Scontro magistrati-politici: anche la politica ha le sue colpe
In primo pianoPoliticaChe, negli ultimi 30 anni, la magistratura sia esondata, andando molto al di là del ruolo che le assegna la Costituzione, non è una opinione, ma una constatazione che a nessuno storico del futuro parrà controversa. Che la politica voglia mettere fine a questo stato di cose, che mina l’autonomia del potere legislativo e del potere esecutivo, è perfettamente comprensibile, e più che ragionevole.
Quello che, invece, non mi pare adeguatamente compreso, è come si è arrivati a questa situazione, e quale sia il modo di uscirne. A dar retta ai detrattori della magistratura, pare quasi che la propensione di una parte dei Pm e dei giudici a venir meno ai doveri di neutralità e imparzialità, sia stata il frutto di una sorta di deviazione o degenerazione interna.
Ma non è andata così. O meglio: non è andata solo così. Se vogliamo guardare i fatti della nostra storia con un minimo di obiettività, è difficile non vedere che la degenerazione di una parte della magistratura ha anche cruciali cause esterne, anche molto remote nel tempo.
La prima sono le inadempienze della politica e, a dirla tutta, pure quelle della società civile. Quando si rimproverano i magistrati di “fare politica”, si dimentica che l’invadenza e l’arroganza del potere giudiziario sono anche il risultato di nostre mancanze, e di una sorta di delega che noi stessi abbiamo conferito. Se per tanta parte dell’opinione pubblica i magistrati sono diventati delle specie di giustizieri, è anche perché alla magistratura è stata affidata una sorta di funzione di supplenza nei confronti degli altri poteri pubblici. L’incapacità di fare i conti con la mafia, la corruzione, gli appalti truccati, l’evasione fiscale, lo spreco di denaro pubblico, hanno alimentato, in una parte dell’opinione pubblica, la speranza che la magistratura potesse fare quel che la politica non sapeva o non voleva fare.
C’è però anche una seconda causa, che ha reso abnorme il potere dei magistrati, e in particolare quello dei Pubblici ministeri: il modo in cui la politica è solita reagire alle inchieste e agli avvisi di garanzia nei confronti di propri esponenti. Quando un politico viene colpito dal sospetto, si assiste invariabilmente alla medesima commedia. Politici (e spesso giornalisti) della sua parte politica si sperticano in dichiarazioni di garantismo. Ma, dall’altra parte dello steccato che divide destra e sinistra, gli esponenti della parte avversa, dopo la rituale dichiarazione di garantismo, innocenza fino a prova contraria, auspicio che la giustizia faccia “piena luce”, pronunciano la parola chiave, quella che ribalta tutto e vanifica il garantismo: “però…”. E giù sospetti, allusioni, commenti alle notizie di stampa, fino al passaggio cruciale: l’invito a fare “un passo indietro” (anche se innocenti) in nome della “opportunità politica”. In sostanza, la richiesta di dimissioni.
In breve: qualsiasi avviso di garanzia a un esponente politico dà luogo, inesorabilmente, a una campagna di stigmatizzazione (e talora di odio) da parte della parte avversa, con conseguente e automatico coinvolgimento di tutti i maggiori media.
Ebbene, come non rendersi conto che questo è un formidabile assist alla magistratura?
Come non capire che è proprio la reazione pavloviana della politica a conferire ai magistrati un potere spropositato?
Come non vedere che, senza la certezza di quella reazione, nessun magistrato potrebbe perseguire la celebrità a colpi di avvisi di garanzia indirizzati al bersaglio grosso?
Se tutti i politici, come regola generale, si comportassero da veri garantisti chiunque sia sotto inchiesta, i media si darebbero una calmata, e la politica sarebbe al riparo dalle incursioni della magistratura.
Sarebbe un modo, per i politici, di garantirsi un’autoassoluzione permanente e automatica?
No, sarebbe il contrario. Non solo perché comunque le inchieste farebbero il loro corso, ma perché, evitando di gridare ogni volta “al lupo al lupo”, ci si metterebbe in condizione di essere creduti quell’unica o rara volta in cui il lupo c’è davvero. Se la richiesta di dimissioni cessasse di essere un rito consunto che non emoziona nessuno, ma fosse un evento eccezionale, che segnala la gravità di un comportamento, la politica diventerebbe più, e non meno, in grado di autodisciplinarsi. E ne guadagnerebbe non poco in termini di autorevolezza.