Elezione di Ursula von der Leyen – L’arroccamento

Con 401 voti favorevoli Ursula von der Leyen è stata rieletta alla presidenza della Commissione Europea. Ne bastavano 361, ne ha avuti 40 in più. Il numero di voti ottenuti è quasi identico al numero di seggi (401) di cui dispongono i tre partiti – popolari, socialisti, liberali – che da sempre reggono le sorti dell’Unione Europea. Ma la corrispondenza aritmetica è fallace: in realtà, contro von der Leyen hanno votato diverse decine di franchi tiratori della sua stessa maggioranza, ed è solo grazie al soccorso dei Verdi che la maggioranza è risultata ampia. Quanto al partito di Giorgia Meloni, dopo molti dubbi e incertezze, ha finito per votare contro, insieme alle destre-destre.

L’ampio discorso con cui von der Leyen ha chiesto la riconferma conteneva, tra le altre cose, alcune robuste aperture ai Verdi sul Green Deal, e qualche timido segnale ai Conservatori di Giorgia Meloni sul problema migratorio. È abbastanza logico che i
Verdi non si siano fatti sfuggire l’opportunità di entrare in maggioranza, è meno chiaro se abbia fatto bene o male Giorgia Meloni a votare contro.

Le due letture che ascolteremo nei prossimi giorni sono entrambe ragionevoli: gli ultra-europeisti diranno che così l’Italia si è isolata, gli euro-scettici diranno che von der Leyen ha concesso troppo poco sul contrasto all’immigrazione e quasi nulla sui problemi degli agricoltori. Quel che mi sembra difficile negare è che le aperture ai Verdi sul Grean Deal sono state più significative di quelle ai Conservatori sul contrasto all’immigrazione (è mancato, in particolare, qualsiasi riferimento all’esternalizzazione delle frontiere e al modello Albania).

Quanto ai partiti italiani, è interessante notare che il voto su von der Leyen ha spaccato sia la maggioranza di governo sia l’opposizione. Fra i partiti di governo Forza Italia ha votato convintamente a favore, la Lega convintamente contro, mentre Fratelli d’Italia è rimasto incerto fino all’ultimo (salvo poi votare come la Lega). Fra i partiti di opposizione il Pd ha votato a favore, i Cinque Stelle contro, mentre l’alleanza Verdi-Sinistra si è già spaccata fra Verdi (a favore) e Sinistra (contro).

Sul piano internazionale, un aspetto molto importante – e non del tutto scontato – del discorso di von der Leyen è stato il suo netto posizionamento pro-Ucraina (sostegno a oltranza) e il suo altrettanto netto richiamo anti-Israele sugli eccidi di civili nella
striscia di Gaza. Una presa di posizione che non meriterebbe particolare attenzione se non avvenisse nelle stesse ore in cui le dichiarazioni del neo-nominato vice di Trump, il sentore James David Vance, delineano una linea politico-militare statunitense
diametralmente opposta: compromesso territoriale con la Russia di Putin, disco verde a Israele per Gaza. Dobbiamo prepararci, in caso di vittoria di Trump, a un inedito quanto drammatico contrasto strategico-militare fra Europa e Usa?

Non meno gravido di implicazioni è quanto Ursula von der Leyen ha annunciato sul piano politico interno, e cioè il suo impegno nella “lotta agli estremismi”. Un monito chiaramente rivolto a Viktor Orbán e ai nuovi gruppi dei Patrioti e dei Sovranisti, piuttosto che ai Conservatori di Giorgia Meloni o al piccolo gruppo della sinistra estrema. Quel che la neo-presidente ha delineato, per molti versi, è la variante europea della strategia francese del “cordone sanitario” contro la destra estrema, con la sola importante differenza di non aver chiesto i voti dell’estrema sinistra.Questa linea politica non è priva di senso, specie se si crede che la posta in gioco sia la democrazia, che le destre estreme costituiscano una seria minaccia all’ordine democratico, e che la santa alleanza delle forze democratiche – dai Verdi ai Popolari – sia in grado di erigere una robusta e duratura barriera contro la “marea nera” montante. Ma siamo sicuri che sia la lettura giusta, o l’unica possibile? I risultati elettorali mostrano che i tre raggruppamenti di destra cui von der Leyen ha chiuso la porta sono i medesimi che il voto popolare ha premiato. E che il gruppo cui invece la ha aperta (i Verdi) è fra quelli puniti dal voto. Insomma: la nuova Commissione europea ha scelto di muoversi nella direzione opposta a quella dell’opinione pubblica, pur avendo l’opportunità – grazie alla presenza dei Conservatori – di dare un sia pur piccolo segnale di sintonia con le preoccupazioni degli elettori. Quasi che l’avanzata simultanea delle destre – di tutte le destre, compresi Conservatori e Popolari – fosse il sintomo di una malattia, piuttosto che un segnale di preoccupazioni più o meno legittime dei cittadini, come quelle in materia di immigrazione e di politiche agricole.

Che questa scelta di arroccamento dell’establishment europeo sia stata lungimirante o miope, lo vedremo fra qualche anno, quando si tornerà al voto. Per ora sia lecito sollevare il dubbio.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 luglio 2017]




La finzione delle regole europee

Con i ballottaggi di domenica, finalmente, dovremmo – almeno per qualche mese – lasciarci alle spalle i battibecchi fra comari che ci hanno deliziato negli ultimi mesi. Da domani sentiremo ancora litigare i nostri governanti, ma le questioni su cui si accapiglieranno fra loro e con le opposizioni saranno, inevitabilmente, ben più cruciali di quelle su cui si sono esercitati fin qui.
Al centro di tutto, la prossima legge di bilancio e il nostro modo di stare in Europa (ammesso che in Europa si resti, e che una sciagurata concatenazione di volontà e di circostanze non ci forzi ad uscirne).
Il problema di fondo è ben noto. L’attuale governo ha speso, in deficit, una quindicina di miliardi per mantenere alcune promesse elettorali, in particolare reddito di cittadinanza e quota 100. Altre promesse, in particolare la flat tax, le ha sostanzialmente accantonate (il mini provvedimento sulle partite Iva fino a 65 mila euro vale appena un centesimo del costo globale della flat tax). Altre promesse ancora, in particolare quella di non aumentare l’IVA, per ora le ha tradite, perché nella legge di bilancio dell’anno scorso non ha cancellato le clausole di salvaguardia che ne prevedono l’aumento fin dal 2020.
La situazione si può dunque riassumere così: il governo, che nel 2019 ha aumentato la pressione fiscale, ora vorrebbe occuparsi di ridurla, ma può farlo solo in deficit perché reddito di cittadinanza e quota 100, ossia le due promesse più demagogiche di Lega e Cinque Stelle, sono state anteposte alla promessa più utile al Paese, quella di alleggerire la pressione fiscale.
E’ da questi dati di fondo che scaturisce il racconto che ascolteremo nei prossimi mesi. Dovendo trovare un colpevole, e non potendo individuarlo in sé stessi, i nostri governanti se la prenderanno con l’Europa (che ci imporrebbe regole assurde) e con i governi precedenti (che avrebbero sempre aumentato il debito).
Però, attenzione. Il fatto che la attuale mancanza di risorse dipenda anche dalle scelte demagogiche del governo (tanta assistenza, pochi investimenti), non implica che i rilievi verso l’Europa e verso i governi passati siano del tutto ingiustificati. Bisogna essere molto faziosi per non accorgersi di alcune stranezze dell’una e degli altri.
La più grave, a mio parere, è la fortissima discrezionalità con cui vengono fatte valere le regole comuni, e in particolare la regola del 3% di deficit, negli ultimi anni sostituta dalla ancor più severa regola che obbliga i paesi a convergere verso il pareggio di bilancio. Ebbene queste regole sono state tranquillamente ignorate quando a violarle erano paesi come la Francia o la Germania ma, fatto a mio parere ancora più grave, nel caso dell’Italia sono state addolcite o inasprite a seconda che il governo fosse o non fosse in sintonia con il pensiero dominante a Bruxelles. E’ così potuto accadere che al governo italiano fosse concessa ogni sorta di sforamento e dilazione negli anni di Renzi e Gentiloni, nonostante fosse proprio allora che, grazie alla buona congiuntura economica, avremmo dovuto e potuto provare a mettere in ordine i nostri conti; e, simmetricamente, ora accade che, a dispetto della cattiva congiuntura economica, al governo italiano venga assai più perentoriamente richiesto di obbedire alle regole. Le difficoltà dell’attuale governo sono anche la conseguenza della rinuncia della Commissione a mettere in riga i governi precedenti, spesso rimproverati ma mai sanzionati.
La realtà, temo, è che – giuste o sbagliate che siano – le regole europee sono usate dalla Commissione come uno strumento di politica economica, per impedire ai paesi membri di attuare politiche sgradite e per indurli ad attuare quelle che la Commissione stessa giudica corrette. Il che non è sbagliato in sé, ma per il modo, opaco per non dire ipocrita, con cui questo ruolo di indirizzo viene esercitato. Anziché promuovere una franca discussione pubblica sulla politica economica dell’Europa, le autorità europee preferiscono governare gli Stati membri attraverso la finzione delle regole, chiudendo un occhio quando lo Stato che sgarra è forte o in linea con i principi di Bruxelles, e tenendo entrambi gli occhi ben spalancati quando a violare le regole è uno Stato debole o in contrasto con l’ortodossia europea.
Personalmente credo che, insieme ad alcuni principi arbitrari o basati su un’evidenza empirica traballante, vi siano anche molte buone ragioni dal lato delle autorità di Bruxelles, e che molte raccomandazioni della Commissione – prima fra tutte quella di contenere il debito pubblico – siano più che ragionevoli. Ma proprio per questo trovo assai grave che, con il loro esercizio spudorato della discrezionalità, siano le autorità europee stesse a infliggere i colpi più micidiali alla propria credibilità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del  10 giugno 2019



Senza nocchiero

Nessuno sa ancora con certezza chi, nei prossimi mesi (e tantomeno nei prossimi anni), sarà alla guida del governo. Non sappiamo se si tornerà al voto fra 2 mesi, fra 1 anno, fra 2 anni, o alla scadenza naturale della legislatura, ossia nel 2023. Alcune cose, però, le sappiamo.

La prima è che le due forze più populiste ed ostili all’Europa, ossia Cinque Stelle e Lega, hanno la maggioranza dei seggi in Parlamento, e circa il 50% dei consensi nel Paese. La seconda cosa che sappiamo è che le autorità europee stanno perdendo un po’ la pazienza con l’Italia; pochi giorni fa il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici ha fatto notare che l’Italia non sta facendo alcuno sforzo per ridurre il deficit, nonostante gli impegni più volte sottoscritti dai suoi governi.

Non è tutto. Il Documento di Economia e Finanza (Def) è sostanzialmente vuoto, in attesa che si insedi un governo. L’inflazione non accenna a ripartire, con gravi effetti sulle prospettive del nostro debito pubblico. Le previsioni di crescita dell’Italia, a dispetto dell’ottimismo euforico dei governi degli ultimi anni, ci collocano all’ultimo posto nella zona euro. Il rapporto debito/Pil è inchiodato al 132%, e non ne vuol sapere di scendere. E, come se non bastasse, le clausole di salvaguardia prevedono un aumento automatico dell’Iva, che nessuno ha ancora detto se e come potrà essere evitato. Sullo sfondo, poi, incombe la fine del Quantitative Easing della Banca Centrale Europea, che finora ci ha permesso di “comprare tempo”, ma non può certo durare in eterno.

In queste condizioni, non ci vuole molta fantasia per immaginare che la pazienza delle autorità europee possa esaurirsi molto presto, forse già il 23 maggio, quando partiranno le “raccomandazioni” ai paesi membri, che la Commissione potrebbe accompagnar con un rapporto sul debito eccessivo.

Qualcuno, fra gli autoproclamati vincitori di queste elezioni (Cinque Stelle e Lega), forse inclina a pensare che, nel caso l’Europa tiri le orecchie all’Italia e pretenda il varo di una manovra correttiva, basterà battere i pugni sul tavolo, e dire semplicemente “no”. Purtroppo non è così. Non tanto perché le autorità europee pazientano da anni, e il duo Renzi-Padoan ha già ottenuto (peraltro senza litigare) tutta la flessibilità possibile, quanto perché il vero problema dell’Italia non è l’Europa, ma sono i mercati finanziari. La grande crisi del 2011 proprio questo dovrebbe aver insegnato: le autorità europee non contano quasi nulla, l’umore dei mercati conta tantissimo. Nel 2011 le autorità europee passarono, nel giro di pochissime settimane, dalle lodi alla politica economica del duo Berlusconi-Tremonti agli ultimatum all’Italia (ricordate la lettera della Bce?).

Che cos’era successo?

Semplicemente che i mercati finanziari fino alla primavera del 2010 erano stati in sonno, mentre a partire dall’estate si erano improvvisamente risvegliati, e per di più di pessimo umore.

Ecco perché Di Maio e Salvini si illudono. Quando uno Stato membro dell’Unione vuol fare di testa sua, le autorità europee o abbozzano, o sono costrette a mostrare tutta la loro impotenza. Basta ricordare il penoso tentativo di punire l’Austria, che (nel 2000) aveva osato eleggere un governo nazional-liberale sostenuto dal partito (presunto) “fascista” di Joerg Haider, o i recenti infruttuosi tentativi di imporre la redistribuzione dei rifugiati fra i paesi membri. Ma quando a fare di testa propria sono i mercati finanziari, le autorità europee alzano bandiera bianca e si adeguano. L’unica occasione in cui questo non è avvenuto è stata nel luglio del 2012, allorché, essendo a rischio a sopravvivenza dell’euro e non la salute di un singolo paese, a Mario Draghi fu concesso di pronunciare il suo famoso “whatever it takes”, che riuscì rapidamente a spegnere la speculazione.

Il problema dell’Italia è precisamente questo: se nei prossimi mesi, e specialmente in autunno quando dovrà essere varata la manovra finanziaria, i mercati si risvegliassero, non ci sarà benevolenza delle autorità europee che potrà proteggerci.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 9 maggio 2018



Conti pubblici, una farsa che dura da molti anni

La Commissione europea non è soddisfatta dei nostri conti pubblici. Nel linguaggio paludato e un po’ criptico che caratterizza gli scambi fra gli uffici del ministero dell’Economia e quelli della Commissione, ci ha fatto sapere che i nostri conti non la convincono, né sul 2017 né per il 2018.

Una prima lettera è partita alla fine di ottobre. Ma la risposta del ministro Padoan non ha convinto. Lo ha detto chiaramente il vicepresidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, la settimana scorsa: “Tutti possono vedere che la situazione in Italia non migliora”.

Quindi un’altra lettera è in corso di preparazione, e sarà inviata a breve al nostro Governo. Ma il giudizio finale della Commissione sui conti pubblici dell’Italia arriverà solo a maggio 2018, quando i buoi della spesa pubblica saranno già scappati dalle stalle.

Questo rituale, che si ripete tutti gli anni, è curioso. In autunno il Governo vara la cosiddetta Finanziaria, con relativo assalto alla diligenza da parte di sindacati e gruppi di pressione. La Commissione europea esprime dubbi e richieste di chiarimento, ma poi lascia fare, rimandando il giudizio definitivo alla primavera dell’anno dopo. Quando la primavera arriva si comincia a capire che i numeri dei conti pubblici non potranno mai essere quelli promessi perché l’economia, quella birichina, vuol fare tutto di testa sua e non si adegua alle previsioni dei governanti italiani. A quel punto però è tardi, e tutto quel che la Commissione Ue può fare è raccomandare una “manovrina” correttiva, e di comportarsi meglio l’anno successivo. Il nostro governo risponde che sì, si impegnerà molto (da un po’ di tempo però preferisce parlare di “sforzi” messi in atto, o da mettere in atto), e che gli obiettivi mancati quest’anno saranno raggiunti l’anno prossimo. L’anno prossimo arriva, le cifre non sono quelle messe nero su bianco l’anno prima, e la commedia ricomincia.

Poiché si tratta di una commedia, è abbastanza inutile rileggersi il copione nei minimi dettagli, entrando nelle infinite diatribe che caratterizzano questi balletti di cifre, apparentemente tecnici ma in realtà tutti politici: con quale modello statistico calcolare il PIL potenziale e l’output gap, come determinare l’avanzo primario strutturale, quali sono i margini di flessibilità cui l’Italia ha diritto.

Meglio andare direttamente al punto: come stanno evolvendo i conti pubblici dell’Italia?

Per rispondere a questa domanda occorre, a mio parere, distinguere due aspetti del problema. Il primo aspetto è la salute delle nostre finanze pubbliche, il secondo è la loro capacità di resistere ad un’eventuale impennata dei tassi di interesse. Anche se, nel lungo periodo, si tratta di due facce della stessa medaglia, nel breve periodo possono divergere un po’: un paese come il nostro, con conti in cattiva salute, può risultare più o meno vulnerabile a seconda dell’andamento di altri aspetti della sua economia.

Se ragioniamo sulla salute, quel che dobbiamo chiederci è come stanno evolvendo i due fondamentali indicatori di malattia, ovvero il rapporto debito/PIL e l’avanzo primario strutturale (corretto per il ciclo e le una tantum). Ebbene, su entrambi i fronti le cose non vanno bene, come ha mostrato in modo inoppugnabile Veronica De Romanis usando serie storiche prodotte da organismi internazionali (dati e grafici reperibili sul nostro sito). Nonostante le promesse renziane di ridurlo, il rapporto debito/PIL è oggi più alto che nel 2013-2014, e presumibilmente non inizierà a scendere in modo apprezzabile neanche quest’anno (anzi, secondo la Commissione europea aumenterà leggermente). Ancora più grave la situazione dell’avanzo primario corretto per il ciclo, che negli ultimi anni è sempre peggiorato, e presumibilmente continuerà a farlo quest’anno.

Se dalla salute dei conti pubblici passiamo alla capacità di resistenza (o al suo opposto: la vulnerabilità), il quadro si fa un po’ meno scoraggiante. La vulnerabilità dei conti pubblici, ovvero il rischio che una nuova crisi finanziaria faccia schizzare in alto lo spread (come nel 2011-2012), non dipende solo dall’ampiezza del debito pubblico ma anche da altri fattori, come il debito privato, l’andamento del Pil e quello dell’inflazione. Se, per misurare la vulnerabilità, usiamo l’indice di vulnerabilità strutturale elaborato dalla Fondazione David Hume, possiamo notare che la vulnerabilità dei nostri conti pubblici è leggermente aumentata nel triennio 2014-2016, ma nel corso del 2017 risulta in diminuzione, cioè in sensibile miglioramento (dati e grafici sul nostro sito). La ragione è molto semplice: grazie alla ripresa in atto in tutta Europa, anche l’economia italiana sta andando meglio, e questo rende i nostri conti pubblici un po’ meno vulnerabili di quanto lo fossero negli anni scorsi.

Possiamo stare tranquilli, dunque?

Direi proprio di no. Sfortunatamente stiamo per entrare in un periodo di forti rischi finanziari, non solo perché lo scudo del Quantitative Easing della Bce sta per venir meno, ma perché è piuttosto probabile che, in futuro, cambino le regole che oggi consentono alle banche di contabilizzare fra gli attivi i titoli di Stato del proprio Paese, anche se quest’ultimo è fortemente indebitato. Se queste regole venissero cambiate, e i titoli del debito pubblico venissero svalutati in base al grado di deterioramento dei conti pubblici di ogni paese, l’Italia correrebbe rischi molto seri. E, forse, qualche politico si pentirebbe amaramente di aver sciupato questi anni, in cui – grazie alla riduzione dei tassi di interesse – qualcosa si poteva fare e invece così poco è stato fatto.

Articolo pubblicato su Panorama



Tempesta perfetta sull’Italia

Messa a punto la “manovrina” da 3.4 miliardi che ci è stata imposta dall’Europa, una operazione che ha portato con sé nuove tasse e nuovi adempimenti, nei giorni scorsi il nostro governo ha preso atto, come ogni anno, delle “raccomandazioni” della Commissione europea e, sempre come ogni anno, si appresta a fingere di volerle seguire, salvo poi chiedere clemenza, saggezza e flessibilità al momento di passare dalla parole ai fatti.

Se ci si prende la briga di confrontare le raccomandazioni puntualmente rivolte all’Italia ogni anno dell’ultimo decennio, è difficile sfuggire all’impressione di uno stanco e noiosissimo “copia e incolla”. Riformare la pubblica amministrazione, ridurre i tempi della giustizia, accelerare i pagamenti dello Stato alle imprese, deburocratizzare, ammodernare il mercato del lavoro, spostare il carico fiscale verso gli immobili e il consumo, riqualificare la spesa pubblica, risanare il sistema bancario, privatizzare, combattere la corruzione, ma soprattutto, e prima di tutto: ridurre il deficit e il debito pubblico. La litania si ripete eguale a sé stessa da almeno vent’anni, ovvero da quando Prodi e Ciampi ottenero l’ingresso dell’Italia nell’euro.

C’è un punto, tuttavia, che rende le raccomandazioni di maggio 2017 più rilevanti diquelle formulate in altre occasioni: oggi stiamo per entrare nel tritacarne delle elezioni, anticipate o meno poco cambia. O meglio: qualcosa sarebbe cambiato (in meglio, suppongo) se avessimo votato subito dopo il referendum del 4 dicembre ma, arrivati a questo punto,che si voti a settembre 2017, a ottobre, a dicembre, o a febbraio del 2018, la frittata ormai è fatta. Comunque venga scelta la data delle elezioni, un periodo di demagogia, spese allegre e promesse da marinaio non ce lo leva nessuno.

Di per sé non sarebbe né una novità né un disastro peggiore di quelli del passato. Dopotutto ci siamo abituati. Il problema è che, questa volta, la campagna elettorale coinciderà con un periodo di gravissimi rischi economici e finanziari, e non vi è alcuno scenario verosimile in cui tali rischi possano essere neutralizzati.

Vediamo perché. Occorre considerare, innanzitutto, che la politica accomodante della Banca Centrale Europea, il cosiddetto Quantitative Easing, si sta esaurendo, e il venir meno dell’ombrello-Draghi non potrà non aggravare i nostri problemi, sia sul versante bancario (problema degli NPL, o crediti deteriorati) sia, soprattutto, sul versante dei rendimenti dei titoli di Stato: il famigerato spread è già oggi vicino ai 200 punti base, un livello mai toccato negli ultimi 3 anni.

C’è poi il capitolo della manovra di fine anno. Per ora abbiamo incassato l’ennesimo gesto di benevolenza da parte della Commissione Europea che, pur rilevando i ritardi e le inadempienze dell’Italia in innumerevoli ambiti, ci ha concesso qualche mese di respiro, rimandando a ottobre la verifica sui nostri conti pubblici. Ma questo gesto, apparentemente a noi favorevole, rischia di essere più dannoso che salutare. Il vero problema dell’Italia, infatti, non è ottenere qualche bel voto in pagella da Bruxelles, ma convincere i mercati che siamo in grado di restituire i nostri debiti. E tutto fa pensare che l’ennesima dilazione che abbiamo ottenuto finirà per moltiplicare i nostri rischi quando, in autunno, verrà il momento della manovra, proprio nel cuore della campagna elettorale se di voterà dopo ottobre, proprio nel cuore delle trattative per la formazione del nuovo governo se si voterà subito dopo l’estate.

Perché il cocktail fra elezioni e manovra è così pericoloso?

La ragione di base è che, dopo due anni di promesse mancate sulla riduzione del debito pubblico, la manovra di quest’anno sconta una doppia zavorra: da un lato le richieste dell’Europa di ridurre deficit e debito, dall’altro le clausole di salvaguardia del 2018 (in particolare sull’Iva), che per essere disinnescate richiedono di “reperire risorse” per circa 15 miliardi. La somma di questi due macigni è elettoralmente insostenibile, e fa prevedere che assisteremo a un aumento più o meno mascherato dell’Iva, nonché alla solita promessa di fare domani quel che ci viene richiesto per oggi, e che avremmo dovuto fare ieri. Ma è proprio questo il punto: proprio perché, con il voto alle porte, non potremo fare quel che dovremmo per rimettere in carreggiata i nostri conti, è molto probabile che i mercati e la speculazione ci azzannino. Quando sarà chiaro che il nostro debito pubblico crescerà anche nel 2018, è difficile che l’Italia non sia chiamata a pagare un prezzo in termini di aumento dello spread e tensioni varie, dai prezzi delle obbligazioni all’andamento della borsa.

C’è solo da augurarsi che tale prezzo non sia alto come quello del 2011-2012, quando l’Italia fu a un passo dal baratro. E che, chiunque vinca le elezioni, non debbano passare mesi prima che lorsignori si decidano a darci un governo. Perché l’esperienza, anche recente, insegna che, fra i fattori che fanno levitare lo spread non ci sono solo il deficit, il debito, la mancata crescita, le cattive istituzioni economiche, ma c’è anche l’incertezza politica.

Pubblicato su Panora1ma il 1 giugno 2017