A proposito del caso Roccella – Sopraffazione

Non è la prima volta che, in un evento pubblico, a qualcuno viene impedito di parlare, come è successo la settimana scorsa al ministro Eugenia Roccella, in occasione degli Stati Generali della Natalità. Mai, però, avevo assistito a un così vasto fuoco di sbarramento per impedire che venisse detto, o ripetuto, ciò che solo il Presidente della Repubblica ha potuto dire senza essere irriso, e cioè che il gesto delle contestatrici era stato incivile e in contrasto con la Costituzione.

Impossibile ricapitolare, nello spazio di un articolo, il profluvio di argomenti scomodati per aggirare il severo giudizio del Capo dello Stato. Ne ricordo solo alcuni: la colpa è di Roccella che ha rinunciato a parlare, anziché rassegnarsi a farlo sotto un diluvio di fischi; quello delle contestatrici era solo dissenso, e il dissenso è il sale della democrazia; impedire di parlare a un ministro è giustificato dalla eccezionale gravità delle intenzioni del governo; la Roccella non ha subito nessuna censura, perché la censura procede da chi ha il potere verso chi non ne ha, e non viceversa; la Roccella ha infiniti mezzi per far conoscere le sue opinioni, le
contestatrici no; è questo governo che esercita la censura e intimidisce privati cittadini con le querele (casi di Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare).

Sarebbe facile, arrivati a questo punto, fare notare il doppio standard. Che cosa sarebbe successo se, in un evento pubblico, attiviste delle associazioni pro-vita avessero impedito a Elly Schlein di parlare? Che cosa fa sì che si possa lodare Laura Boldrini, Presidente della Camera, quando annuncia di volere denunciare i suoi odiatori, e deprecare Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, quando fa la stessa cosa? Perché lo squilibrio di potere viene invocato quando il denunciato è Roberto Saviano, che pure ha un vastissimo sistema mediatico pronto a difenderlo, e viene dimenticato quando i denunciati sono comuni cittadini, che insultano la Presidente della Camera ma non hanno (meno male…) alcuna rete protettiva?

Ma passiamo oltre. Qui vorrei solo far notare una circostanza, e sollevare un problema.
La circostanza è che nel nostro linguaggio sembra assente un termine per indicare quel che è successo al ministro Eugenia. Roccella, ma anche a tanti altri cui, specie negli ultimi tempi, è stato impedito di parlare. Su questo ha perfettamente ragione la sinistra a dire che non si tratta di censura, e ha torto la destra quando parla di violenza femminista. Ma allora di che cosa si tratta?

La sinistra risponde dissenso, contestazione. Ma anche questo è sbagliato, o meglio è riduttivo. Si può dissentire senza impedire agli altri di parlare, si può contestare ma accettare il dialogo. Lo specifico di quel che è successo con Roccella è che si è
contestato, ma lo si è fatto impedendo a un ministro di esercitare un diritto costituzionale, ovvero la libertà di manifestazione del pensiero, garantita a tutti i cittadini dall’articolo 21 della Carta: è questo che ha inquietato il Presidente della Repubblica.

Nello stesso tempo occorre dire con chiarezza che, a differenza di tante altre contestazioni, questa non è stata violenta. Fischiare, tamburellare, urlare, cantare, emettere suoni di disturbo sono atti che impediscono materialmente di parlare, ma non sono violenza. Tolgono la parola, ma non alzano le mani su nessuno.

È curioso che non esista una parola condivisa per descrivere questi atti, che producono le stesse conseguenze della censura e della violenza, ma non sono né censura né violenza. Eppure sono atti sempre più diffusi, specie nelle università straniere, dove a centinaia di professori e studiosi viene impedito di parlare dagli attivisti contrari alle loro idee (celebre il caso della professoressa britannica Cathleene Stock, addirittura costretta a dimettersi ed emigrare in America). Insomma, sarebbe bene che una parola la inventassimo, o la scegliessimo fra quelle che abbiamo.

Se non è né censura, né violenza, e tuttavia è la negazione di un diritto fondamentale, come possiamo chiamare l’atto di impedire la parola? Io suggerirei di usare il termine ‘sopraffazione’, che mi pare renda bene l’idea di una prepotenza efficace, ovvero riuscita nell’intento.

Resta aperto un problema, però: ci sono circostanze, al di là di quelle già previste dalla legge, in cui può essere ragionevole sospendere l’articolo 21, che tutela la libertà di parola?
Per molti di coloro che hanno attaccato Roccella e giustificato le sue contestatrici, la risposta pare essere positiva, come se la giustezza (vera o presunta) della causa per cui si combatte autorizzasse a togliere la parola a chi la pensa diversamente. Per
quanto mi riguarda, invece, la risposta è negativa: ci sono diritti che non possono essere sospesi neppure in circostanze eccezionali, perché il loro esercizio non limita la libertà e la sicurezza di nessuno. Il diritto a non essere sopraffatti da chi pretende di toglierci la parola è uno di tali diritti non comprimibili. Forse non l’unico, ma certo il più importante per chi ancora desidera vivere in una società libera.

[articolo trasmesso al Messaggero il 13 maggio 2024]




Disagio giovanile? – Un mito diventato realtà

Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato perplesso, nella mia carriera di sociologo, è l’uso ossessivo, insistito e iterato dell’espressione “disagio giovanile” per descrivere la condizione dei giovani dagli anni della contestazione in poi. Con il passare del tempo la mia perplessità si è progressivamente tramutata in stupore, e alla fine in un sentimento di incredulità. Questo perché, se prendiamo in considerazione il cinquantennio che va dal 1969 (anno dell’esame di maturità facilitato e della liberalizzazione degli accessi all’università) fino al 2019, ossia all’ultimo anno prima del Covid, quello che ci è dato osservare è, semmai, il processo inverso: la instaurazione progressiva di condizioni materiali e immateriali sempre più agiate.

Vogliamo ricordare qualcuno degli spettacolari cambiamenti che, nel cinquantennio 1969-2019, hanno investito la condizione giovanile?

Libertà sessuale: è incomparabilmente maggiore oggi. Uso del tempo: nessun padre di allora avrebbe messo la sveglia alle 2 di mattina per prelevare alle 2.30 la figlia quindicenne in uscita dalla discoteca. Autorità genitoriale: l’ubbidienza è stata sostituita dal negoziato permanente, e fin dalla più tenera età, su tutti gli aspetti della vita quotidiana. Lavoro: si è allungato di circa 5 anni il periodo della vita in cui se ne può fare a meno. Servizio militare: non esiste più, abolito giusto vent’anni fa da un governo di destra. Scuola e università: alleggerimento dei programmi e abbassamento dell’asticella della promozione. Rapporti scuola-famiglia: il patto genitori-insegnanti si è rotto, molti genitori di sono trasformati in sindacalisti dei figli.

Insomma, almeno a prima vista, nei decenni in cui illustri colleghi rilasciavano pensose riflessioni sul “disagio giovanile”, la società spensieratamente evolveva per mettere sempre più suo agio la maggioranza dei giovani. Dico “a prima vista” perché maggioranza dei giovani (ovviamente) non vuol dire tutti i giovani (le sacche di marginalità ci sono anche oggi), ma anche perché non è detto che quel che, oggettivamente, si presenta come uno spettacolare aumento di benessere e di libertà si traduca poi, soggettivamente, in maggiore appagamento, felicità, autorealizzazione.

In effetti, se leggiamo attentamente le sia pur frammentarie statistiche degli ultimi 4-5 anni, è difficile non essere colti da un certo sgomento. Quello cui si assiste, infatti, è una vera e propria esplosione di comportamenti che manifestano – oggi sì – una condizione di disagio: a quel che ricordo, mai in passato si era osservata una crescita tanto rapida e improvvisa di segnali di malessere. Nel breve lasso di tempo che va dall’ultimo anno pre-covid (2019) agli anni più recenti per cui si dispone di statistiche (2022 e 2023) si sono improvvisamente impennati sia i comportamenti autolesionistici o di ritiro sociale, come disturbi alimentari, suicidi, tentati suicidi, richieste di aiuto, auto-isolamento, sia i comportamenti aggressivi come omicidi, rapine, risse, minacce, lesioni dolose, violenza sessuale e, a scuola, bullismo e attacchi agli insegnanti (alcune stime nel grafico accanto).

È curioso. Quando l’evoluzione sociale, come una cornucopia, regalava alla condizione giovanile ogni sorta di agio, i convegni dei sociologi leggevano tutto nel registro del “disagio giovanile”, ora che quel disagio c’è davvero, i sociologi latitano, quasi avessero passato la palla a psichiatri, psicologi e pedagogisti. Resta però una domanda, anzi forse la domanda: c’è un nesso fra il disagio di oggi e gli agi dei 50 anni precedenti?

Sì, io penso che ci sia. La cifra del cinquantennio felice 1969-2019 è stata la rimozione sistematica e progressiva di ogni possibile ostacolo, nella famiglia, nella scuola e nella società, e la piena affermazione della cultura dei diritti, ovvero dell’attitudine a pretendere piuttosto che a conquistare. Questo ha reso i giovani non solo più fragili e impreparati ad affrontare difficoltà, sconfitte, sfide difficili, ma anche più insicuri, più suscettibili, più in competizione reciproca (anche grazie ai social), e in definitiva meno capaci di perseguire la felicità esistenziale: “non si diventa felici per assenza di difficoltà” aveva avvertito, esattamente vent’anni fa, Hara Estroff Marano, psicologa sociale statunitense, già allora preoccupata per la deriva mentale della gioventù americana, devastata dalla vita facilitata e dalla iper-protezione dei genitori (invasive parenting).

Tutto questo, fino allo scoppio del Covid è rimasto allo stato latente. Poi non più. Gli anni del Covid sono stati, non solo per i giovani, anni di ristrutturazione mentale, che hanno indotto a riflettere sulla propria esistenza, le proprie scelte, le proprie priorità. E spesso a concludere, più o meno vittimisticamente, che si meritava di più, o si aveva diritto a un risarcimento. Stranamente, di questa riconversione dei desideri (posso chiamarla così?) si è parlato quasi esclusivamente riguardo agli adulti e al mercato del lavoro, dove si è osservato un innalzamento generalizzato del livello di aspirazione, con l’abbandono di posti di lavoro insoddisfacenti per posti migliori o più remunerativi.

Ma la riconversione ha riguardato anche, se non soprattutto, i giovani, e non solo sul mercato del lavoro. Per loro, il fossato fra quel che si desidera e quel che si ha si è fatto più ampio, molto più ampio. Non tutti sono stati in grado di reggere lo scarto. I dati indicano che alcuni hanno reagito in modo auto-distruttivo, altri in modo aggressivo, come testimonia l’esplosione dei reati predatori, degli omicidi, delle violenze sessuali.

Forse, per il mondo degli adulti, è venuto il momento di farsi qualche domanda.

[sintesi dell’intervento di oggi al Convegno sul cinquantenario dei Decreti delegati, Firenze, Palazzo Vecchio]