, come lo era, negli anni ’70, guardare ai nostri redditi nominali anziché a quelli reali, depurati dall’inflazione. Per capire come stano andando le cose sul piano sanitario, non dobbiamo guardare alla copertura vaccinale nominale, ma a quella effettiva, che tiene conto dell’anzianità di vaccinazione, ossia del grado di protezione che ogni vaccinato conserva in funzione del tempo trascorso dall’ultima vaccinazione.

In termini un po’ tecnici: come il reddito nominale va corretto con il livello dei prezzi, così la copertura vaccinale effettiva andrebbe corretta con la durata della protezione.

Se si prova a farlo, si scopre che la curva della copertura vaccinale effettiva non sta più crescendo e anzi, verosimilmente, da un mese a questa parte sta diminuendo (vedi grafico). Noi ci illudiamo di star percorrendo l’ultimo miglio, ma in realtà stiamo retrocedendo, come il gambero. E questo per una ragione molto semplice: i nuovi vaccinati aumentano molto lentamente, perché stiamo raschiando il fondo del barile, mentre i vecchi vaccinati che stanno perdendo la protezione sono sempre di più, perché la campagna per la terza dose è partita in ritardo, e sta procedendo a passo di lumaca.

E’ questa la ragione per cui, in Europa, l’epidemia sta rialzando la testa?

Sì e no. Una copertura vaccinale effettiva elevata, con terza dose a chi si è vaccinato all’inizio dell’anno, è sicuramente – in questo momento – una condizione necessaria di stabilizzazione dell’epidemia. Non a caso l’epidemia è completamente fuori controllo, con tassi di mortalità quotidiana altissimi, nella maggior parte dei paesi dell’est, che sono indietrissimo nelle vaccinazioni.

Ma è anche sufficiente?

Non è detto. L’attuale aumento dei casi in tutta Europa non è solo dovuto all’attenuazione della copertura vaccinale effettiva, ma anche, molto più banalmente, all’arrivo della stagione fredda e all’incremento del tempo passato al chiuso. Era un effetto prevedibile, anche nella sua entità: grazie all’analisi statistica dell’andamento dell’epidemia in tutti i paesi del mondo, oggi sappiamo che il mero passaggio dalle condizioni di vita di settembre a quelle di gennaio-febbraio può moltiplicare i casi di un fattore compreso fra 2 e 4. Dunque, nessuno stupore che, con il ritorno a scuola e al lavoro, il numero di focolai abbia preso ad aumentare.

Ecco perché puntare tutte le carte sul rilancio in grande stile della campagna di vaccinazione e rivaccinazione potrebbe essere imprudente. Molto più saggio sarebbe stato, e ancora sarebbe, affrontare di petto il problema – fin qui sostanzialmente rimosso – di frenare la circolazione del virus almeno in alcuni degli ambienti chiusi più pericolosi: scuole, mezzi di trasporto, uffici.

Gli scienziati che si occupano di trasmissione aerea del virus (mediante aerosol, e non solo mediante goccioline), hanno impiegato circa un anno a convincere l’OMS che quel tipo di trasmissione è non solo possibile, ma è la modalità fondamentale negli ambienti chiusi. Ma nessuno è ancora riuscito a convincere le autorità politiche a varare un piano serio di messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire dalle scuole.

Eppure si può fare, e in alcune realtà locali (nelle Marche, ad esempio) si sta cominciando a fare su piccola scala. Gli ingegneri e gli scienziati hanno indicato con precisione alcune soluzioni tecnologiche (filtri Hepa; Vmc, ossia ventilazione meccanica controllata). Dotare tutte le scuole di dispositivi di controllo e ricambio della qualità dell’aria abbatterebbe i rischi di trasmissione del virus. E renderebbe pure meno drammatica la scelta, che presto si porrà, se vaccinare o non vaccinare pure i bambini.

Sotto questo profilo, non si può non osservare con preoccupazione la decisione, annunciata in questi giorni dalle autorità politico-sanitarie, di rendere molto più blande le regole che fanno scattare l’obbligo di quarantena per tutta la classe. Evidentemente l’obiettivo politico di limitare il ricorso alla Dad (didattica a distanza) sta prevalendo sull’obiettivo di contenere la diffusione del virus nelle scuole. Ma è una scelta miope, e assai pericolosa: perché aspettare che si arrivi a 3 casi per classe prima di correre ai ripari con la quarantena significa lasciar campo libero all’epidemia, per di più nella stagione più favorevole al virus.

Purtroppo è un film già visto: si sa perfettamente che si dovrà chiudere, si ritarda per salvare momentaneamente qualche attività, poi – quando la situazione precipita – si finisce per pagare un conto molto più salato di prima. Non solo in termini di morti, ma anche in termini di nuove chiusure.

Pubblicato su Repubblica del 6 novembre 2021