Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 22 luglio), il termometro dell’epidemia segna 1.7 gradi pseudo-Kelvin, confermando una fase di sostanziale stagnazione che perdura da più di una settimana.

Alla base di questo ristagno vi sono due fattori: da una parte la leggera diminuzione dei decessi giornalieri e degli ingressi ospedalieri stimati, dall’altra il lieve aumento dei nuovi contagi.

Come ieri, la variazione settimanale della temperatura è positiva e pari a +0.1 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




L’epidemia nelle province

Di Rossana Cima e Luca Ricolfi

Ormai da cinque giorni il termometro dell’epidemia segnala una situazione di sostanziale stazionarietà dei contagi. Se però si scende più nel dettaglio si vede come il dato nazionale sia il risultato di dinamiche differenti, non di rado opposte, nelle diverse zone d’Italia (una polarizzazione fra territori che risulta anche dall’andamento dei valori regionali di Rt, come calcolati dall’Istituto Superiore di Sanità nell’ultimo report settimanale).

In base ai dati ufficiali aggiornati al 20 luglio, sono 12 (su 97) le province in cui la curva epidemica mostra preoccupanti segnali di ripresa. Otto di queste (Padova, Savona, Ravenna, Venezia, Reggio Emilia, Treviso, Salerno e Cosenza) registrano – fra il 14 e il 20 luglio – un incremento di nuovi casi superiore a 15 rispetto alla settimana precedente (7-13 luglio).

Vi sono poi altre 12 province (Brindisi, Udine, Rovigo, Arezzo, Pordenone, Massa Carrara, Perugia, Bari, Cagliari, Teramo, Grosseto e Pesaro e Urbino) in cui si osserva un trend in leggerissimo aumento. Ma qui i segnali sono meno nitidi. Solo nei prossimi giorni si capirà se la curva epidemica tornerà a calare oppure no.

Continuano a registrare un numero di nuovi contagi significativo Varese, Monza e Lodi, anche se il trend dell’ultimo periodo tende alla stabilità. Stabili sono anche gli andamenti di Trieste, Vicenza, Sondrio e Prato, ma in questi casi il numero di nuovi contagiati è più contenuto.

Il trend è invece altalenante per Firenze, Parma, Rimini, Bolzano, Bologna, Cremona, Forlì-Cesena e Piacenza. Rispetto alla settimana precedente (7-13 luglio) i nuovi casi sono in diminuzione, ma il loro numero rimane comunque alto.

L’epidemia dà invece chiari segni di rallentamento in 10 province (Lecco, Novara, Genova, Como, Milano, Brescia, Bergamo, Alessandria, Torino e Pavia).

A queste 10 province se ne aggiungono altre 11 (L’Aquila, Ferrara, Latina, Cuneo, Vercelli, Roma, Caserta, Mantova, Imperia, Avellino e Lucca) dove, dopo una fase crescente, la curva epidemica ha invertito la sua corsa ed ha iniziato a diminuire.

Sono invece 35 le province (fra esse troviamo Benevento, Campobasso, Isernia, o province del Nord come Aosta, Asti e Verbania) dove la curva del contagio è molto vicina a zero o, comunque, il numero di nuovi casi settimanali risulta contenuto.

Undici sono dunque le province che, nell’ultima settimana, hanno mostrato chiari segni di ripresa dei contagi.

Per capire se l’epidemia sta rallentando possiamo anche guardare all’andamento del numero di province in cui l’incremento settimanale di nuovi casi è superiore alla media nazionale.

Questo indicatore, molto più sintetico, ci dice che la situazione è relativamente migliorata rispetto a metà luglio. Una settimane fa si contavano una trentina di province con una densità di nuovi casi ogni 100 mila abitanti superiore alla media italiana. Oggi questo numero è sceso a 22.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi sono quelli diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile aggiornati al 20 luglio (ore 18).

La serie storica dei dati provinciali è stata ricalcolata per tenere conto dell’interruzione di serie che si è verificata il 24 giugno in seguito alla nuova classificazione dei casi positivi (non più in base alla provincia in cui è avvenuta l’ospedalizzazione, ma in base alla residenza della persona risultata positiva al COVID-19).

Data l’impossibilità di stabilire, provincia per provincia, che cosa è effettivamente avvenuto tra il 23 e il 24 giugno, i dati sono stati ricalcolati assumendo che, fra le due date, gli incrementi giornalieri dei nuovi casi fossero pari a zero.

Dall’analisi sono state escluse le province della Sicilia e la provincia di Trento perché oggetto di consistenti ricalcoli.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 21 luglio), la temperatura dell’epidemia è rimasta invariata a 1.7 gradi pseudo-Kelvin, confermando il ristagno degli ultimi giorni.

Il lieve miglioramento degli ingressi ospedalieri stimati è stato controbilanciato dalla stabilità dei decessi giornalieri e dei nuovi contagi.

La variazione settimanale della temperatura è positiva e pari a 0.1 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 20 luglio), la temperatura dell’epidemia è rimasta invariata a 1.7 gradi pseudo-Kelvin. É da circa una settimana che il termometro oscilla intorno a questo valore.

Il ristagno è dovuto alla sostanziale stabilità di tutte e tre le componenti che concorrono al calcolo dell’indice (decessi giornalieri, ingressi ospedalieri e nuovi contagi).

La diminuzione settimanale della temperatura è inferiore al decimo di grado.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Il lassismo sanitario prepara lo scenario B?

Nelle ultime settimane le valutazioni sull’epidemia sono lentamente ma abbastanza inesorabilmente cambiate. Alle rassicurazioni di metà giugno si sono sostituite le preoccupazioni sui numerosi focolai che si stanno accendendo in varie parti d’Italia, e dalla retorica della ripartenza stiamo lentamente tornando a quella della prudenza.

E’ giustificato questo cambiamento di accenti?

Sì, è più che giustificato, semmai è un po’ tardivo. I segnali di una ripresa dell’epidemia c’erano già un mese fa, e semmai stupisce che non siano stati colti prima. La vera novità, tuttavia, non sta in un’inversione di tendenza nell’andamento complessivo dell’epidemia, che da diverse settimane è sostanzialmente stazionario (il termometro della fondazione Hume oscilla intorno ai 2 gradi pseudo-Kelvin dal 26 giugno). La vera novità è la polarizzazione fra territori in cui l’epidemia continua a rallentare, e territori in cui tende a rialzare la testa. Fra questi ultimi si segnalano alcune regioni, come il Veneto, l’Emilia Romagna, il Lazio, la Campania, ma soprattutto si segnalano circa 35 province critiche, in cui la curva dei contagi ha ripreso a salire (per i dettagli vedi qui).

E’ in questo contesto di crescente preoccupazione che, non solo fra le autorità politiche e sanitarie, ma anche fra i virologi, riprende quota il timore di una seconda ondata in autunno. Certo, lo scenario A, o scenario auspicato, continua ovviamente ad essere quello di un’epidemia che lentamente si spegne, o tutt’al più si manifesta in piccoli focolai facilmente controllabili. Accanto a tale scenario, tuttavia, sempre più frequentemente viene evocato lo scenario B, quello di un ritorno in grande stile del contagio dopo l’estate.

Come mai, in poche settimane, quella che pareva una profezia isolata sta diventando un timore diffuso?

Le ragioni fondamentali, a mio parere, sono quattro, di cui una dicibile e le altre tre accuratamente tenute sullo sfondo del discorso pubblico.

La ragione dicibile è che molti studiosi e scienziati si stanno convincendo che la velocità di circolazione del virus sia pesantemente influenzata dalle condizioni climatiche, che ora – con le alte temperature estive e la possibilità di trascorrere molte ore all’aperto – sono le più favorevoli possibile (mentre nell’altro emisfero, in particolare in America latina, sono le più pericolose possibile: alla nostra estate corrisponde il loro inverno). Questo significa che, con l’arrivo della cattiva stagione, le misure che ora bastano ad evitare un’esplosione dell’epidemia potrebbero non essere  più sufficienti.

Ma passiamo alle ragioni meno dicibili. Tutte hanno a che fare con le scelte del governo, e proprio per questo vengono raramente evocate. Ma è bene esserne coscienti, se non altro per prepararci agli eventi.

La prima ragione di preoccupazione è l’apertura delle frontiere, e in particolare il via libera ai flussi turistici. Non è un mistero che una parte considerevole degli attuali focolai è legata a spostamenti fra nazioni. Né ci vuole una particolare scienza per comprendere che molto difficilmente una pandemia può essere contenuta e vinta senza forti limitazioni dei flussi internazionali. Per non parlare dei problemi che, di qui a breve, potrebbero sorgere con l’ingresso incontrollato di migranti dall’Africa, con percentuali di positivi che attualmente sono già dell’ordine del 20% (1 su 5).

La seconda origine dei timori è il tradimento della solenne promessa di fare più tamponi, formulata dalle autorità sanitarie nella prima metà di maggio: dopo una breve stagione di aumento, dalla fine di maggio il trend del numero di persone testate è sempre stato calante. E meno tamponi significa meno possibilità di controllare e spegnere l’epidemia.

Ma la ragione più importante per cui l’eventualità di una seconda ondata deve essere presa in seria considerazione è che il governo, consapevolmente (e diversamente da quanto aveva fatto ai tempi del lockdown), ha scelto di non sanzionare la violazione delle regole che esso stesso ha imposto. Dopo la stagione dei controlli a tappeto, delle multe, delle denunce, talora ai limiti del ridicolo (inseguire bagnanti e passeggiatori solitari), ora la parola d’ordine è: fare finta di niente. Spiagge affollate, movida senza freni, mascherine abbassate (o assenti) in molti negozi e ambienti chiusi sono tutte cose che non interessano più le forze dell’ordine.

E’ comprensibile, se si pensa che la principale forza di opposizione – lungi dal pretendere il rispetto delle regole – accusa il governo di eccessiva severità (“gli italiani vogliono vivere senza distanziamento sociale”). Si deve capire, però, che se oggi la linea del lassismo sanitario – grazie alle condizioni climatiche – si limita a far nascere qualche focolaio in più, domani potrebbe produrre effetti di ben altra portata. Non solo nel senso che le abitudini imprudenti acquisite nell’estate potrebbero dispiegare i loro effetti fra qualche mese, quando il “generale inverno” si alleerà con il virus. Ma anche in un altro senso: se fra qualche mese dovesse presentarsi lo scenario B, e dovessimo essere costretti a un altro lockdown, i danni per l’economia sarebbero devastanti. E verosimilmente più grandi di quelli che subiremmo oggi se ci attenessimo a una linea più prudente, o meno ossessionata dalla preoccupazione di tutelare l’economia qui e ora, anziché proteggerla nella lunga durata.

Pubblicato su Il Messaggero del 18 luglio 2020