Perché agli italiani non è piaciuto l’esperimento Albania?

Nei giorni infuocati dei trasferimenti di migranti in Albania mi domandavo: ma come la pensano gli italiani? la maggioranza degli elettori sta con Giorgia Meloni, o condivide invece le severe critiche dell’opposizione? l’operazione Albania sta spostando consensi elettorali verso destra o verso sinistra?

Ora, grazie a un buon numero di sondaggi usciti negli ultimi giorni, possiamo azzardare qualche risposta. A prima vista, si direbbe proprio che gli italiani non abbiano gradito. Se, usando le domande dei vari questionari, dividiamo grossolanamente le risposte fra favorevoli e contrarie alla politica migratoria del governo, invariabilmente dobbiamo constatare che le critiche sono maggiori dei consensi. Secondo un sondaggio di Euromedia Research, le proporzioni fra sfavorevoli e favorevoli sono, a seconda del quesito, 54 a 37, oppure 53 a 28, oppure 49 a 34 (trascuro sempre gli indecisi). Secondo un sondaggio di YouTrend la proporzione è 55 a 45. Secondo un recentissimo sondaggio Swg la proporzione è 48 a 39. Insomma: secondo tutti i sondaggi, gli italiani bocciano l’operazione Albania.

Potremmo fermarci qui, se non fosse per due complicazioni. La prima è che, nello stesso momento in cui i sondaggi sull’opinione pubblica certificano che la gente non apprezza il modello Albania, i sondaggi elettorali non confermano il trend: il consenso ai partiti di centro-destra non cala, anzi ci sono segnali di un ulteriore rafforzamento, con Fratelli d’Italia ormai stabilmente prossimo al 30% dei consensi. Ma c’è anche una seconda complicazione: i sondaggi di questi giorni, a esaminarli attentamente, forniscono una serie di indizi che attenuano l’immagine di un’opinione pubblica risolutamente ostile all’esperimento albanese. Per leggerli, dobbiamo cambiare la domanda: anziché chiederci se gli italiani sono pro o contro quell’esperimento, dobbiamo chiederci quali sono le ragioni per cui sono contro. Ebbene, se spostiamo l’attenzione sulle ragioni, scopriamo diverse cose interessanti. Ad esempio, che sono relativamente pochi i cittadini che osteggiano l’esperimento albanese per ragioni di principio, umanitarie, o di diritto: nel sondaggio YouTrend, sono solo il 23% coloro che si dicono contrari perché l’accordo “viola i diritti umani”; nel sondaggio Swg i contrari in quanto l’accordo “viola il diritto internazionale” scendono addirittura al 15%, appena 1 italiano su 7.

E allora da dove viene la contrarietà?

Leggendo le risposte ai sondaggi, non è difficile capirlo. Una parte dei rispondenti si dice contrario non perché il modello sia iniquo, sbagliato, o disumano, ma semplicemente perché pensa che non funzionerà: questa quota, che potremmo definire di scettici, è pari al 30% nel campione di Euromedia, e al 33% nel campione Swg.

Ma il segmento più interessante è quello di coloro che giudicano negativamente l’esperimento albanese per i suoi costi. Nel campione YouTrend gli spaventati dai costi sono il 32%, nel campione Euromedia sono il 34%. In breve 1 cittadino su 3 disapprova l’accordo perché costerebbe troppo. Combinando le varie risposte, si può concludere che la maggior parte dei contrari lo sono non per ragioni di principio, ma per scetticismo sulla riuscita, o per via dei costi troppo elevati.

La sensazione che si buttassero via i soldi è stata sicuramente aiutata da due cifre ampiamente circolate sui media: l’operazione Albania sarebbe costata 1 miliardo di euro, che sarebbe potuto essere meglio impiegato rafforzando il disastrato comparto
sanitario; le trasferte dei 16 migranti sarebbero costate, da sole, 250 mila euro (15 mila euro a migrante), insomma una vera follia. Di qui la perplessità dei cittadini, l’indignazione delle opposizioni, le denunce per danno erariale, eccetera.

Molto si potrebbe controbattere ad entrambe le cifre e le argomentazioni, in primis la totale assenza di qualsiasi tentativo di condurre una seria analisi costi-benefici del progetto Albania. Qui mi accontento di osservare che la stragrande maggioranza dei
cittadini (compresi alcuni giornalisti e commentatori) non ha la minima percezione degli ordini di grandezza in gioco, al punto che non è raro sentire anche illustri opinionisti confondere i milioni con i miliardi. A molti sembra sfuggire, ad esempio,
che una cifra che può apparire enorme in un contesto familiare (1 milione di euro), ha un peso completamente diverso in contabilità nazionale.

Nel nostro caso è spesso successo che i 650 milioni di euro in 5 anni (costo ufficiale dell’esperimento) venissero presentati come se l’ammontare fosse di 1 miliardo e in 1 solo anno, e come se quella cifra, percepita come enorme, potesse alterare significativamente il bilancio annuale della sanità (in realtà lo altererebbe dello 0.09%). Per capire quanto possa essere distorsivo e forviante ragionare sulle cifre dimenticando che stiamo parlando di voci di contabilità nazionale, vorrei fornire qualche termine di paragone fra voci di spesa riportando tutto a una dimensione familiare, ossia traducendo tutto in spesa per abitante.

Ebbene, negli ultimi anni le cifre medie sono approssimativamente queste. Il valore annuo della spesa sanitaria è di circa 2300 euro per abitante (compresi bambini e i neonati). Il costo annuo del superbonus è stato di circa 500 euro per abitante. La spesa totale per l’accoglienza è dell’ordine di 50 euro all’anno per ogni abitante.

E il costo – ingente, mostruoso, vergognoso – dell’esperimento Albania?

Tenetevi forte: 2.2 euro per abitante all’anno (il costo d 2 caffè). E il costo dell’intera operazione Albania, spalmato su 5 anni? ben 11 euro per abitante.

Di qui un dubbio: siamo sicuri che gli intervistati che si sono dichiarati contrari all’operazione Albania perché troppo dispendiosa avessero idea che il costo per abitante era di 2 euro l’anno? O sapessero di averne sborsati 500 (ossia 250 volte tanti) per permettere a 1 famiglia su 20 di ristrutturare case e ville?

Se la risposta fosse che non ne erano consapevoli (perché per tutti è molto difficile ragionare sulle grandezze di contabilità nazionale), ne scaturirebbe un’altra domanda: come ha potuto, l’esecutivo, non rendersi conto che – in casi come questo – le
intuizioni della gente sono fallaci, e quindi le istituzioni hanno il compito di informare correttamente sulle vere cifre in gioco?

[articolo uscito sul Messaggero il 24 ottobre 2024]




Lega e Forza Italia, la fusione fredda

Non appassiona per niente il balletto che, da qualche giorno, Forza Italia e Lega stanno inscenando intorno all’ipotesi di fondersi o federarsi. Ed è giusto così: tutto, infatti, si sta svolgendo senza alcun coinvolgimento di militanti ed elettori, senza alcun vero confronto di idee e programmi, senza alcun dibattito sul futuro dell’Italia e sulle cose da fare.

Che il gioco in atto appassioni solo i parlamentari e le nomenklature di partito non significa, però, che l’esito di tali manovre non abbia ripercussioni anche su di noi.  Quel che accadrà in queste settimane, infatti, cambierà l’offerta politica e, per questa via, potrà produrre conseguenze per tutti.

Vediamo, dunque, di che cosa stiamo parlando. A dar credito alle dichiarazioni ufficiali, la proposta di federare Lega e Forza Italia sarebbe venuta da Salvini, e Berlusconi la starebbe valutando.

Ma è un racconto fuorviante: la realtà è che l’idea di conferire Forza Italia alla Lega risale a due anni fa, e si deve a Berlusconi stesso, che ebbe ad avanzarla in una riunione dei parlamentari azzurri a Palazzo Grazioli. Era il 12 giugno del 2019, Forza Italia veniva da un risultato deludente alle Europee (8.8%), i sondaggi la davano al 6%, e Berlusconi dichiarava: “Forza Italia è destinata a stare con la Lega o attraverso un’alleanza o con una fusione (…). Con Salvini sono in costante contatto. Mi è sembrato interessato a ragionare sull’ipotesi di una federazione di centrodestra”.

Le cronache dell’epoca (2 anni fa esatti) raccontano che, in quella occasione, Berlusconi aveva addirittura calcolato i seggi uninominali conquistabili, e commissionato ben tre sondaggi per la scelta del nome: Centrodestra unito in caso di partito unico, Centrodestra italiano in caso di federazione. Alla fine quest’ultimo nome gli era parso il più promettente, perché i sondaggi gli attribuivano la capacità di aumentare del 25% i voti.

E’ anche il caso di ricordare che, nei due mesi successivi, avvengono alcuni cambiamenti decisivi dentro e intorno a Forza Italia. Il 19 giugno Giovanni Toti e Mara Carfagna vengono nominati coordinatori di Forza Italia, con il compito di riorganizzare il partito e modificarne lo statuto, anche in vista di un congresso da tenersi a settembre.

Non essendo addentro alle faccende di Forza Italia, non ho idea delle ragioni per le quali questa operazione, nel giro di poco più di un mese, ebbe ad incepparsi. Sta di fatto che, già ai primi di agosto del 2019, il piano salta e Giovanni Toti avvia la costruzione di Cambiamo!, piccola formazione politica cui nel tempo aderiranno diversi big di Forza Italia (fra gli altri Paolo Romani e Gaetano Quagliariello), fino alla recentissima confluenza di varie sigle e persone in Coraggio Italia, il partito fondato dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.

In breve: il progetto di fusione con la Lega è farina del sacco di Berlusconi, risale a ben due anni fa, ed ha già provocato la formazione di un’area di resistenza alla fusione stessa, area attualmente capeggiata da Toti e Brugnaro.

Ma veniamo al punto. Perché si torna a parlare di fusione?

Difficile rispondere con sicurezza. Per quanto riguarda Berlusconi, la mia sensazione è che, più che la (ingenua?) speranza di essere candidato alla presidenza della Repubblica, conti l’esigenza di sistemare le cose della sua vita, in un tempo in cui la salute è malferma e il futuro è incerto. Forse non è un caso che la prima idea di consegnare Forza Italia alla Lega maturi, un paio di anni fa, in un periodo in cui Berlusconi prepara o conclude altre liquidazioni, come la cessione del Milan ai cinesi, o di Panorama a “La Verità”, o la chiusura della sede romana del Giornale. Insomma: mi pare comprensibile che, non avendo trovato un leader in grado di succedergli, Berlusconi trovi più onorevole mettere il suo suggello a un marchio nuovo di zecca che assistere mestamente al tramonto del suo giocattolo.

Per quanto riguarda Salvini, ci sono almeno tre ragioni, due buone e una meno, per guardare con interesse alla annessione con Forza Italia. La prima è che “a caval donato non si guarda in bocca”, posto che Berlusconi non pare richiedere contropartite significative. La seconda è che la ibridazione con Forza Italia non può che rafforzare  la credibilità della Lega in Europa. La terza è che, agli occhi di Salvini, una eventuale fusione con Forza Italia potrebbe allontanare lo spettro del sorpasso da parte di Fratelli d’Italia, con conseguente passaggio della leadership del Centrodestra da lui stesso a Giorgia Meloni.

Ma è un calcolo ben fondato?

Io ne dubito. Trent’ anni di analisi dei flussi elettorali permettono, infatti, di azzardare due previsioni piuttosto solide: primo, la somma dei voti dei due partiti diminuirà; secondo, i voti perduti resteranno nel centro-destra (secondo la dottrina della “fedeltà leggera”, copyright Paolo Natale).

Dunque la domanda è: dove andranno i voti perduti?

Fondamentalmente verso due destinazioni. La prima è la galassia di centro, dove sarà interessante capire chi sarà più lesto ad acciuffarli (potrebbe essere Coraggio Italia, ma anche Azione di Carlo Calenda, se si posizionerà sufficientemente lontano dal Pd). La seconda destinazione, ahimè per Salvini, è proprio Fratelli d’Italia, che già ha il vento in poppa, e potrebbe trarre ulteriore slancio dall’arrivo di quanti non gradiranno la fusione fredda fra Lega e Forza Italia.

Insomma, se lo scopo è impedire a Giorgia Meloni di assumere la guida del centro-destra, la fusione non sembra l’arma più appropriata. Quanto allo scopo stesso, lo si può ritenere più o meno condivisibile, ma è difficile non vedere che, stante la popolarità della Meloni (di gran lunga superiore a quella di Salvini e Berlusconi), “fermare Giorgia” renderà meno e non più agevole la vittoria del centro-destra alle prossime elezioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 giugno 2021