Il Covid e la dialettica della paura

Credo che sull’obiettivo di tutelare l’economia, o meglio limitare i danni che l’epidemia determinerà sul sistema economico, siano tutti d’accordo. Come credo che, in materia di riaperture, le differenze fra le forze politiche siano semplici sfumature: un po’ più attenta ad artigiani e commercianti la destra, un po’ più attenta a scuola, università e cultura la sinistra.

Altrettanto tenui mi paiono le differenze sulla linea da tenere quest’estate. Destra e sinistra, governo e opposizione, non hanno mai messo seriamente in dubbio il racconto che dipingeva l’Italia come un paese in cui l’epidemia si stava attenuando, e in cui dunque ci si poteva preparare a “convivere con il virus”. Un vero “partito della prudenza” non è mai esistito, tutt’al più qua e là abbiamo visto all’opera due opposte frange dell’imprudenza: l’opposizione leghista ha colpevolmente minimizzato i rischi derivanti da movida e discoteche, una parte dell’esecutivo ha colpevolmente minimizzato i rischi sanitari connessi agli sbarchi e alla loro gestione.

La credenza dominante, nella nostra più o meno folle estate, è stata che salute ed economia fossero in conflitto fra loro e che, finalmente, fosse venuto il momento dell’economia. Questa credenza era alimentata da noi stessi, che ci sentivamo in diritto di riprenderci la vita dopo i sacrifici di marzo e aprile, ma era rafforzata e amplificata dalle scelte delle autorità, nonché da una campagna di comunicazione volta a rassicurarci. Le autorità hanno passato l’estate ad attenuare le regole di prudenza, opponendo una resistenza sempre più tenue agli assembramenti sui mezzi pubblici e nei luoghi di vacanza. Quanto ai media, abbiamo assistito a una escalation di rassicurazioni: forse il virus è diventato meno cattivo, la carica virale è in diminuzione, il virus è clinicamente morto, contagiato non vuole dire malato, quasi tutti i contagiati sono asintomatici, la letalità del virus è molto diminuita, i morti giornalieri sono pochissimi. Per finire con la rassicurazione delle rassicurazioni: siamo diventati molto più bravi a curarvi, questa volta siamo preparati, non ci sarà una seconda ondata, e se ci sarà non ci prenderà di sorpresa.

Ora che questo racconto, riproposto con mille sfumature da quasi tutti, si è rivelato fallace, è forse il caso di chiedersi perché. Come mai solo un esiguo manipolo di medici, virologi, studiosi, scrittori, operatori dell’informazione, si è opposto al racconto dominante?

La ragione più importante, a mio parere, è che non si è ancora messo a fuoco il ruolo della paura nel governo di un’epidemia. La paura è il più grande nemico dell’economia, perché la paura riduce la mobilità, il consumo e l’investimento, indipendentemente dal fatto che le autorità chiudano o lascino aperte le attività. Dunque, se vuoi salvare l’economia, devi fare in modo che la gente non abbia paura, o ne abbia in quantità così modesta da non impedirle di svolgere una vita (quasi) normale. Soprattutto, devi fare in modo che l’assenza di paura perduri nel tempo, così consentendo all’economia di girare non solo oggi ma anche domani. Il compito fondamentale della politica, durante un’epidemia, non è semplicemente di ricostituire condizioni di tranquillità, ma di farle durare nel tempo.

Ed è qui che arriva il problema. Come si fa a rendere duraturo il sentimento di non-paura faticosamente raggiunto?

Su questo vi è stata, finora, una risposta dominante, che – in varianti differenti – si è presentata nei discorsi dei politici, nelle ospitate tv dei virologi, nelle più o meno sofisticate analisi dei commentatori. Il nucleo logico di tale risposta è stata la rassicurazione. Si è creduto che una campagna di comunicazione positiva avrebbe tranquillizzato le persone, e così ridato fiato all’economia.

Non si è preso in considerazione un dettaglio: la rassicurazione funziona solo se non è smentita platealmente dai fatti. E in effetti aveva funzionato: fino a poche settimane fa, ogni sera ci dicevano che la curva saliva, ma lentamente; che Rt era bruttino, ma non tremendo; che la situazione era attentamente monitorata; che i ricoveri in terapia intensiva aumentavano, ma non troppo; e che comunque non era come a marzo, perché avevamo imparato. E la gente era comprensibilmente felice di credere a questo racconto.

Poi d’improvviso, nel giro di un paio di settimane, tutto è cambiato. O meglio, tutti hanno cominciato a vedere ciò che solo un’ostinata minoranza aveva fatto notare nei mesi scorsi, ossia l’inesorabile riaccendersi dell’epidemia. A quel punto, con la paura tornata prepotentemente nel cuore di molti, anche l’alternativa aprire/chiudere è diventata secondaria, perché se la gente ha paura l’economia non riparte, qualsiasi cosa decidano i politici su orari, restrizioni, coprifuoco, lockdown.

Dove si è sbagliato?

E’ abbastanza semplice. Quel che non si è voluto comprendere è che, per tenere il sentimento di paura sotto la soglia di guardia – quella che mette a repentaglio il funzionamento dell’economia – la via maestra non sono le campagne di ottimismo, le esortazioni a pensare positivo, le prediche sulla necessità di convivere con il virus. No, per non avere paura noi abbiamo bisogno di due cose soltanto: sapere che il numero di contagiati è così basso da rendere trascurabile il rischio di incontrarne uno, e sapere che – se ci ammaliamo – non saremo abbandonati all’incubo kafkiano della burocrazia sanitaria, perché ci sarà un medico che ci verrà a visitare, ci farà un tampone, ci prescriverà le cure necessarie, e solo in caso di peggioramento ci farà ricoverare in ospedale.

Se fossero state realizzate, queste due condizioni – pochi contagi e medicina di base funzionate – oggi ci garantirebbero quello stato di non-paura che è la base di ogni ripartenza dell’economia. Ma era possibile realizzarle?

Per quanto riguarda la medicina di base, certo che sì. Per dare ai cittadini la garanzia di essere visitati e curati bastava attuare nel semestre maggio-ottobre quella riorganizzazione della medicina territoriale che, tra mille difficoltà, alcune Regioni stanno tentando di attuare ora. E ora non assisteremmo agli assalti ai pronto soccorso, spesso dovuti semplicemente al fatto che nessuno ti viene a curare a casa.

Per quanto riguarda la riduzione del numero dei casi, invece, le cose sono più complesse. Ci sono cose che si potevano benissimo fare, ad esempio attuare il piano Crisanti sui tamponi, organizzare meglio il tracciamento dei casi, rafforzare il trasporto pubblico (per un elenco più ampio vedi pagina x). Ma ci sono altre cose che sì, si potevano fare, ma ad un prezzo alto in termini di consenso: tenere le discoteche chiuse tutta l’estate, rendere obbligatori i tamponi per chi va o viene dall’estero, spegnere con misure circoscritte ma drastiche le migliaia di focolai via via individuati, sanzionare seriamente le innumerevoli, plateali e sistematiche violazioni delle regole (peraltro quasi sempre dovute al pubblico, non agli esercenti).

Se le avessimo fatte, quelle cose, gli esponenti del governo avrebbero perso qualche punto nei sondaggi, l’economia avrebbe perso qualche opportunità, ma ora il numero dei contagi sarebbe basso, la gente non avrebbe una maledetta paura di infettarsi, e l’economia non sarebbe costretta a una nuova fermata, che sicuramente sarà lunga, dolorosa, e più costosa di una modesta frenata in estate.

Perché è la paura la variabile chiave che governa l’epidemia. E la paura non si vince persuadendo la gente che sbaglia ad averne, ma togliendo le condizioni che la rendono più che giustificata. E’ questo che ora va fatto, se vogliamo che, spenta la seconda ondata, a primavera non ci troviamo alle prese con la terza.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 novembre 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 13 novembre) la temperatura dell’epidemia è salita di 4.1 gradi, passando da 213.5 a 217.6 gradi pseudo-Kelvin.

Anche oggi, il cattivo andamento dei nuovi contagi (+244 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 16.0%, stabile rispetto a ieri) ha contribuito in misura preponderante all’aumento della temperatura. Tornano a crescere in modo significativo gli ingressi ospedalieri stimati. Più lieve è invece l’aumento dei decessi (+3.3 mila negli ultimi sette giorni).

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +34.6 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 12 novembre) la temperatura dell’epidemia è salita, ma ad un ritmo più contenuto rispetto ai giorni scorsi. Il termometro di oggi segna 213.5 gradi pseudo-Kelvin ed è in aumento di 3.5 gradi.

Questo risultato è dovuto principalmente al cattivo andamento dei nuovi contagi (+241 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 16.1%, in aumento rispetto a ieri). Significativo è anche l’aumento dei decessi (+3.3 mila negli ultimi sette giorni). Per la prima volta da settembre gli ingressi ospedalieri stimati sono in calo.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +37.5 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Come si fa a combattere la paura? Intervista a Luca Ricolfi

Intervistato dalla Verità, Vittorio Sgarbi dice che si sarebbe dovuta condurre una campagna di comunicazione “positiva” contro il virus. È d’accordo?
In parte sì, e in parte no. Dove sono pienamente d’accordo è quando dice “il governo doveva contenere la malattia, non drammatizzarla”. Perché se il governo, pluri-avvertito e pluri-consigliato dagli studiosi negli ultimi 6 mesi, avesse fatto il suo dovere sui 10 punti della nostra petizione, la malattia sarebbe stata contenuta, non avremmo avuto la seconda ondata, e oggi non ci sarebbe paura. E, in assenza di paura, l’economia girerebbe a regime quasi pieno, compresi musei, scuole ed eventi culturali.
Il mio dissenso con Sgarbi è tecnico, non ideologico. Secondo me la paura non si combatte dando credito agli esperti più tendenziosi e riduzionisti, tipo Zangrillo e Bassetti, ma eliminando alla radice le due paure fondamentali, che sono quella di infettarsi e, ancor più, quella di essere completamente abbandonati al mostro kafkiano della burocrazia sanitaria digitalizzata in caso di infezione. Se sapessimo che il rischio di infezione è molto basso, e che in caso di infezione ai primi sintomi qualcuno verrebbe a casa a visitarci e curarci, avremmo pochissima paura, vivremmo quasi normalmente, e non intaseremmo i pronto soccorso.

Perché il governo sente la necessità di terrorizzare gli italiani?
E’ ovvio: perché l’unica cosa in cui sono maestri è rinchiuderci, e pensano che solo se siamo terrorizzati a dovere obbediremo.

La Fondazione Hume e Lettera 150 hanno sottoposto al governo 10 cose da fare e che il governo non ha fatto. A quali si sarebbe dovuto dare la precedenza?
Intanto vorrei sottolineare la natura bipartisan della petizione, arrivata a 13 mila firme, che sta raccogliendo consensi da persone di tutti gli orientamenti politici.
A mio parere le cose non fatte più importanti sono due. Primo, l’attivazione dei medici di base con dispositivi di protezione, strumenti per effettuare i tamponi, e soprattutto un protocollo di intervento al primo apparire dei sintomi. Secondo, attuazione del piano Crisanti per portare il numero di tamponi per abitante a livelli europei (almeno 3 volte i livelli degli ultimi mesi).

Il governo è ancora in tempo per realizzarle ancora?
No, ormai la situazione è sfuggita di mano. Si può solo sperare che, nonostante sia troppo tardi, faccia ugualmente quel che andava fatto nei mesi estivi. Perché ormai il problema non è evitare la seconda ondata, ma porre le condizioni per evitare la terza, inevitabilmente seguita dall’ennesimo lockdown: una vera catastrofe per l’economia.

Se il governo avesse agito per tempo, oggi in quali condizioni ci troveremmo?
Saremmo tranquillissimi perché i nuovi casi giornalieri sarebbero poche centinaia, nessuno sarebbe terrorizzato, e la gente saprebbe che in caso di infezione non sarà abbandonata.

Nessuno vieta di guidare l’auto per evitare incidenti: come si può applicare questo principio alla lotta contro il virus?
E’ semplice: portando il numero di contagiati e il numero di morti da Covid-19 a livelli paragonabili (o inferiori) a quelli degli incidenti automobilistici. E’ perfettamente possibile e, come Fondazione Hume, abbiamo anche delle ipotesi sui valori soglia da adottare.

Il vostro approccio è stato applicato in qualche Paese del mondo? E là come vanno le cose?
Non esiste un approccio della Fondazione Hume, ma esistono tesi che quasi tutti gli esperti indipendenti sostengono, e che in alcuni paesi sono state prese sul serio.

Ad esempio?
Ad esempio l’importanza di tenere il numero dei casi giornalieri abbastanza basso da consentire il tracciamento (cavallo di battaglia del prof. Andrea Crisanti): una strategia che presuppone un numero di tamponi per abitante triplo rispetto a quello italiano, e un sistema di tracciamento tempestivo e non fallimentare come quello di IMMUNI.
Fra i 30 paesi di tradizione occidentale sono circa la metà quelli che hanno applicato strategie sensate, e ora non sono investiti da una seconda ondata paragonabile alla prima. In Europa: Germania, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Irlanda ma in parte anche Grecia e Svezia. Fuori dell’Europa: Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan. La più grossa bugia dei maggiori governi europei è stata di presentare l’epidemia come una catastrofe inevitabile e ingovernabile, anziché come un evento che poteva essere fronteggiato.

Lei insegna analisi dei dati. Che cosa pensa della divisione dell’Italia in zone colorate in base a dati e parametri sconosciuti?
Intanto dico che la sbandierata trasparenza non sussiste, perché i dati sulla cui base si decide sono pubblici, ma l’algoritmo che li trasforma in zone non è pubblico (se lo è, ci dicano dove trovarlo!). E’ come se uno dicesse: decido se uscire di casa oppure no in base a umidità e temperatura, ma non vi dico come combino queste due informazioni per prendere la decisione.
Anche su questo punto, comunque, la penso come Sgarbi, che parla di misure diverse all’interno delle singole regioni. La zonizzazione per regioni o macro-zone poteva avere un senso nel primo lockdown, quando la propose inascoltato il Comitato Tecnico Scientifico sulla base dell’ovvia considerazione che la situazione del Sud era completamente diversa da quella del resto d’Italia. Ora, ammesso che si abbiano gli strumenti per differenziare (cosa non chiara, perché i dati comunali sono secretati), forse avrebbe più senso imporre misure diversificate all’interno di ogni regione, su base comunale.
Ma la dura realtà è che è troppo tardi: quel che era razionale e fattibilissimo ancora 1-2 mesi fa, ora è maledettamente difficile perché il governo ha fatto pochissimo quando era ancora in tempo, e si è ostinato a non riconoscere il rapido deterioramento della situazione quando – all’inizio di ottobre –  la seconda ondata in arrivo era chiaramente visibile all’orizzonte.
E’ la nostra disgrazia: i nostri governanti non sono semplicemente incapaci, purtroppo sono anche un po’ struzzi. E’ ingenuo credere che loro sappiano la verità ma non ce la dicano: la realtà è che la nascondono anche a sé stessi. Se così non fosse, il ministro Speranza si sarebbe ben guardato dal pubblicare un libro auto-elogiativo, che ha poi dovuto precipitosamente ritirare. Evidentemente, non aveva capito la situazione.
Pensi in che mani siamo…

Intervista rilasciata l’11 novembre a “La Verità”




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 dell’11 novembre) la temperatura dell’epidemia è salita di 4.7 gradi, passando da 205.3 a 210.0 gradi pseudo-Kelvin.

Alla base del peggioramento vi sono soprattutto due fattori: l’incremento dei nuovi contagi (+238 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 14.6%, in diminuzione rispetto a ieri) e l’aumento dei decessi (+3.2 mila negli ultimi sette giorni). Crescono in misura più contenuta gli ingressi ospedalieri stimati.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +41.9 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.