Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Negli ultimi due giorni, la temperatura dell’epidemia ha ripreso a salire. Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 10 gennaio) segna 126.0 gradi pseudo-Kelvin ed è in aumento di 2.9 gradi (rispetto a sabato 9 gennaio).

Questo peggioramento è dovuto essenzialmente all’aumento dei nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati 120 mila nuovi casi rispetto ai 107 mila della settimana precedente). I decessi e gli ingressi ospedalieri stimati sono invece rimasti sostanzialmente stabili.

La variazione settimanale della temperatura è +9.4 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termostato

Sapete come funziona un termostato?

E’ semplice. Tu fissi la temperatura che vuoi, per esempio 19 gradi. Un rilevatore misura la temperatura dell’ambiente e, quando supera i 19 gradi, spegne il riscaldamento; quando invece va sotto i 19 gradi lo riaccende. La stessa cosa succede con un frigorifero che vuoi mantenere a – 4 gradi centigradi, o con un congelatore che vuoi tenere a -20 gradi. L’unica differenza è che il comando non è “riscalda” ma “raffredda”.

Perché parlo del termostato?

Perché oggi in Italia, ma anche in molti altri paesi europei (compresa la Germania), quella che si è imposta è la politica del termostato, applicata all’epidemia. Funziona più o meno così.

Il governo non può scontentare gli operatori economici, ma nello stesso tempo non è in grado di garantire che le attività lavorative, scolastiche, ricreative si svolgano in sicurezza. Quindi, anche se sa che il virus è ancora molto diffuso, lascia quasi tutto aperto o semi-aperto. Il virus ringrazia e allarga la sua presenza fra noi. A un certo punto qualcuno fa due conti e dice: ohibò, se andiamo avanti così il servizio sanitario nazionale va in tilt e questo, noi politici, non ce lo possiamo permettere. A quel punto cominciano le discussioni: se chiudere, quando chiudere, quanto chiudere, chi sacrificare e chi graziare. Alla fine si chiude, ma Rt non scende. Allora si chiude di più, Rt va sotto 1 per qualche settimana, i ricoveri ospedalieri diminuiscono, gli ospedali non sono più al collasso. A quel punto il partito della riapertura rialza la testa e prima o poi ottiene un alleggerimento delle misure, se non una riapertura totale. Passa qualche settimana e questa volta a rialzare la testa è il virus, che ricomincia a circolare più di prima. Il sistema sanitario va di nuovo in crisi, si deve chiudere di nuovo. E il ciclo si ripete.

I più ingenui (o più spregiudicati) dicono: resistiamo ancora 2-3 mesi, poi con la bella stagione e le vaccinazioni torneremo alla normalità. Chi lavora sui dati sa che non è vero, e che la politica del termostato – che non tutela né la salute né l’economia – è destinata a durare ancora a lungo.

Ma perché siamo finiti in questo imbuto che divora le nostre vite? Certamente la parte preponderante delle responsabilità è di chi ci governa. Sono loro che hanno imposto le regole, sono loro che non hanno saputo gestire le scuole, i trasporti, il tracciamento dei contatti, i tamponi, i flussi turistici, le quarantene, la medicina territoriale e tutte le altre cose che non sono state fatte, o sono state fatte male. Insomma, con altre scelte si potevano avere molti meno morti, e danni meno drammatici all’economia.

Però c’è un punto che resta sempre nell’ombra, e che invece è decisivo. La catastrofe è colpa della mala gestione dell’epidemia, ma la sconfitta è figlia di una scelta strategica sbagliata, che anche la più saggia e oculata gestione dell’epidemia non avrebbe potuto evitare.

Quale scelta?

La scelta di puntare tutto sul protocollo prevalente in Europa, che persegue la mitigazione dell’epidemia, anziché su quello prevalente in Asia e nell’emisfero Boreale, che persegue la soppressione (o quasi soppressione) del virus. E dire che, fin dalla fine di marzo, gli studiosi che si occupano di epidemia e di processi di diffusione, avevano perfettamente individuato la differenza fra i due protocolli, e la netta superiorità del protocollo orientale rispetto a quello europeo. Bastava studiare i dati e consultare gli esperti, per capire (o almeno leggere le lettere e gli appelli degli studiosi,  che fin dalla fine di marzo imploravano di cambiare strada). O anche solo farsi la domanda: perché in certi paesi (circa 1 su 3 fra le società avanzate) il virus è stato sradicato, o se non è stato completamente eliminato circola a bassissima intensità?

Ebbene, qual è, andando al nocciolo, la differenza fra i due protocolli?

E’ molto semplice: è la differenza che sussiste fra un frigo e un congelatore. In un frigo il termostato è regolato per tenere la temperatura a -4, in un congelatore per tenerla a – 20. Fuor di metafora: la soglia del protocollo europeo è quella che evita il tracollo del sistema sanitario nazionale, la soglia del protocollo orientale è quella, molto più bassa, che evita che vada in tilt il sistema di tracciamento. Giusto per dare un’idea: se si adotta il protocollo orientale l’allarme scatta quando il quoziente di positività (nuovi casi su soggetti testati) attraversa la soglia del 3%, se si adotta il protocollo europeo può persino succedere – come è accaduto in Italia a novembre-dicembre – che si tolleri un quoziente di positività del 25-30%. Se avessimo adottato la soglia del protocollo orientale l’allarme sarebbe scattato già il 25 settembre, se non prima, ovvero non appena il numero di nuovi casi fosse divenuto incompatibile con il tracciamento dei contatti.

La realtà è che le strategie prevalenti in Europa sono basate sull’andamento di Rt (indicatore della velocità del contagio), anziché sul controllo del quoziente di positività (indicatore del numero di positivi). La differenza è enorme.

Se punti tutto su Rt tolleri anche milioni e milioni di infetti, purché Rt non stia troppo sopra 1. E con milioni e milioni di infetti, intervenire ha costi umani ed economici spropositati, perché quando l’epidemia è fuori controllo solo il lockdown è in grado di arginarla.

Se invece punti alla soppressione del virus, ti adoperi per portare il coefficiente di positività vicinissimo a zero, perché anche poche migliaia di positivi sono troppi: e quando il numero di infetti diventa molto piccolo, il controllo dell’epidemia è infinitamente più facile, la paura non dilaga più, e l’economia respira.

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 gennaio 2021




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 dell’8 gennaio) la temperatura dell’epidemia è diminuita, passando da 118.3 a 117.2 gradi pseudo-Kelvin (-1.1 gradi).

Il calo dei nuovi contagi continua ad essere il fattore principale alla base del miglioramento (il numero di nuovi contagi in rapporto ai casi testati è pari al 30,8%, in diminuzione rispetto a ieri). Aumentano invece i decessi e gli ingressi ospedalieri stimati.

La variazione settimanale della temperatura è positiva e pari a 6.0 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Dopo una settimana di crescita, la temperatura dell’epidemia è tornata finalmente a diminuire. Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 7 gennaio) segna 118.3 gradi pseudo-Kelvin ed è in calo di circa 4 gradi.

Alla base di questo miglioramento vi è l’andamento dei nuovi casi, che calano rispetto a ieri, ma rimangono comunque ad un livello più alto di quello registrato sette giorni fa (nell’ultima settimana si sono registrati 113 mila nuovi casi rispetto ai 98 mila della settimana precedente). Diminuiscono anche i decessi, mentre tornano a crescere gli ingressi ospedalieri stimati.

Anche oggi la variazione settimanale della temperatura è positiva e pari a 9.6 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Di mutazioni e vaccini

Ma guarda un po’ che strano: il virus è mutato!

Lì per lì la notizia ha suscitato il solito bailamme mediatico, con l’annesso linguaggio “bellico” a cui siamo ormai abituati (purtroppo, perché in realtà è gravemente fuorviante), che però quasi subito è stato sopraffatto dall’analogo ma ancor più ampio bailamme sui vaccini, con gli “opposti estremismi” subito al lavoro, da una parte per esaltarne con toni irragionevolmente miracolistici le virtù salvifiche, dall’altra per denunciarne con toni altrettanto irragionevolmente apocalittici i presunti rischi. Tuttavia, le due questioni sono per molti versi connesse, per cui cercherò di chiarirle insieme, anche se per quanto riguarda i vaccini mi limiterò a quelli che ci riguardano da vicino, dato che in totale pare ce ne siano allo studio ben 237 (!) tipi diversi.

E cominciamo dalla prima brutta storia, cioè la variante inglese del virus. Qui la prima cosa da chiarire è che la sorpresa è del tutto ingiustificata, poiché questa non è affatto la prima variante del virus contenente mutazioni (in questo caso ben 17, acquisite apparentemente “in un colpo solo”), ma soltanto la prima che si è stabilizzata e che sta diffondendosi rapidamente. I virus, infatti, mutano in continuazione, dato che in sostanza sono dei frammenti di DNA o RNA che penetrano nelle cellule e sfruttano il loro sistema di trascrizione e traduzione genetica per produrre altre copie di sé stessi, cosa che da soli non sarebbero capaci di fare (il che, tra parentesi, è uno dei motivi per cui molti non considerano i virus degli esseri viventi a tutti gli effetti).

Ora, durante tale processo possono verificarsi degli errori, che danno origine alle mutazioni, il che accade ancor più frequentemente nei virus a RNA, come sono tutti i coronavirus, compreso quello del Covid, di cui infatti erano già state scoperte diverse mutazioni, che però finora avevano avuto una diffusione molto limitata. Il motivo è che la mutazione è solo il primo fattore dell’evoluzione. Il secondo è rappresentato, come sappiamo fin dai tempi di Darwin, dalla selezione naturale, che preserva solo le mutazioni che favoriscono la riproduzione e di conseguenza la sopravvivenza di ciascun organismo, virus compresi. Perciò, benché le mutazioni, essendo totalmente casuali, possano essere di qualsiasi tipo, quindi sia vantaggiose che svantaggiose per gli “ospiti” (cioè noi), verranno selezionate solo quelle che permettono al virus di produrre un maggior numero di “figli”, cioè di copie di sé stesso.

Questo ci fa capire quanto siano insensate e fuorvianti le idiozie che si continuano purtroppo a sentire, anche dai sommi vertici delle istituzioni, sulla “nuova offensiva” del virus o, peggio ancora, sul fatto che il virus avrebbe come “scopo” quello di ucciderci tutti: non solo, infatti, i virus non hanno alcuno scopo e non pianificano offensive di sorta, ma, se potessero, farebbero semmai il contrario, dato che sono essenzialmente parassiti e il parassita ideale non è quello che uccide il proprio ospite, ma quello che riesce a conviverci nel modo più efficiente.

E infatti a propagarsi su vasta scala sono sempre e solo le mutazioni che producono o una minor letalità (perché ciò aumenta il numero di individui che possono trasmettere il virus) o una maggior contagiosità (perché ciò aumenta il numero di individui a cui può essere trasmesso il virus), come è appunto il caso del ceppo inglese. Al contrario, le mutazioni che producono patologie più gravi tenderanno a estinguersi, e ciò tanto più rapidamente quanto più sono pericolose per noi, giacché quanto più presto e gravemente uno si ammala, tanto più rapidamente e rigorosamente viene isolato, riducendo così le opportunità di diffusione del virus, che si annullano addirittura quando uno muore.

Il problema è che purtroppo stavolta il ceppo più contagioso si è sviluppato prima di quello meno letale e un maggior numero di contagi significa anche un maggior numero di morti in termini assoluti (benché non in percentuale), ma ciò non toglie che la tendenza di lungo periodo di tutti i virus sia quella di diventare non più bensì meno pericolosi. Anzi, è già accaduto molte volte che dei virus (così come molti altri tipi di parassiti) si siano integrati a tal punto con i loro ospiti, compresi noi umani, da diventare non soltanto innocui, ma addirittura utili. Per esempio, tutti abbiamo certamente sentito parlare dell’importanza della cosiddetta flora batterica intestinale, ma quello che in genere non si dice è che i batteri sono solo una componente di essa, che in gran parte è composta proprio da virus, nonché da altri microrganismi di vario genere, tanto che in effetti dovrebbe più correttamente essere chiamata col suo nome tecnico di “microbiota”.

Ma c’è di più. Molti virus, infatti, sono addirittura entrati a far parte stabilmente del nostro DNA (si stima che ne costituiscano circa il 10%), perlopiù senza causare danni (anche perché quelli che l’avessero fatto si sarebbero rapidamente estinti) e a volte addirittura contribuendo con il DNA da loro apportato a salti evolutivi della massima importanza: di nuovo solo per fare un esempio, generalmente si ritiene che sia nata così la placenta in cui si sviluppano gli embrioni di gran parte dei mammiferi, compresi i nostri.

Questa è la base per rispondere anche all’obiezione principale che molti hanno sollevato contro i vaccini di nuova concezione che ci apprestiamo ad usare, cioè essenzialmente quelli di Pfizer/BioNTech, di Moderna e di AstraZeneca-Oxford: quello russo, infatti, è simile per concezione a quello di Oxford, ma mancano ancora dati affidabili sulla sua efficacia e sicurezza, così come anche su quello cinese e quello indiano, peraltro entrambi di tipo tradizionale. Poiché infatti i tre vaccini suddetti contengono frammenti di RNA virale (i primi due) o di DNA virale (il terzo), alcuni temono che possano causare mutazioni stabili nella specie umana. Per capire perché non è così, però, prima bisogna capire come funzionano. E, prima ancora, bisogna capire come funziona il virus del Covid (alzi la mano chi lo sa: credo che, nonostante tutto, siano ancora molto pochi).

Di per sé, il suo modo di agire non è molto diverso da quello degli altri coronavirus già noti: il suo genoma produce una certa proteina S (che sta per “spike”, ovvero protuberanza: sono infatti quelle che si vedono all’esterno e che gli danno la sua forma caratteristica) che si attacca a un’altra proteina, detta recettore, posta sulla superficie esterna delle nostre cellule, permettendogli di entrare al loro interno e quindi di sfruttare, come già detto, i loro meccanismi per generare copie di sé stesso. Quando ciò, accade, il nostro organismo ovviamente reagisce, in primo luogo con il sistema immunitario innato, che costituisce una difesa “generica” e che attacca per primo i corpi estranei, mentre al tempo stesso “sveglia” il resto del sistema, composto dai linfociti T e B, che generano reazioni più mirate, che però proprio per questo richiedono più tempo.

Ora, se il sistema immunitario innato funziona bene, facendo subito fuori una buona parte degli “intrusi”, allora l’organismo fa in tempo ad aspettare l’arrivo dei linfociti, che fanno piazza pulita prima che si sviluppino sintomi seri: questo è ciò che accade nella maggior parte dei casi ed è il motivo per cui la maggior parte dei contagiati resta asintomatica o quasi. Se però il sistema innato ha dei problemi, come spesso succede nelle persone più anziane e/o già debilitate da altre patologie, la sua reazione può essere troppo debole, nel qual caso il virus può produrre danni irreparabili generando gravi infiammazioni, oppure, all’inverso, può essere troppo violenta, nel qual caso l’infiammazione viene prodotta involontariamente dallo stesso sistema immunitario. In entrambi i casi, si crea un problema su cui i linfociti, quando arrivano, non sono più in grado di agire e che causerà sintomi gravi dati dalla distruzione dei tessuti, il danno irreversibile ad organi e, spesso, la morte.

Orbene, i vaccini a RNA di Pfizer/BioNTech e Moderna sono basati sul frammento del codice genetico del virus che produce la proteina S, che viene incorporato in una breve stringa di RNA messaggero, quello che serve a “tradurre” il nostro DNA nelle proteine di cui è fatto il nostro corpo. In tal modo, quando il frammento di RNA viene assorbito da una cellula, il meccanismo interno di quest’ultima entra in funzione, esattamente come farebbe per qualsiasi altro RNA messaggero, producendo la suddetta proteina S, che di per sé è innocua. Tuttavia, diffondendosi nell’organismo, essa viene riconosciuta come un corpo estraneo dal sistema immunitario innato, che si mobilita contro di essa, ma soprattutto “allerta” i linfociti T e B, che così sono già pronti ad attaccare il virus non appena dovesse entrare nell’organismo, dato che esso è per l’appunto ricoperto da tale proteina.

Poiché l’RNA è molto fragile, per impedire che venga distrutto prima di giungere a destinazione viene inglobato in una minuscola gocciolina costituita essenzialmente da lipidi (grassi), tutti normalmente presenti nel nostro corpo, stabilizzati da una sostanza sintetica chiamata polietilenglicolo (PEG). I casi di allergia di cui tanto si è parlato (peraltro pochi e non particolarmente gravi) sono stati causati proprio da tale sostanza e non dalla parte attiva del vaccino, che non si vede come possa dare problemi, dato che l’RNA messaggero è presente normalmente e in quantità ben maggiori in ogni cellula del nostro corpo.

Il vaccino di AstraZeneca-Oxford segue una logica simile, ma mantiene alcuni aspetti “classici”. Anch’esso, infatti, ha alla base l’idea di far produrre alle nostre cellule la proteina S senza introdurre nel nostro corpo il virus morto o indebolito, come fanno i vaccini tradizionali, però utilizza a tale scopo non un frammento di RNA, bensì di DNA, che viene inserito nel DNA di un adenovirus, capace di penetrare nelle nostre cellule senza causarci danni, dato che per noi è sostanzialmente innocuo. Ciò ha il vantaggio di basarsi su un metodo già collaudato, però rispetto ai vaccini a RNA implica un passaggio in più, giacché il DNA virale dovrà prima essere “trascritto” dalle nostre cellule in un RNA messaggero e solo successivamente potrà essere “tradotto” nella proteina S, il che aumenta il rischio che qualcosa vada storto.

In ogni caso, tutti questi vaccini presentano tre notevoli vantaggi rispetto a quelli tradizionali. Anzitutto, infatti, non c’è bisogno di introdurre nel nostro organismo il coronavirus, né vivo né morto, ma solo una sua piccola parte del tutto innocua. Inoltre, in tal modo si attivano sia i linfociti T che i B, mentre i vaccini tradizionali attivano solo questi ultimi, che sono meno efficaci. Infine, è relativamente facile modificare il vaccino se il virus dovesse mutare o anche qualora ci fosse bisogno di produrne una nuova versione contro un altro tipo di coronavirus, poiché a tal fine basta sostituire il frammento di codice genetico che codifica per la proteina S con un altro adatto alla nuova situazione.

Quanto all’eventualità che il frammento di RNA virale possa venire inglobato stabilmente nel nostro DNA, pur non potendola completamente escludere, dato che, come abbiamo visto, ciò si è già verificato nel corso dell’evoluzione (benché finora mai per un coronavirus), la cosa appare estremamente improbabile, giacché per entrare a far parte del nostro DNA il frammento di RNA virale dovrebbe prima entrare nel nucleo della cellula, mentre il processo di produzione della proteina S si svolge interamente al suo esterno, nel citoplasma, e al suo termine la molecola di RNA messaggero viene distrutta, esattamente come accade nel normale processo di trascrizione del nostro DNA.

In ogni caso, se anche per assurdo ciò dovesse accadere, quel che verrebbe eventualmente inglobato non sarebbe tutto il genoma del virus, ma solo un singolo gene che codifica per una proteina innocua e che oltretutto molto probabilmente resterebbe inattivo. Di sicuro, c’è una probabilità maggiore (benché sempre molto bassa) che ciò accada se ci si becca il virus, che, a differenza del frammento di RNA, quando è dentro al nostro corpo si moltiplica, moltiplicando così anche le occasioni di causare un pasticcio genetico: quindi, anche da questo punto di vista vaccinarsi non solo non aumenta il rischio, ma anzi lo riduce.

Quanto infine all’eccessiva fretta con cui i vaccini sarebbero stati approvati, anzitutto sarà bene ricordarci che noi abbiamo fretta, perché il nostro mondo non può reggere ancora a lungo in questa situazione e se dovesse mai verificarsi un collasso dell’economia su scala globale le conseguenze sarebbero pari a quelle di una guerra mondiale: anche correre qualche rischio più del normale sarebbe quindi più che giustificato. Ma la realtà è che non stiamo correndo nessun rischio particolare, giacché la parte più lunga della sperimentazione sui vaccini è quella necessaria a stabilire per quanto tempo ci garantiscono protezione, mentre quella per controllarne efficacia e assenza di pericolosità può essere svolta in pochi mesi, soprattutto se, come in questo caso, sono state messe a disposizione tutte le risorse necessarie. La miglior controprova è data dal vaccino dell’influenza, che è causata anch’essa da un virus a RNA, ma ancor più mutevole (circa il doppio) di quello del Covid, sicché ogni anno bisogna produrre un nuovo vaccino, cosa che viene fatta regolarmente in pochi mesi senza che finora abbia mai causato problemi.

Perché, allora, tutto questo allarmismo? La risposta è tanto evidente quanto preoccupante. Anzitutto, c’è il fortissimo stress emotivo a cui tutti da oltre dieci mesi siamo sottoposti, a causa della perversa combinazione di terrorismo mediatico, caos istituzionale, misure restrittive e sostanziale inefficacia delle stesse, il che genera una crescente difficoltà a mantenerci lucidi e obiettivi nei nostri giudizi. In secondo luogo, va considerata la sempre più evidente incapacità delle nostre classi dirigenti (e dicendo “nostre” intendo in particolare quella italiana, ma anche quelle del resto dell’Occidente: vedi i miei precedenti articoli del 29/10 e 23/12) di gestire adeguatamente la situazione e spesso perfino semplicemente di capirla, il che produce una diffidenza generalizzata verso le autorità di qualsiasi tipo, non solo politiche, ma anche mediche e scientifiche. Infine, abbiamo la tendenza, che va avanti ormai da lungo tempo, a dare sempre più credito alle teorie pseudoscientifiche e, più in generale, a ogni forma di complottismo, che in parte è certamente anch’essa frutto della perdita di credibilità delle nostre classi dirigenti, ma ha anche cause autonome, di cui una volta o l’altra dovremo pur cominciare a parlare.

In ogni caso, una cosa è certa: poiché sia la mutazione del virus che l’opposizione ai vaccini erano largamente prevedibili fin dall’inizio dell’epidemia, avere scelto di conviverci anziché provare ad estinguerla, come invece altri paesi hanno fatto con successo, è stata decisamente una pessima idea. E anche di questo dovremo riparlare.

(Ha collaborato Alberto Vianelli, biologo, docente di “Storia e storie della vita” presso l’Università dell’Insubria)