La tenda a ossigeno

Da qualche settimana siamo sommersi dai “segno +”. Di qualsiasi cosa si parli, consumi, esportazioni, inflazione, occupazione, disoccupazione, fiducia dei consumatori, pressione fiscale, Pil, è tutto un compiacerci che finalmente la barca va, il Paese si è rimesso in moto. Tv e giornali non si stancano di riprendere, con grande risalto, ogni bit di nuova informazione statistica sui progressi dell’Italia.

Questo profluvio di buone notizie, tuttavia, non ha impedito ai commentatori più attenti (e inascoltati), di puntare l’attenzione anche sull’unico vero grave fattore di rischio dell’Italia: l’andamento della finanza pubblica. Detto in poche parole, il timore è che, dopo la grande sbornia delle promesse elettorali, a primavera l’Italia si possa trovare di nuovo in una situazione molto critica, come nel 2011.

Sono giustificati questi timori?

Difficile dare una risposta secca, perché ci sono fattori che stanno riducendo i nostri rischi, e altri che li stanno aumentando. Fra i fattori favorevoli, che ci proteggono dal rischio di una crisi, si devono menzionare soprattutto tre elementi che nel corso del 2017 hanno ridotto la vulnerabilità dei nostri conti pubblici: la crescita del Pil, la ripresa dell’inflazione, la riduzione della quota di debito pubblico detenuta da investitori esteri. Ma i fattori favorevoli si fermano qua, per il resto, sfortunatamente, possiamo solo guardare con apprensione al 2018, o meglio a quel che potrà succedere dopo il voto di marzo.

Alcuni fattori di rischio sono ben noti. Il più noto è l’uscita dell’Italia dalla tenda ad ossigeno che l’ha protetta negli ultimi anni: nel 2018 la Banca centrale europea allenterà il Quantitative Easing, ovvero l’acquisto di titoli di Stato dei paesi della zona Euro; nel 2019 scadrà il mandato di Mario Draghi, il “cavaliere bianco” che ci ha protetti e salvati in questi anni (così lo chiama Roberto Napoletano, in un libro di grande interesse sulla crisi del 2011: Il cigno nero e il cavaliere bianco, La nave di Teseo 2017). Un secondo fattore di rischio ben noto è l’incertezza politica, nelle sue due varianti fondamentali: una situazione di stallo, con possibile ricorso a nuove elezioni; la formazione di un governo delle forze più anti-europee (Cinque Stelle e Lega). Un terzo fattore di rischio è il probabile arrivo, fra marzo e aprile, di una richiesta della Commissione europea all’Italia di effettuare una manovra correttiva dei conti pubblici. Un altro fattore di rischio è il possibile aumento del tasso di riferimento della Bce, con conseguente aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. E infine, un ultimo fattore di rischio è un cambiamento delle regole bancarie, che potrebbe condurre a una valutazione dei titoli di Stato detenuti dalle banche agganciata al rating delle Agenzie (100 euro di Bot italiani valgono meno di 100 euro di Bund tedeschi), con conseguente repentina svalutazione dei patrimoni delle banche italiane, i cui bilanci sono tuttora appesantiti da più di 300 miliardi di titoli di Stato).

Quel che è meno noto, a giudicare da quanto poco se ne parla, è che a qualche giorno prima del voto potrebbe arrivare la notizia che nel 2017, ancora una volta, il governo italiano ha mancato la promessa di iniziare a ridurre il rapporto debito/Pil.

Secondo le stime ufficiali, nel 2017, per la prima volta da dieci anni, il rapporto debito/Pil comincerà a scendere, sia pure in misura irrisoria, dal 132.6% al 132.5%. Ma se guardiamo gli ultimi dati del Pil, pubblicati dall’Istat, e gli ultimi dati del debito, pubblicati dalla Banca d’Italia, il quadro che ci si presenta è assai poco rassicurante.

Nel corso del 2017 il Pil nominale, che è quello che conta ai fini del calcolo del rapporto debito/Pil, dovrebbe registrare una crescita compresa fra il 2.1 e il 2.2%. Questo è il parametro chiave per capire se, nel 2017, il rapporto debito/Pil scenderà come promesso, o continuerà a salire come temuto: se, quando la Banca d’Italia comunicherà i dati del debito al 31 dicembre 2017, il debito stesso sarà salito meno del 2.1% rispetto all’anno precedente, il rapporto debito/Pil risulterà in discesa, e il ministro Padoan potrà giustamente esultare per aver mantenuto la promessa di ridurlo; se, viceversa, il debito sarà cresciuto più del 2.2% ancora una volta dovremo constatare che i governi si impegnano a ridurre il debito ma poi, invariabilmente, si accorgono di non esserci riusciti.

Ebbene, qual è la dinamica del debito pubblico dell’Italia nel 2017? L’ultimo dato disponibile è relativo a ottobre 2017 e, per quel che se ne sa, non include ancora tutti gli esborsi per i salvataggi bancari. Ebbene la tendenza a ottobre, rispetto a 12 mesi prima (ottobre 2016), segna +2.9%, dunque ben oltre la soglia del 2.2%; la tendenza a settembre è ancora più preoccupante: +3.2%; quella di agosto è +2.5%, e solo nei mesi precedenti si colloca al di sotto del 2%. Se consideriamo la media degli ultimi tre mesi, la tendenza del debito è a crescere del 2.9%. Una deriva preoccupante, iniziata nei primi mesi dell’anno: fra febbraio e settembre del 2017 la velocità di crescita del debito è sempre aumentata, passando dall’1.1% di febbraio al 3.2% di settembre.

Che dire?

Forse, semplicemente, che l’Italia avrebbe fatto meglio, in questi anni, a non sprecare il dividendo dell’euro e, soprattutto, i benefici del Quantitative Easing, che ci hanno permesso, di pagare interessi sempre minori sul debito pubblico. Se, anziché disperdere risorse preziose in benefici elettorali, avessimo cominciato a ridurre la montagna del debito, magari avviando finalmente qualcuna delle tante privatizzazioni messe in agenda e mai attuate, oggi il voto del 4 marzo ci si presenterebbe con un volto meno minaccioso.

Articolo uscito sul numero di Panorama dell’11 gennaio 2018



Conti pubblici, una farsa che dura da molti anni

La Commissione europea non è soddisfatta dei nostri conti pubblici. Nel linguaggio paludato e un po’ criptico che caratterizza gli scambi fra gli uffici del ministero dell’Economia e quelli della Commissione, ci ha fatto sapere che i nostri conti non la convincono, né sul 2017 né per il 2018.

Una prima lettera è partita alla fine di ottobre. Ma la risposta del ministro Padoan non ha convinto. Lo ha detto chiaramente il vicepresidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, la settimana scorsa: “Tutti possono vedere che la situazione in Italia non migliora”.

Quindi un’altra lettera è in corso di preparazione, e sarà inviata a breve al nostro Governo. Ma il giudizio finale della Commissione sui conti pubblici dell’Italia arriverà solo a maggio 2018, quando i buoi della spesa pubblica saranno già scappati dalle stalle.

Questo rituale, che si ripete tutti gli anni, è curioso. In autunno il Governo vara la cosiddetta Finanziaria, con relativo assalto alla diligenza da parte di sindacati e gruppi di pressione. La Commissione europea esprime dubbi e richieste di chiarimento, ma poi lascia fare, rimandando il giudizio definitivo alla primavera dell’anno dopo. Quando la primavera arriva si comincia a capire che i numeri dei conti pubblici non potranno mai essere quelli promessi perché l’economia, quella birichina, vuol fare tutto di testa sua e non si adegua alle previsioni dei governanti italiani. A quel punto però è tardi, e tutto quel che la Commissione Ue può fare è raccomandare una “manovrina” correttiva, e di comportarsi meglio l’anno successivo. Il nostro governo risponde che sì, si impegnerà molto (da un po’ di tempo però preferisce parlare di “sforzi” messi in atto, o da mettere in atto), e che gli obiettivi mancati quest’anno saranno raggiunti l’anno prossimo. L’anno prossimo arriva, le cifre non sono quelle messe nero su bianco l’anno prima, e la commedia ricomincia.

Poiché si tratta di una commedia, è abbastanza inutile rileggersi il copione nei minimi dettagli, entrando nelle infinite diatribe che caratterizzano questi balletti di cifre, apparentemente tecnici ma in realtà tutti politici: con quale modello statistico calcolare il PIL potenziale e l’output gap, come determinare l’avanzo primario strutturale, quali sono i margini di flessibilità cui l’Italia ha diritto.

Meglio andare direttamente al punto: come stanno evolvendo i conti pubblici dell’Italia?

Per rispondere a questa domanda occorre, a mio parere, distinguere due aspetti del problema. Il primo aspetto è la salute delle nostre finanze pubbliche, il secondo è la loro capacità di resistere ad un’eventuale impennata dei tassi di interesse. Anche se, nel lungo periodo, si tratta di due facce della stessa medaglia, nel breve periodo possono divergere un po’: un paese come il nostro, con conti in cattiva salute, può risultare più o meno vulnerabile a seconda dell’andamento di altri aspetti della sua economia.

Se ragioniamo sulla salute, quel che dobbiamo chiederci è come stanno evolvendo i due fondamentali indicatori di malattia, ovvero il rapporto debito/PIL e l’avanzo primario strutturale (corretto per il ciclo e le una tantum). Ebbene, su entrambi i fronti le cose non vanno bene, come ha mostrato in modo inoppugnabile Veronica De Romanis usando serie storiche prodotte da organismi internazionali (dati e grafici reperibili sul nostro sito). Nonostante le promesse renziane di ridurlo, il rapporto debito/PIL è oggi più alto che nel 2013-2014, e presumibilmente non inizierà a scendere in modo apprezzabile neanche quest’anno (anzi, secondo la Commissione europea aumenterà leggermente). Ancora più grave la situazione dell’avanzo primario corretto per il ciclo, che negli ultimi anni è sempre peggiorato, e presumibilmente continuerà a farlo quest’anno.

Se dalla salute dei conti pubblici passiamo alla capacità di resistenza (o al suo opposto: la vulnerabilità), il quadro si fa un po’ meno scoraggiante. La vulnerabilità dei conti pubblici, ovvero il rischio che una nuova crisi finanziaria faccia schizzare in alto lo spread (come nel 2011-2012), non dipende solo dall’ampiezza del debito pubblico ma anche da altri fattori, come il debito privato, l’andamento del Pil e quello dell’inflazione. Se, per misurare la vulnerabilità, usiamo l’indice di vulnerabilità strutturale elaborato dalla Fondazione David Hume, possiamo notare che la vulnerabilità dei nostri conti pubblici è leggermente aumentata nel triennio 2014-2016, ma nel corso del 2017 risulta in diminuzione, cioè in sensibile miglioramento (dati e grafici sul nostro sito). La ragione è molto semplice: grazie alla ripresa in atto in tutta Europa, anche l’economia italiana sta andando meglio, e questo rende i nostri conti pubblici un po’ meno vulnerabili di quanto lo fossero negli anni scorsi.

Possiamo stare tranquilli, dunque?

Direi proprio di no. Sfortunatamente stiamo per entrare in un periodo di forti rischi finanziari, non solo perché lo scudo del Quantitative Easing della Bce sta per venir meno, ma perché è piuttosto probabile che, in futuro, cambino le regole che oggi consentono alle banche di contabilizzare fra gli attivi i titoli di Stato del proprio Paese, anche se quest’ultimo è fortemente indebitato. Se queste regole venissero cambiate, e i titoli del debito pubblico venissero svalutati in base al grado di deterioramento dei conti pubblici di ogni paese, l’Italia correrebbe rischi molto seri. E, forse, qualche politico si pentirebbe amaramente di aver sciupato questi anni, in cui – grazie alla riduzione dei tassi di interesse – qualcosa si poteva fare e invece così poco è stato fatto.

Articolo pubblicato su Panorama



Troppi soldi spesi male: tutto da rifare

Puntuale come un orologio svizzero, la manovra correttiva è arrivata. Non ci voleva molto a prevederlo, e infatti in molti l’avevano prevista, beccandosi puntualmente l’accusa di essere dei “gufi”.

Ma vediamo in che cosa consisterà e perché ci siamo arrivati. Di per sé non si tratta di grandi cifre: circa 3 miliardi e mezzo, pari allo 0.2% del Pil, più o meno un decimo di una vera manovra finznaziaria “lacrime e sangue”, tipo la manovra da 90 mila miliardi (di lire) del governo Amato nel 1992.

Secondo le cifre circolate nei giorni scorsi la manovra, che il governo – per ora – si è ben guardato dal tradurre in precisi provvedimenti di legge, consisterà di cinque provvedimenti.

Primo. Un aumento del prezzo dei tabacchi, che potrebbe valere 100 o 200 milioni.

Secondo. Aumento delle accise sui carburanti, con un incasso di circa 1.4 miliardi.

Terzo. Eliminazione di benefici fiscali (per meno di 100 milioni).

Quarto. Le solite, immancabili, “misure anti-evasione”, per un incasso previsto di 1 miliardo.

Quinto. Tagli ai consumi intermedi della Pubblica Amministrazione (quasi 800 milioni).

Come si vede, quasi l’80% sono aumenti di tasse, e solo una piccola parte (poco più del 20%) sono riduzioni di spese.  E’ un classico, specie con i governi di centro-sinistra: le spese non si possono ridurre, perché sono il cuore della macchina del consenso, e allora si aumentano le tasse, in modo più o meno mascherato. Né deve trarre in inganno la retorica della “lotta all’evasione”. Di per sé la lotta all’evasione, se riscuote quel che si prefigge di riscuotere (1 miliardo, in questa circostanza), costituisce un aumento della pressione fiscale, che resta invariata solo se i proventi della lotta all’evasione vengono usati per ridurre le aliquote che gravano sui contribuenti onesti e non per rimpinguare le casse dello Stato.

Ma perché siamo arrivati a questo punto? Perché il governo si è trovato, o meglio si è ritrovato ancora una volta, a dover spegnere precipitosamente l’incendio dello spread, tornato ad avvicinarsi perigliosamente ai 200 punti base?

La storia di come ci siamo arrivati è lunga, perché inizia fin dalla primavera del 2014. Allora Renzi stacca il primo grosso assegno cattura-consenso, quei 10 miliardi (all’anno) di riduzione Irpef con cui può erogare il bonus da 80 euro ai lavoratori dipendenti che guadagnano abbastanza da poter avvertire lo sgravio. Lì i conti pubblici subiscono il primo shock. La crescita ne beneficia pochissimo, come farà intendere (inascoltato) il vice-ministro Enrico Morando, che avrebbe preferito uno sgravio Irap, ben più incisivo sui conti delle imprese e quindi sugli investimenti. Così come ne beneficiano pochissimo (anzi niente) i veri poveri, esclusi dal provvedimento in quanto incapienti (per usufruire di uno sgravio fiscale bisogna pagare le tasse, e chi guadagna meno di 8000 euro l’anno non paga tasse, quindi non può beneficiare di alcuno sgravio).

Ma è solo il primo colpo. Dal 1° gennaio 2015 parte la decontribuzione per i neo- assunti a tempo indeterminato. Un provvedimento che costerà quasi altri 10 miliardi l’anno per 3 anni, e creerà pochissimi posti di lavoro aggiuntivi rispetto a quelli che si sarebbero creati comunque. La ragione è semplice: Renzi, che vuole (e avrà) il consenso convinto di Confindustria, intende alleggerire i costi salariali di tutte le imprese, anziché concentrare le risorse su quelle che aumentano l’occupazione, come gli suggeriscono, inascoltate, Susanna Camusso (Cgil) e Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), che a loro volta raccolgono una proposta della Fondazione David Hume (il “job Italia”, un contratto a costo zero per lo Stato, ancora più conveniente per le imprese, ma riservato a chi aumenta il livello di occupazione).

Accanto a questi provvedimenti, molto costosi per le finanze dello Stato, ne partono diversi altri di impatto minore ma, proprio perché numerosi, complessivamente piuttosto onerosi. Ad esempio il bonus bebé, il bonus giovani per la cultura (da molti speso in ben altro), le assunzioni nella scuola (nonostante i confronti internazionali da anni segnalino, per l’Italia, un rapporto insegnanti/allievi troppo alto).

Tutto ciò nei primi due anni del governo Renzi. C’è poi la fase due, quella che va dalla primavera del 2016 alla data del referendum. Qui la compulsione a spendere entra in una nuova fase: si tratta di mettere sul piatto tutte le risorse possibili per conquistare voti alla causa del “sì” (promesse di fondi a Regioni e Comuni, promesse di aumenti ai pensionati, piani di messa in sicurezza del territorio, delle scuole, delle zone terremotate, ecc.). Ma non si tratta solo di promettere, si tratta anche di nascondere. Nonostante i dissesti bancari siano noti da anni, e i nodi stiano venendo tragicamente al pettine, il governo preferisce temporeggiare, rimandando tutto a dopo il 4 dicembre. Mentre le reti televisive vengono inondate dalle esternazioni del duo Renzi-Boschi e dalle rassicurazioni del ministro dell’Economia, decine e decine di provvedimenti giacciono in Parlamento, e l’inerzia sul nodo bancario alza i costi delle operazioni di salvataggio future (come, sia pure a cose fatte, non mancherà di rimarcare Bini Smaghi in un’intervista alla Stampa).

Nel frattempo la verità sui conti pubblici comincia a farsi strada anche fra gli osservatori meno desiderosi di prenderne atto. Quel che si vedeva ad occhio nudo fin dall’inizio del 2016, e cioè che l’Italia non avrebbe mantenuto la solenne promessa renziana di ridurre il rapporto debito-pil nel 2016, ora lo vedono tutti. Il debito continua  a salire, non solo in assoluto, ma anche in rapporto al Pil, la pressione fiscale e la spesa pubblica corrente – decimale più, decimale meno – sono al livello cui Renzi le aveva ereditate da Letta, lo spread è ai massimi da tre anni. Le previsioni di crescita dell’Italia nel 2017 sono le peggiori dell’intera Unione Europea. E, come se non bastasse, il nostro governo non trova di meglio che addossare alla rigidità delle regole europee la propria incapacità di far ripartire la crescita. Come se le regole europee valessero solo per l’Italia, e i paesi europei che sono tornati a crescere (la maggior parte) ne fossero invece esentati.

C’è da stupirsi se i mercati sono tornati a non fidarsi dell’Italia?




La vulnerabilità dei conti pubblici dell’Italia

Sono passati ormai 10 anni dall’Appello degli economisti più o meno marxisteggianti in favore di una stabilizzazione del debito pubblico, cui allora si contrapponevano i fautori del suo abbattimento. In quell’anno, era il 2006, l’economia si stava riprendendo, Prodi aveva appena vinto le elezioni, e il timone dell’economia era affidato al compianto ministro Padoa‐Schioppa.

Però il debito dell’Italia era alto, l’Europa ci invitava a ridurlo, e le agenzie di rating ci tenevano sotto tiro.

Come si sono dunque evoluti i conti pubblici in Italia? E cosa è successo nelle altre principali economie avanzate? Lo spread è forse lo strumento più utilizzato per misurare il grado di vulnerabilità di un paese, ma la differenza fra rendimenti dei titoli di Stato di un paese rispetto a quelli della Germania non è forse l’unico modo per valutare la performance di un’economia. In questo rapporto vedremo alcune misure alternative così come analizzeremo i fattori che influenzano lo spread tradizionalmente inteso.

Vulnerabilità dei conti pubblici