Credo che dalla fine delle dittature del ‘900 mai, in Occidente, si sia visto un giornalismo sleale, fazioso e asservito alla linea governativa, come si vede oggi in Italia. Punto; e a capo.
In termini scientifici, la questione richiede una ricerca più seria, che sta partendo in questi giorni grazie alla collaborazione tra l’Università IULM e l’Osservatorio di Pavia [anche se la posizione che esprimo qui è del tutto personale, e non riguarda in alcun modo il mio Ateneo]. In questa sede, vorrei soffermarmi più discorsivamente su tre strategie messe in campo dai media: l’esercizio sistematico di disinformazione, orientato a generare smarrimento ed allarme; l’imbarazzante difesa del Governo; infine, e specularmente, la continua ed inaccettabile criminalizzazione dei cittadini.
Quanto al primo argomento, parte del problema è senza dubbio la cattiva informazione scientifica, dovuta ad una perversa combinazione di fattori: l’incapacità dei giornalisti di leggere un paper di ricerca; il personalismo, ottuso e vanesio, dei medici chiamati ad intervenire in TV; la sciatteria di chi lavora nell’informazione; la rincorsa al titolo più rumoroso. Lascio la questione a chi si occupa di public understanding of science, una materia su cui ho poche competenze, per sollevare l’altra metà del problema: non la cattiva informazione, gestita in modo approssimativo e dilettantesco, ma la palese intenzione di seminare allarme e smarrimento nel pubblico. Un’intenzione evidente nella scelta di sottolineare sempre gli aspetti negativi – il dato in peggioramento anziché quelli in miglioramento, nel folle bollettino quotidiano del Sars-Cov-2 – e nella serie infinita di menzogne belle e buone che la stampa ha raccontato, sull’Italia e sullo stato generale dell’epidemia. In particolare è il paragone con le altre nazioni, su cui il pubblico medio ha maggiore difficoltà ad orientarsi, ad essere gestito in modo terroristico, mentendo senza ritegno sulle virtù di un “modello italiano” che non è mai esistito, e insistendo ogni giorno sull’aspetto peggiore del paese che vive il periodo peggiore, senza alcun rispetto per le proporzioni generali e senza nessuna visione di insieme. E perfino con buone ragioni, se la vediamo dal lato dei manipolatori: perché quello che appare evidente, se allarghiamo le linee dell’analisi, è che la correlazione tra la durezza del lockdown e la riduzione dell’epidemia è tutt’altro che scontata e assai difficile da dimostrare, senza contare gli spaventosi costi umani che ne derivano. L’analisi comparata di John Ioannidis[1], recentemente, mostra come le misure aggiuntive rispetto a quelle di precauzione generale – e segnatamente lo “stay-at-home” obbligatorio – non producano vantaggi misurabili. Cosa di fatto prevista dalla Dichiarazione di Great Barrington, il manifesto contro il contenimento scritto nello scorso ottobre da altri tre epidemiologi di fama mondiale [Martin Kulldorff, di Harvard; Sunetra Gupta, di Oxford; Jay Bhattarchaya, di Stanford], e firmato da 53.000 – cinquantatremila – tra medici e scienziati in cinque continenti[2]. Provate a verificare lo spazio concesso a questa posizione scientifica, nel dibattito italiano – ma vedrete che non servirà molto tempo.
Ammetto che la questione è tremendamente complessa, perché di fronte a processi così ampi è impossibile filtrare le variabili, e ridurre il tutto ad una chiara relazione di causalità: così che ognuno tende a selezionare i segmenti statistici in linea con la propria tesi di fondo, e io non faccio eccezione. Ma il punto critico è un altro, e nasce esattamente da questa incertezza epistemologica: misure di restrizioni tanto gravi ed illiberali possono essere giustificate soltanto dalla ragionevole certezza della loro utilità. E quindi sta a chi sostiene il confinamento dimostrarne la ragione scientifica, e non a chi lo contesta dimostrare il contrario – esattamente come tocca all’accusa l’onere della prova, e mai alla difesa. Affermare la sospensione dei diritti come azione preventiva – che “tanto male non fa”, come hanno il coraggio di dire certi anchor-men – non è altro che un esperimento di controllo sociale su vastissima scala, a cui dovremmo dedicare tutte le nostre energie critiche, tanto devastante è il suo effetto sui principi ultimi della convivenza civile e delle democrazie liberali.
Quello che ha così preso corpo, in un clima di incredibile conformismo, è il ribaltamento delle categorie valoriali su cui si fondano le democrazie: è la libertà che deve essere giustificata, e non la sua limitazione; le misure restrittive diventano uno scopo in sé, anziché una misura da applicare con cautela, in base a motivazioni scientifiche verificabili e solide legittimazioni giuridiche; e i dati – gestiti in modo opaco e arbitrario, con cambi continui delle variabili in gioco – contano meno del pretesto a cui possono essere piegati. E trovo singolare che quasi nessuno, tra chi si occupa di lavoro intellettuale, abbia la forza di vedere come la messa in disciplina del corpo sociale stia diventando – e certamente non solo in Italia – un problema ben più ampio di quello epidemiologico.
Il secondo peccato capitale, per quanto sta invece alla nostra contingenza politica, è la costante adulazione della maggioranza “giallorossa”, come piace dire ai giornalisti. Di un governo che ha portato il Paese agli ultimi posti in ogni categoria di valutazione, e che allo stato attuale è semplicemente il peggiore del mondo, se combiniamo tra loro i diversi indicatori: tasso di mortalità; letalità del virus; durezza delle misure di contenimento; mesi di chiusura delle scuole; impatto della crisi economica in termini di occupazione e di PIL; ritardo di programmazione per il piano Next Generation. Eppure, sommersa da risultati catastrofici da ogni immaginabile punto di vista, la stampa ha pensato bene di reggere il gioco al Governo, con tanto di celebrazione totalitaria di Giuseppe Conte, paragonato senza senso del ridicolo – in ordine sparso – ad Aldo Moro, Camillo Benso di Cavour, Winston Churchill, François Mitterrand, Giovanni Giolitti, Luigi Sturzo, Angela Merkel [e dal Fatto Quotidiano, pace all’anima nostra, perfino al leggendario Muhammad Alì di Kinshasa]. Osservate ad esempio le fotografie di Conte pubblicate dai quotidiani, o i video di un qualsiasi TG: l’inquadratura dal basso a costruire un’aura napoleonica; gli occhi che guardano lontano, come quelli di chi fissa l’orizzonte con intraprendenza; le immagini apparentemente rubate durante una giornata di lavoro, con l’obiettivo che mette in campo l’angolo della porta socchiusa; la camminata fiera e veloce, palesemente messa in scena per l’occasione. Intendiamoci, si tratta di soluzioni tecnicamente banali, perfino grette, da ufficio stampa di quarta categoria – ma tanto sembra bastare per i giornalisti italiani, che ritengono tutto questo normale.
Il terzo tema è fatalmente correlato al secondo, e riguarda la colpevolizzazione dei cittadini, di cui mi è capitato di scrivere già nella primavera del 2020[3]. Senza mezze misure, e senza eccezioni significative, i media di opinione hanno scelto da subito la loro battaglia: servire il Governo, e scaricare sui singoli la colpa dell’epidemia. Di qui, l’ossessiva ricerca del capro sacrificale: il vicino che porta a spasso il cane; i runner; la movida; le discoteche; le [presunte] feste clandestine; gli assembramenti di turno. A poco serve, far notare che l’Italia è il paese occidentale che ha imposto le misure più dure; che i dati del Ministero dell’Interno svelano un notevole rispetto delle regole, almeno per i nostri parametri, con una quota di multati mai superiore all’1% dei controllati; che incontrarsi all’aperto comporta rischi risibili; che ben altri sono i luoghi in cui il Covid-19 ha colpito duramente; o che, diciamolo una volta buona, vivere senza socialità e senza contatti fisici è semplicemente impossibile, ed è bene che così sia. Niente da fare: pensate a quante volte avete visto le immagini dello shopping o della cosiddetta “movida” – di norma schiacciate da un uso criminale del tele-obiettivo, per eliminare la profondità di campo – e quante poche volte avete sentito parlare dell’affollamento sugli autobus, delle infezioni contratte in ospedale, delle barbarie ripetute negli ospizi, dell’assenza di un piano epidemiologico, di un’assistenza sanitaria che non migliora mai [quando la cura dei malati, nella bufera di una crisi epidemiologica, è l’unica cosa che conta]. Chiedetevi quante volte avete sentito associare la colpa ai cittadini, e quante volte alla classe dirigente che ha la responsabilità di proteggerli; e anche qui, darvi una risposta non dovrebbe essere troppo complicato.
Assecondando in anticipo un’obiezione possibile, per quanto di scarso mordente: sì, certo, non tutti i giornalisti sono uguali; qualcuno ha mantenuto una linea di decenza; qualcuno ha fatto inchieste interessanti; qualcuno ha tirato fuori i dati reali e i reali problemi, e per questo ha subito la punizione squadrista degli opinionisti di apparato. Ma si tratta appunto di giornalisti, di singoli dotati di buone intenzioni, per lo più di area liberale; nulla che intacchi la linea editoriale delle testate più note, né tanto meno la collusione tra informazione e Governo [qui semmai l’unica eccezione, assai limitata, è data dai quotidiani della destra sociale]. E questo è un problema di drammatica urgenza, perché in nessun paese democratico la stampa prende di petto l’opposizione, anziché il governo; o perseguita sadicamente i cittadini, anziché tenere sotto controllo il potere. Il primo è un vizio tipico dei sistemi illiberali, e il secondo di quelli totalitari: e noi, è tempo di aprire gli occhi sulla realtà, subiamo da mesi sia l’uno che l’altro. E nessuno parla.
E’ infatti vero, bisogna essere onesti, che in questo disastro i giornalisti si trovano in ottima compagnia: ancora più avvilente è anzi il silenzio della classe intellettuale; e il suo tradimento, ben più doloroso. A fronte di una gestione cialtronesca e approssimativa; a fronte di risultati che sarebbero comici, se non contenessero in sé la tragedia della malattia e della morte; a fronte dell’abuso di potere più sistematico; davanti all’ignobile arroganza mostrata dagli uomini dello Stato, che bullizzano la popolazione anziché mettersi al suo servizio – di fronte a tutto questo, praticamente nessuno ha parlato, nel mondo della cultura, dell’arte, dell’opinione progressista, dell’accademia. Nulla di sorprendente, forse, trattandosi di un mondo largamente finanziato dallo Stato, e con vincoli tutt’altro che puerili con l’apparato di potere del Partito Democratico. Donne e uomini sempre pronti alla battaglia, quando si tratta di affrontare un nemico astratto, o localizzato qualche migliaia di chilometri più in là; tutti compiacenti e passivi, da quando gli arresti domiciliari, il coprifuoco e lo Stato di Polizia sono diventati storia di casa nostra.
Tutti in silenzio, ho detto; quasi tutti, è corretto dire, rendendo merito alle eccezioni, a partire dalla più luminosa: Giorgio Agamben[4], un pensatore studiato in tutto il pianeta, e messo serenamente ai margini qui da noi [e che anzi, anche nella Tv di Stato, è stato deriso da opinionisti che in un mondo normale non avrebbero diritto di spolverargli la scrivania]. Prima i giornalisti; poi l’intero campo della cultura; e da buon ultimo – per onestà – parliamo anche dell’ambiente di cui sono parte, la sociologia e la sociologia dei media. Perché a fronte di un tale stato dell’informazione, combattere soltanto le fake news in rete – e, guarda un po’ il caso, sempre quelle che conducono a Trump o a Salvini – smette di essere un atto di conformismo accademico, e rischia di diventare una forma di complicità. Mentre per le donne e gli uomini liberi, se ce ne sono ancora là fuori, è venuto il tempo di alzare la voce.
[1] J. Ioannidis, E. Bendavid, C. Oh, J. Bhattharcaya, Assessing Mandatory Stay-at-home and Business Closure Eeffects on the Spread of Covid-19, 2021, disponibile al sito https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/eci.13484.
[2] La dichiarazione di Great Barrington è disponibile al sito https://gbdeclaration.org/.
[3] A. Miconi, Epidemie e controllo sociale, Roma, manifestolibri, 2020.
[4] G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Macerata, Quodlibet, 2020. Per lo schema teorico su cui si fonda la sua analisi, inopportunamente banalizzata nel discorso pubblico italiano, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.