Requiem per il terzo polo

Sarà magari una coincidenza, ma certo colpisce che i più clamorosi successi di queste elezioni europee siano tutti al femminile: grazie al successo dei rispettivi partiti, Ursula Von del Leyen, Giorgia Meloni, Marine le Pen, Elly Schlein avranno un ruolo
decisivo nei futuri assetti dell’unione Europea.

Ma anche in Italia l’esito del voto premia esclusivamente le liste a traino femminile: non solo Giorgia e Elly, ma anche la lista Verdi-Sinistra condotta a un clamoroso risultato (quasi il 7%) dalla candidatura di Ilaria Salis.

Ciascuno a suo modo, i tre risultati sono eccezionali. Il 28.8% di Meloni, in quanto il suo governo è l’unico fra quelli dei grandi paesi europei ad uscire vincente, per di più in un momento (elezioni intermedie) di solito non favorevole ai governi in carica. Il
24% di Elly Schlein, in quanto il Pd è l’unico partito (insieme a AVS) che aumenta i consensi anche in termini assoluti, e ci riesce a dispetto dei voti in libera uscita temporaneamente sottratti al Pd per sostenere la causa della Salis. Il 6.8% della lista AVS, perché – secondo i sondaggi – il superamento della soglia del 4% non era per niente sicuro.

Fra i tre risultati, tuttavia, quello più impattante è stato quello della Salis. In un colpo solo, la pasionaria della lista Verdi-sinistra è riuscita nel miracolo di escludere dal Parlamento Europeo sia la lista di Renzi-Bonino (Stati Uniti di Europa) sia, verosimilmente, quella di Calenda (Azione). È facile immaginare, infatti, che – in assenza del magnete Salis – molti dei voti AVS sarebbero finiti su quelle due liste, consentendo ad almeno una delle due di raggiungere il 4%. L’extra-risultato di Salis
si aggira infatti intorno al 3%, mentre i voti mancanti a Stati Uniti d’Europa sono pari appena allo 0.2 %, e quelli mancanti ad Azione allo 0.7%: due divari colmabili con 1/3 dei consensi che Salis ha portato a Bonelli e Fratoianni.

Visto da questa angolatura, il risultato di AVS è probabilmente il più influente sul futuro del nostro sistema politico. Dopo il flop europeo, sembra estremamente difficile che Renzi e Calenda riescano a mettere insieme i cocci del Terzo polo, che pure aveva guadagnato un non disprezzabile 7.8% alle elezioni politiche. Le recriminazioni reciproche, scattate subito dopo il voto, testimoniano dei limiti caratteriali e strategici dei due leader, e annunciano un futuro non proprio allegrissimo per il centro-sinistra. Se non interverrà qualche invenzione, o qualche nuovo imprenditore della politica, i cosiddetti elettori di centro, che pure esistono, e valgono più o meno il 15% del corpo elettorale, non avrà altra strada che rivolgersi alla neo-resuscitata Forza Italia, il cui leader Tajani da tempo ripete che “occupiamo lo spazio fra Giorgia Meloni e Elly Schlein”. Una simmetria che fino a ieri,
sussistendo i partiti di Renzi e Calenda, poteva apparire artificiosa e pure un po’ furbesca, ma che ora, implosi quei due partiti, suona piuttosto come una constatazione di realtà.

Così il successo di AVS rivela la sua duplice valenza. Da un lato consolida il patto d’acciaio fra PD e AVS, due forze sempre più simili tra loro, e sancisce la perifericità dei Cinque Stelle rispetto ai due partiti di sinistra-sinistra. Dall’altro scava un baratro
fra la sinistra e il centro, fornendo a Tajani le praterie di cui ha bisogno per espandere Forza Italia. Verso il 20%, dice lui. Ma anche il 15% basterebbe ad assicurare buona salute al partito che fu di Berlusconi, e lunga vita alla maggioranza di governo.

Meloni ringrazia.

[Articolo uscito sulla Ragione il 12 giugno 2024]




L’eredità del centro-sinistra

Può sembrare strano, ma un bilancio del quinquennio di governo del centro-sinistra (dal 2013 al 2018), ovvero dell’azione dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, ancora non l’abbiamo né letta né ascoltata. Renzi se l’è sbrigata con poche battute, ma anche dai padri nobili e dai candidati alla successione sono arrivati, finora, solo discorsi più fumosi che alati, ma ben poche analisi. E autocritica ancor meno, se non la ferma  decisione di voler fare autocritica, e le solite due ammissioni di colpa: forse c’è stato un difetto di comunicazione, forse dovevamo parlare di più con la gente.

Eppure è di analisi e di autocritica che ci sarebbe bisogno. Servirebbero al Pd, se vuole fermare il declino e sperare di tornare al governo, ma servono anche a noi, studiosi ed opinione pubblica, per inquadrare l’azione (e le difficoltà) del governo gialloverde. L’azione di un nuovo governo, infatti, non è mai un inizio assoluto, ma sempre la continuazione di una storia scritta da altri, con cui i nuovi venuti sono costretti a fare i conti.

Qual è, dunque, l’eredità del centro-sinistra?

La risposta dei diretti interessati la conosciamo abbastanza bene, è il racconto autocelebrativo che abbiamo ascoltato in tutte le salse, centinaia e centinaia di volte: noi siamo quelli che hanno portato il Paese fuori della crisi; prima davanti al dato del Pil c’era il segno meno, ora c’è il segno più; con il Jobs Act e la decontribuzione abbiamo creato centinaia di migliaia di posti di lavoro; con gli 80 euro abbiamo dato un po’ di ossigeno alle famiglie, stremate da 9 anni di crisi; siamo stati noi a varare, per la prima volta in Italia, una misura di carattere universalistico contro la povertà (il reddito di inclusione); anche se con lo ius soli non ce l’abbiamo fatta, abbiamo varato importantissime leggi su unioni civili, fine vita, femminicidio; con il ministro Minniti abbiamo ridotto dell’80% gli sbarchi. Come hanno fatto gli italiani a non accorgersi di quanto bene abbiamo governato? Come hanno potuto spedirci all’opposizione?

Provo a rispondere, prima come studioso, poi come cittadino. Come studioso la mia obiezione è semplice: molto di quel che rivendicate come merito vostro, cari dirigenti del Pd, è semplicemente effetto della ripresa economica, che ha preso vigore, in Europa, giusto quando voi siete andati al governo. La marea alza tutte le barche, ma la barca dell’Italia negli ambiti che contano (occupazione e crescita del Pil) è rimasta agli ultimi posti in Europa, esattamente come prima, in certi casi peggio di prima.

Dunque la vera domanda non è se, dopo cinque anni di governo, l’Italia stia meglio o peggio di prima, ma è che cosa avreste potuto fare di diverso, e che cosa avete lasciato in eredità a chi oggi deve governare.

E allora vediamola, questa eredità.

Tasse. Per avere l’ok dell’Europa alle leggi di bilancio avete, come tanti governi del passato, inserito le stramaledette “clausole di salvaguardia”; così oggi chi ci governa deve trovare 12 miliardi e mezzo per non far aumentare l’Iva.

Conti pubblici. Anziché approfittare della ripresa per ridurre il debito pubblico, avete mendicato flessibilità in Europa, promettendo ogni anno che il debito l’avreste ridotto, ma l’anno dopo; poi l’anno dopo arrivava, e il debito continuava a crescere, e voi rimandavate di nuovo, o promettevate senza poi mantenere; una vera discesa del rapporto debito/Pil non è mai iniziata. E i mercati finanziari se ne sono accorti: contrariamente a quel che si crede, la tensione sui nostri titoli di Stato è partita fin dalla fine del 2016, in corrispondenza con il referendum perduto da Renzi (per accorgersene, basta dare un’occhiata, anziché allo spread con la Germania, allo spread fra i titoli di Stato di Spagna, Portogallo e Grecia rispetto a quelli dell’Italia).

Povertà. Che il numero di poveri fosse aumentato durante la crisi e continuasse ad aumentare anche negli anni della ripresa, l’Istat ve l’ha comunicato ogni anno. Ciononostante, quando si è trattato di decidere se ridurre l’Irpef, ridurre l’Irap o pensare agli “incapienti” (così poveri da non pagare tasse), avete preferito – con il bonus da 80 euro – convogliare le risorse sul ceto medio dipendente, il più vicino alla vostra base elettorale. E quando avete varato il reddito di inclusione, che ora chiedete al nuovo governo di potenziare, gli avete destinato le briciole, circa un decimo di quel che servirebbe. Come potete stupirvi che gli elettori abbiano voluto credere alla promessa del “reddito di cittadinanza”?

Investimenti pubblici. Nonostante i ripetuti omaggi a Keynes e alle politiche keynesiane, i governi di centro-sinistra si sono ben guardati dal sostenere gli investimenti pubblici, che anzi di anno in anno, chiunque fosse al governo (Letta, Renzi, Gentiloni), sono sempre stati ridotti, a differenza della spesa corrente, ben più redditizia sul piano elettorale. Il precario stato di tante infrastrutture in Italia ha indubbiamente origini lontane, ma è difficile non notare che – negli ultimi anni – la costante preferenza accordata alla spesa corrente non può che averlo aggravato.

Immigrazione. Minniti ha fatto un buon lavoro, non c’è dubbio, e questo è forse il principale asset che il governo gialloverde ha ricevuto in dote. Ma come ci si è arrivati? Il fenomeno che Minniti ha domato, gli sbarchi, è stato alimentato da anni e anni in cui i suoi compagni di partito hanno badato solo a sostenere l’industria dell’accoglienza, fatta di eroici salvataggi in mare e assai più prosaiche gesta delle cooperative che gestiscono gli sbarcati. Il risultato è stato che, in pochi anni, in Italia sono entrati quasi 500 mila migranti che non avevano diritto ad alcuna forma di protezione, e che nessuno (nemmeno Salvini) è in grado di rimandare indietro. Se il lavoro di Minniti non è stato apprezzato dall’elettorato è anche perché, in fondo, il Pd e la sinistra se ne vergognavano, in quanto capovolgimento dell’ideologia dell’apertura cavalcata negli anni precedenti.

Questi, purtroppo, sono i lati oscuri, il non detto e non visto, dell’eredità del centro-sinistra. Capisco che riconoscerli sia difficile, perché può suonare come un’implicita legittimazione del governo gialloverde. Ma non si riflette abbastanza sul fatto che non riconoscerli può essere ancora più pericoloso: senza un’autocritica spietata, un’opposizione di sinistra credibile non vedrà mai la luce.

Quello cui invece quotidianamente assistiamo, sui giornali come in Tv, è l’incredibile recita del seguente copione fisso: prima si dice che certamente c’è stato qualche errore di comunicazione, e che si sarebbe dovuti stare di più sulla rete; poi si ammette che sì, qualche errore politico deve essere stato fatto, se no non si sarebbero persi milioni di voti; ma poi, quando l’incuriosito giornalista chiede “dove avete sbagliato?”, o se il Jobs Act è stato un errore, scatta il grande nulla: dobbiamo riflettere, dobbiamo discutere (ma allora perché non avete ancora indetto il Congresso?), dobbiamo tornare fra la nostra gente. Come se la gente li avesse abbandonati non per le loro scelte politiche, ma perché non si facevano più vedere in giro. Incredibile.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 10 settembre 2018