L’Italia e gli altri

Il Bollettino di oggi (venerdì 4 settembre), torna ad occuparsi dell’andamento dell’epidemia in Italia e in altri 49 paesi per capire dove sta ancora avanzando e dove invece la situazione appare più rassicurante (in base ai dati disponibili il 2 settembre).
A differenza dei precedenti contributi, ci baseremo sull’andamento dei decessi in rapporto alla popolazione. Questo ci consentirà non solo di analizzare l’evoluzione dei contagi, ma anche di valutare la gravità dell’epidemia.

La situazione è ben rappresentata nei grafici seguenti. Dei 50 paesi analizzati, 8 presentano un tasso di mortalità in aumento. Fra questi troviamo alcuni paesi dell’Est-Europa recentemente interessati da un riaccendersi di focolai, ma anche paesi come Israele, Spagna e Grecia.
Colpisce il caso della Grecia. Fino a qualche settimana fa contava un numero di decessi settimanali contenuto, ma nelle ultime due settimane di agosto ha iniziato a registrare incrementi settimanali superiore al valore mediano (calcolato sull’insieme dei paesi analizzati in base ai dati riferiti al 2 settembre).

In altri 4 paesi (Australia, Bosnia, Bulgaria e Macedonia), la tendenza di lungo periodo è quella dell’aumento, anche se negli ultimi giorni la curva epidemica ha iniziato a rallentare e a tendere verso il basso.

Una lievissima tendenza al rialzo si osserva invece in Giappone (che rimane comunque ancora al di sotto del valore mediano registrato dall’insieme dei paesi analizzati) e in Polonia.

La curva epidemica risulta essere ancora elevata, ma tendenzialmente stabile, in Brasile e Messico. Ed anche in Russia il trend non sembra registrare significative variazioni.

Sono invece 9 i paesi in cui si registrano segnali di miglioramento.
Qui troviamo il Belgio, che ha iniziato a registrare incrementi settimanali in linea con il valore mediano dopo il picco di metà agosto, e gli Stati Uniti, dove la curva del contagio continua ad essere elevata ma in lieve diminuzione da fine luglio.

Lievi miglioramenti si osservano in Lituania, Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Portogallo.

Appare rassicurante anche la situazione di Lettonia, Germania, Danimarca, Italia, Austria, Ungheria, Irlanda e Norvegia.
È da fine luglio che il nostro paese presenta incrementi settimanali inferiori al valore mediano. Si tratterà di vedere nei prossimi giorni come evolverà la curva dopo l’aumento dei contagi registrato a fine agosto.

Canada e Francia presentano una curva che fluttua intorno al valore mediano. Quella del Canada risulta tendenzialmente più stabile, mentre quella della Francia sembra tendere lievemente verso l’alto.

Sono invece 6 i paesi con un profilo di convergenza a zero-contagi o comunque molto vicino allo zero

Meno chiaro è invece l’andamento dell’epidemia in Slovenia, Montenegro, Moldavia e Svizzera. Qui, la curva epidemica presenta forti oscillazioni ed è quindi difficile capire in quale direzione si muoverà in futuro.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi provengono dal database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 2 settembre.
Quanto possibile, i dati sono stati corretti per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalle autorità nazionali che hanno fornito il dato.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 3 settembre) la temperatura dell’epidemia è leggermente aumentata, passando da 6.4 a 6.5 gradi pseudo-Kelvin (+0.1).

Questo peggioramento si deve al lieve aumento degli ingressi ospedalieri stimati (in crescita per il terzo giorno consecutivo, anche se oggi l’incremento è stato più modesto rispetto ai giorni precedenti) e dei decessi. Sono invece rimasti sostanzialmente stabili i nuovi contagi.

La variazione settimanale della temperatura è pari a +1.0 grado.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




Altro che modello italiano sulla pandemia. Intervista a Luca Ricolfi

Un anno particolare, segnato dalla pandemia e da una crisi economica senza precedenti. Dove si torna a discutere del ruolo dello stato sociale e soprattutto della scuola e della sanità pubblica in una società, quella italiana, per la quale Luca Ricolfi, politologo e sociologo, ha coniato l’espressione “società signorile di massa” (una società dove molti consumano ma pochi producono perché si fonda sulla ricchezza accumulata dai padri).

Professor Ricolfi, mancano meno di due settimane all’inizio dell’anno scolastico. Lo considera l’ultimo banco di prova della tenuta dello stato di emergenza? Si sente ottimista?
Né ottimista né pessimista, perché purtroppo mancano (o meglio sono secretati) i dati che permetterebbero di formulare previsioni solide. Quello che posso dire, con i pochi dati che la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità rilasciano, sono essenzialmente due cose.
La prima è che fra i paesi avanzati, che sono una trentina, solo tre – Belgio, Spagna e Regno Unito – hanno un bilancio complessivo di morti (per abitante) peggiore di quello dell’Italia.
La seconda è che, se guardiamo al solo mese di agosto, le cose vanno un po’ meglio per noi: l’Italia è intorno alla metà della classifica fra i paesi avanzati, e fra i grandi paesi solo Germania, Giappone, Corea del Sud, presentano tassi di mortalità più bassi dei nostri.

Didattica a distanza, cattedre vuote, edilizia scolastica in condizioni critiche, è il momento di ripensare tutto il modello della nostra istruzione pubblica oppure non c’è spazio che per la gestione dell’emergenza?
Veramente è da mezzo secolo che sarebbe il momento di ripensare il sistema dell’istruzione. Magari non pensando solo all’edilizia e alle graduatorie dei precari ma anche al fatto che la qualità dell’istruzione (e dei docenti) si è abbassata drammaticamente, e ora con la didattica a distanza si appresta a ricevere il colpo di grazia. Travolte dalle pressioni a promuovere, per dare all’Europa i numeri che pretende, scuola e università sono diventate macchine per produrre false certificazioni, o meglio certificati veri indistinguibili da quelli falsi.

Altri Paesi adesso guardano con interesse al modello Italia, almeno per la gestione sanitaria del Covid-19.  Crede che la nostra consapevolezza e la profilassi ormai entrata nelle abitudini quotidiane ci eviteranno un ritorno al lockdown?
A giudicare dai risultati, sconsiglierei qualsiasi paese di seguire il modello italiano, fatto di ritardi, disorganizzazione, leggerezza nel far rispettare le regole, incapacità di far ripartire l’economia. Siamo al 4° posto in Europa come numero di morti per abitante, e all’ultimo come andamento del Pil 2020. Come si fa a parlare di modello italiano?
Se dovessi additare dei modelli, citerei piuttosto quello della Germania e quello della Corea del Sud, due paesi che molti media stanno descrivendo come attualmente più inguaiati di noi, ma che in realtà si stanno comportando meglio: anche considerando il solo mese di agosto, il numero di morti per abitante della Germania è poco più della metà di quello dell’Italia, e quello della Corea del Sud è circa un sesto.

Emergenza sanitaria ed economia non sono mai stati così correlati. Quando saremo fuori dal pericolo del contagio tornerà il modello economico che è entrato ora in crisi o cambierà qualcosa?
Una cosa nuova ci sarà di sicuro, anche se la pandemia dovesse miracolosamente sparire nel 2021: il mondo occidentale si troverà ad avere perso ulteriori posizioni nella competizione con la Cina.
Sul fatto che possa tornare il modello economico precedente, ho i miei dubbi, almeno per l’Italia. Noi eravamo già una “società signorile di massa” in declino. Questi mesi li abbiamo usati per tappare le falle e congelare tutto, senza la minima attenzione a creare le condizioni di una ripartenza. Quel che mi aspetto, quindi, è un brusco risveglio nel primo semestre 2021, quando ci si accorgerà che non si può andare avanti in eterno con i sussidi e il blocco dei licenziamenti.

Lo smart working secondo lei cambierà il volto delle nostre città e il settore dei servizi?
Sì, lo cambierà, con un abbattimento parallelo dei costi e della qualità.

Più volte lei ha lamentato in passato il rischio di finanziamenti a pioggia per riparare i danni economici di questa crisi. Ma è davvero possibile in un momento simile pianificare interventi a lungo termine?
Certo che è possibile, basta togliere la parola “pianificare”. Non si tratta di pianificare, ma di creare un ambiente – meno tasse e meno burocrazia – che consenta ai produttori di restare sul mercato o di entrarvi. L’alternativa è di diventare una “società parassita di massa”, in cui una piccola minoranza lavora e la maggioranza vive di trasferimenti.

Dalle prime misure di marzo a oggi il governo ha dovuto prendere decisioni poco popolari. Ora che siamo tornati in campagna elettorale crede sia difficile conquistare il consenso degli elettori senza perdere di vista il bene comune?
Era già impossibile prima, figuriamoci oggi. Il governo Conte è un mirabile esempio di esecutivo basato esclusivamente sulla massimizzazione del consenso, anzi del consenso di breve periodo.

A proposito di elezioni, cosa pensa del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari?
Penso che qualsiasi cosa si voti si sbaglia. Votando sì, si legittima il qualunquismo grillino, e si rafforza un governo che ha già notevolmente compromesso il nostro futuro. Votando no ci si accoda a un penoso tentativo di vestire di nobili intenzioni (la Costituzione, la Democrazia, ecc.) la fame di posti del ceto politico.

Le Regionali in piena pandemia e durante una conclamata crisi economica che banco di prova rappresentano per il governo?
Nessuno può saperlo. Se hanno avuto il fegato di fare un governo che se ne infischia di un voto politico (quello del 2018), non mi stupirei restassero abbarbicati al potere di fronte a un voto amministrativo, anche dovessero perdere in 6 Regioni su 6. Se proprio devo immaginare degli scenari capaci di mettere in crisi l’attuale governo, le eventualità che mi vengono in mente sono altre, nessuna auspicabile: 1 milione di posti di lavoro distrutti, una tempesta finanziaria, una nuova chiusura di scuole e università, una proliferazione dei focolai e dei connessi lockdown.

Intervista di Pierfrancesco Borgia  a Luca Ricolfi, Il Giornale, 2 settembre 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 2 settembre) la temperatura dell’epidemia è rimasta invariata a 6.4 gradi pseudo-Kelvin.

La stazionarietà della temperatura dipende da due tendenze opposte: l’aumento degli ingressi ospedalieri stimati è stato controbilanciato dalla leggera diminuzione dei decessi e dei nuovi contagi settimanali.

La variazione settimanale della temperatura è pari a +1.3 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla nota tecnica




L’economia risarcitoria

Lo so che è doloroso, lo so che preferiremmo tutti non doverci pensare. Ma bisognerà pure, a un certo punto, dirci qualcosa di realistico sull’economia italiana.

Di quanto sarà la contrazione del Pil 2020 in Italia e negli altri paesi avanzati? In quanti anni torneremo ai livelli del 2019? E quanti ne occorreranno per tornare ai livelli del 2007, prima della grande recessione? Quanti posti di lavoro verranno bruciati? Come faremo a ripagare l’enorme debito aggiuntivo che stiamo contraendo con l’Unione europea e con i mercati finanziari?

A giudicare dal dibattito politico in corso, non parrebbe che i nostri governanti se ne curino troppo. Eppure il nostro futuro non dipenderà dall’esito del referendum, né da chi vincerà le elezioni regionali, né dai banchi a rotelle della Azzolina, né da quanti migranti sbarcheranno sulle nostre coste prima che i mari agitati dell’inverno mettano tutti d’accordo. Con ogni probabilità, il nostro futuro dipenderà da due cose soltanto: il successo o insuccesso della scienza nella lotta al coronavirus (vaccino e cure), e la saggezza o stoltezza delle scelte economico-sociali dei nostri governanti.

Sul primo punto, quello della scienza, siamo nel buio più totale. Potrebbe andare bene, ma anche malissimo. Nessuno lo sa, e nessuno può saperlo.

Sul secondo punto, le scelte dei politici, invece qualcosa lo sappiamo. Sappiamo, ad esempio, che finora il partito dell’economia (riaprire prima possibile e convivere con il virus) è prevalso su quello della prudenza (mantenere e far rispettare le misure più severe, come il distanziamento, le mascherine, il divieto di assembramento). Quel che non tutti hanno ancora capito, invece, è quali siano i costi del prevalere del partito delle “riaperture” e delle “ripartenze”. Un costo certo e facilmente prevedibile (e di fatto previsto da molti) è l’impossibilità di riaprire le scuole in sicurezza. Quando si è deciso di tenere aperte le discoteche e chiudere un occhio sugli assembramenti (movida e mezzi pubblici) si è anche scelto, al tempo stesso, di sacrificare la riapertura in sicurezza delle scuole (che non generano Pil) all’imperativo di sostenere l’industria delle vacanze e del divertimento (che un po’ di Pil lo genera). E’ inutile negarlo, o arrampicarsi sugli specchi: questo governo la sicurezza delle scuole non l’ha mai messa al primo posto, altrimenti avrebbe dato ascolto a quanti, anche nel Comitato Tecnico-Scientifico, avvertivano dei rischi.

Se il costo sociale e sanitario della incauta riapertura estiva è evidente, più controverso è un secondo costo, questa volta genuinamente economico. E’ certo che la linea permissiva su viaggi, spiagge, discoteche, movide, vaporetti, autobus, treni, ha generato benefici economici, o se preferite ha contribuito a contenere i danni. Ma non è affatto certo che tali benefici siano maggiori dei danni che, nei prossimi mesi, inevitabilmente deriveranno all’economia dalla moltiplicazione dei focolai e da nuovi lockdown. Se i costi autunnali (nuovi focolai) dovessero risultare superiori ai benefici estivi (più turismo), al danno inferto alla scuola si aggiungerebbe la beffa di aver danneggiato pure l’economia.

Ma torniamo alle domande sull’economia. Le stime più recenti assegnano all’Italia l’ultimo posto nella graduatoria del Pil 2020, con una caduta che potrebbe risultare più vicina al 15% che al 10%. Quanto al futuro, neppure per l’Europa nel suo insieme si attende un ritorno ai livelli del 2019 prima del 2023.

E per l’Italia che cosa è ragionevole attendersi?

Difficile dire che cosa succederà a noi, perché molto dipenderà dall’esito della guerra al virus. Però non è difficile immaginare che cosa faranno loro, i nostri governanti. Lo scenario più verosimile è che continuino sulla linea seguita fin qui, che ha avuto il dono della coerenza, sia sul piano dei provvedimenti economico-sociali che su quello della filosofia che li sorregge.

La logica dei provvedimenti è stata chiara. Distribuire soldi a pioggia (e con ritardo), più per sostenere i consumi che per tutelare i produttori di reddito. Agire come se le risorse che l’Europa e i mercati finanziari ci hanno permesso di spendere fossero a fondo perduto, anziché prestiti da restituire. Congelare tutto con la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti, per spostare il più avanti possibile nel tempo (e comunque dopo le elezioni di settembre-ottobre) il momento della resa dei conti, quando tutti potranno vedere a occhio nudo le macerie, fatte di chiusure, fallimenti e posti di lavoro distrutti.

Si potrebbe riassumere tutto ciò con la consueta accusa di assistenzialismo, un male che ormai ha contagiato quasi tutta la politica. Ma sarebbe riduttivo e semplificatorio, a mio parere. Quello che è emerso, in questi mesi, è qualcosa di più radicale e più pericoloso. La filosofia che ha mosso la politica, e che ha catturato il consenso degli italiani, non è basata sulla vecchia (e nobile) idea che i più deboli debbano essere assistiti, sussidiati, aiutati. No, l’idea che si è imposta in questi mesi è che nessuno dovesse perdere alcunché, e che tutti avessero diritto a un risarcimento. Il sostengo indiscriminato ai redditi e ai consumi, dal bonus vacanze al super-bonus per le ristrutturazioni energetiche, dal bonus monopattino a quello per le partite Iva (intascato da alcuni parlamentari!), non poggiavano solo sulla credenza che il motore della ripresa non potessero che essere i consumi, ma anche su una sorta di dottrina o filosofia del risarcimento. Colpiti nei redditi e repressi nelle abitudini di vita, gli italiani sono stati ritenuti degni di risarcimento su tutta la linea. Così abbiamo sentito non solo promettere l’impossibile (“nessuno perderà il suo lavoro”), ma anche garantire diritti per così dire esistenziali, come quelli al divertimento e alle vacanze senza restrizioni, che i due mesi di lockdown hanno reso sacrosanti come altri e più antichi valori della nostra tradizione politica e civile.

Quel che è sfuggito, e tuttora sfugge ai cultori dell’economia del risarcimento, è la differenza tra un terremoto locale e una guerra. Quando c’è un terremoto, è logico e realistico che la comunità colpita chieda alla comunità più ampia di aiutarla, risarcendola più o meno integralmente delle perdite subite. La stessa logica, purtroppo, non si applica nel caso di una guerra, che produce perdite generalizzate che nessuno Stato centrale è in grado di ripianare. E infatti, in una guerra, nessuno pensa in termini di risarcimenti, o pretende che lo Stato ricostruisca celermente la sua abitazione distrutta da un bombardamento.

Ora, il punto cruciale è che quella contro il Covid è una guerra che stiamo perdendo, e che comunque – anche se domani dovessimo trovare un vaccino – ci lascerà tutti molto meno ricchi di prima. Quella italiana era, fino a ieri, una “società signorile di massa” in lento declino. Oggi è una società che, improvvisamente, si trova a non poter conservare il proprio tenore di vita passato, ma non ha alcuna intenzione di rinunciarvi e prendere atto del cambiamento, preferendo cullarsi nell’illusione che ogni cosa possa presto tornare come prima. La filosofia risarcitoria che tutto e tutti pervade ci sta conducendo a diventare una società parassita di massa, in cui allo Stato viene chiesto di sostenere il reddito di chi non produce nulla, ma non di ripagare i debiti che a questo scopo è costretto a fare.

Si potrebbe pensare che la colpa sia di questo governo, e che un governo diverso farebbe cose sostanzialmente diverse. Ma anche questa è un’illusione. L’opposizione politica è leggermente meno assistenzialista di chi ci governa, ma non è di un’altra pasta. Il copyright di “quota cento” è della Lega, e l’ossessione per la riapertura è ancor più forte fra gli esponenti dell’opposizione che fra quelli di governo.

La realtà è quella di sempre: gli italiani hanno la classe politica che si meritano. I politici fanno molti errori, che saranno evidenti fra vent’anni e nei libri di storia del futuro. Ma se sbagliano è, prima di tutto, perché inseguono le nostre illusioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 agosto 2020