Occupazione, redditi e produttività – Sostenere il ceto medio?

2 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Che la parola d’ordine della manovra di quest’anno sia “meno tasse al ceto medio” è comprensibile. Sorprendenti, semmai, erano state le manovre precedenti, decisamente sbilanciate nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. Dopo un biennio di
politiche di sinistra, è normale che un governo di destra faccia anche qualcosa di destra. Nella prossima manovra, oltre alla conferma delle misure pro ceti bassi, avremo qualche modesta misura a favore dei ceti medi, e forse pure dei ceti alti.

Niente di eclatante, niente di strano. Quel che colpisce, piuttosto, è il ripetersi – da decenni – del medesimo schema: ricerca disperata di “risorse” da ogni rivolo del bilancio pubblico, constatazione che le risorse non bastano a fare quel che si vuol fare, parziale ricorso al deficit per finanziare le misure-bandiera della manovra. Il tutto aggravato, per il futuro, dalla necessità di rispettare impegnativi “piani di rientro” del debito pubblico.

Ma può un governo, un qualsiasi governo, andare avanti così?

Certo che può, e infatti tutti i governi da trent’anni vanno avanti così. La vera domanda è se noi siamo consapevoli che, per questa strada, nessuno dei problemi che tutte le forze politiche denunciano – sanità, scuola, povertà – potrà mai essere risolto, chiunque governi.

L’impressione è che non lo siamo, consapevoli. Se lo fossimo, la smetteremmo di discutere di “politiche palliative”, e ci concentreremmo sulle politiche radicali o “agonistiche” (così le chiama la politologia Chantal Mouffe), ossia su politiche che
provano ad aggredire i problemi alla radice, anche a costo di pagare qualche prezzo in termini di consenso.

Ma qual è la radice dei nostri problemi?

Dipende dalla prospettiva che adottiamo. In astratto la radice è il debito: se il debito fosse al 60% del Pil, anziché al 140%, ogni anno risparmieremmo 40-50 miliardi di interessi sul debito, e con quel “tesorone” potremmo affrontare molti dei nostri
problemi. Peccato che, per arrivare fin lì, ci vorrebbero decenni di austerità, alla fine dei quali potremmo ritrovarci più poveri di oggi.

Se cambiamo angolatura, e diamo il debito come incomprimibile o poco comprimibile, la vera radice dei nostri problemi diventa un’altra. A debito invariato, il nostro guaio è semplicemente il Pil, che è troppo piccolo sia rispetto al debito, sia rispetto al numero di abitanti. Una politica “agonistica”, non meramente palliativa, dovrebbe innanzitutto affrontare il problema del livello troppo basso del Pil pro capite.

Ma perché il nostro Pil pro capite è basso?

Qui è essenziale distinguere due ragioni. La prima è che, da molti decenni, il nostro tasso di occupazione è fra i più bassi dei paesi avanzati. Meno persone che lavorano significa meno redditi che entrano nei bilanci famigliari: la prima causa delle difficoltà economiche di tante famiglie non è il basso livello dei salari orari, ma il fatto che a lavorare sia solo il capofamiglia.

La seconda ragione del nostro basso Pil pro capite è la dinamica della produttività, che ristagna da circa trent’anni. Quando si lamenta che, negli ultimi decenni, i salari reali sono aumentati un po’ dappertutto in Europa, ma in Italia sono rimasti al palo, si
dimentica che la precondizione per l’aumento dei salari orari è l’aumento della produttività del lavoro, che a sua volta dipende in modo cruciale dal progresso organizzativo e dagli investimenti in tecnologie materiali e immateriali.

Rispetto a questi due fattori di crescita del Pil – occupazione e produttività – la situazione del nostro paese è marcatamente asimmetrica. Sul versante occupazionale, le cose vanno benissimo, perché l’occupazione cresce al ritmo annuo di 500 mila
posti, il che significa quasi il 2% all’anno (un risultato particolarmente soddisfacente, perché accompagnato da una riduzione del tasso di occupazione precaria). Sul versante della produttività, comunque la si misuri (produttività totale dei fattori, produttività del lavoro, produttività del capitale), le cose vanno decisamente meno bene: il ritmo di crescita resta ampiamente inferiore a quello degli altri maggiori paesi, con ovvi effetti negativi sulla dinamica salariale.

Se la politica volesse andare alla radice del problema Italia, continuerebbe con le politiche para-keynesiane di sostegno dell’occupazione fin qui adottate, ma le carte residue le giocherebbe sul versante della produttività, con incentivi alle imprese che
innovano e investono in tecnologia. Perché il rischio, se non si agisce anche su questo versante, è che l’aumento dell’occupazione anziché trascinare il sistema nasconda la stagnazione della produttività, che è il nostro vero, troppo spesso dimenticato, tallone
d’Achille.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]