Il Follemente corretto: dalla libertà di espressione alla società dell’omologazione – Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi

D. Siamo passati dalla schiavitù del politicamente corretto alla gabbia del follemente corretto. Professore lei quando se ne è accorto?
R. Non c’è un momento preciso, è stato un processo lento che ha avuto però un’accelerazione intorno al 2020, quando stavo iniziando a lavorare al mio libro La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra (Rizzoli). Lì ho capito che la libertà di espressione era gravemente compromessa, specie negli Stati Uniti e massimamente nelle università di quel paese, e che l’attivismo trans stava mettendo a repentaglio sia alcuni diritti delle donne, primo fra tutti quello di proteggere i propri spazi protetti nei centri anti-violenza, nelle competizioni sportive, nelle carceri e dei minorenni, sia il diritto dei minorenni a non essere manipolati e precocemente avviati a percorsi di modificazione del sesso.

D. Lei ha censito nel libro la quantità di pronomi che il follemente corretto ha imposto per le identità sessuali.  Una tale proliferazione non è in fondo la negazione stessa di una identità sessuale?
R. Sì, la tendenza è a rendere evanescenti, soggettivi, e indefinitamente riprogrammabili sia l’identità sessuale, che quella di genere (ma ci sono anche casi di cambio di razza, e persino di età). Che tutto questo non conduca, specie fra i minorenni, a gravi problemi di identità, sicurezza e autostima è tutto da dimostrare.

D. Eppure secondo le ultime ricerche i fenomeni di bullismo, in particolare a sfondo sessuale, non fanno che aumentare così come le violenze verso le donne. Si è molto attenti alle classificazioni, ma non alle parole che nella vita quotidiana si usano. Si ha la sensazione di vivere in un deserto di emozioni, in cui manca il senso dell’altro e dunque il rispetto per la persona. Come lo spiega?
R. Mutamenti così complessi non sono spiegabili con una formula. Come sociologo, qualche anno fa ho provato a leggere i fenomeni che lei richiama con il concetto di “società signorile di massa”, ma oggi sento il bisogno di arricchire quella chiave
interpretativa con altri tasselli, che vengono soprattutto dalla psicanalisi e dalla psicologia sociale. Mi riferisco, in particolare, all’evaporazione del padre e all’insofferenza per ogni limite o attesa. Checché ne dicano tante femministe, non viviamo affatto in una società patriarcale, semmai in una società maschilista che – come ha più volte spiegato Massimo Recalcati – aspira al godimento immediato, ma è incapace di desiderio, che è fatto anche di attesa, rinuncia, sacrificio, dilazione della gratificazione.

D. Il follemente corretto ha il potere di condizionare pubblicità, far ripulire opere d’arte, romanzi, film, cartoni per ragazzi. Siamo arrivati al punto di dover rinnegare la nostra storia e anche noi stessi?
R. Sì, è il grande tema del rimorso dell’occidente, ma anche del nostro nichilismo, che Nietzsche aveva capito e profeticamente descritto già 150 anni fa.

D. Utero in affitto come diritto di chi cerca la maternità, imposizione del non genere sessuale che soppianta anche il femminismo, diritti dei migranti a immigrare, alcune delle iperboli del politicamente corretto. Perché hanno così tanta presa presso le élite?
R. Le élite, proprio perché vivono molto più agiatamente delle masse popolari, hanno continuamente bisogno di mostrare la loro virtù e la loro sollecitudine nei confronti dei deboli, ma dato che occuparsi dei veri deboli e dei loro bisogni (a partire dal welfare) costerebbe uno sproposito, hanno trovato una soluzione geniale: occuparsi dei diritti LGTBT+, che costano pochissimo, e dei migranti, che costano relativamente poco in termini di accoglienza e salvataggi, e in compenso forniscono manodopera a basso costo a datori di lavoro più o meno spregiudicati. Nel mio libro sulla società signorile di massa avevo contato ben 3.5 milioni di ipersfruttati, o para-schiavi, di cui né i sindacati né le forze politiche sembrano intenzionate ad occuparsi.

D. Siamo alla contrapposizione tra classe dirigente e popolino, alla faccia dell’inclusione…
R. Sì, la classe dirigente accoglie, e il popolino spesso paga il conto, sotto forma di insicurezza e concorrenza sleale sulle paghe.

D. Lo sa che lei con questo libro ha consacrato il suo essere antiprogressista?
R. Non direi, semmai ho invitato i progressisti ad esserlo davvero, occupandosi di diritti sociali e abbandonando la zavorra del follemente corretto. I diritti civili vanno benissimo, ma solo se non sostituiscono quelli sociali e accettano dei limiti,
innanzitutto in materia di utero in affitto e di cambio di sesso dei minori.

D. Lei continua a massacrare tutti i luoghi comuni o totem della sinistra italiana.
R. È la sinistra, non solo italiana, che me li offre su un piatto d’argento.

D. Se a sinistra vige il follemente corretto, a destra vale il politicamente scorretto. Piace perché è più popolare?R. Il politicamente scorretto di una parte della destra non mi piace per niente, perché è semplicemente l’altra faccia del follemente corretto: una reazione eguale e contraria. Quel che io e tanti altri rivendichiamo è semplicemente la piena libertà di espressione, il diritto di parlare come ci pare senza subire processi sommari per le parole che usiamo.

D. Sulla gestione dei migranti, tema molto sentito sia in Europa che in Usa, capace di condizionare intere campagne elettorali anche progressiste, l’ultimo decreto del governo Meloni sugli hotspot in Albania è stato giudicato negativamente dagli italiani, stando ai sondaggi. Come lo spiega?
R. C’è stato un enorme deficit di comunicazione da parte del centro-destra.

D. Che cosa non è stato spiegato dal governo?
R. Molte cose, ma innanzitutto i costi. La gente si è fatta l’idea che i costi fossero esorbitanti, e che con quei soldi si sarebbero potuti ridurre i tempi di attesa nella sanità pubblica. La realtà è che il costo procapite (per ogni italiano) è di 2 euro all’anno, una goccia nel mare della spesa sanitaria, che è di 2300 euro procapite. Chiunque capisce che 2 euro su un budget di 2300 sono un’inezia, che non sposta minimamente le cose.

D. Diciamo che la destra è capace di andare al potere, ma ancora non riesce a comunicare?
R. Sì, la comunicazione non funziona bene. Ma non è l’unica criticità: le vicende del Ministero della cultura suggeriscono che i problemi non siano solo di comunicazione, ma più in generale di selezione e gestione della classe dirigente.

[intervista uscita su Italia Oggi il 31 ottobre 2024]




Scuole americane e libri all’indice – Censura bipartisan

La storia della censura è singolare. Negli anni ’50 e ’60, in Italia, i limiti alla libertà di espressione venivano soprattutto dalla destra e dai poteri clericali, che altro non facevano che applicare – piuttosto strettamente – l’articolo 21 della Costituzione, il
cui comma 6 recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”.

Questo regime è tramontato progressivamente, fra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, semplicemente perché il concetto di “buon costume”, come peraltro quello di “comune senso del pudore”, sono mutati radicalmente sotto la spinta del ’68 e
soprattutto del femminismo. Probabilmente l’ultimo atto significativo di censura dall’alto è il sequestro, alla fine del 1976, del romanzo Porci con le ali, di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice.

Poi, praticamente nulla: libri, film e spettacoli teatrali cominciano a circolare liberamente. La satira in tv, specie nel quindicennio 1985-2001, conosce una stagione di allegria e meravigliosa scanzonatezza (da Quelli della notte, 1985, a L’ottavo nano, 2001), mai eguagliata dopo di allora. Certo, gli episodi di censura ci sono ancora, ma sono circoscritti e strettamente politici, nel senso che scattano se, e solo se, viene toccato un politico in posizione apicale (Craxi, Berlusconi).

Non così nel nuovo secolo, infestato dal politicamente corretto e dalla cosiddetta cancel culture. Inizia una nuova censura, molto diversa da quella del passato: è di sinistra anziché di destra, e procede dal basso anziché dall’alto. Inutile ricordare qui le migliaia di opere di ogni tipo – dalla Divina Commedia a Dumbo, dai dipinti di Gauguin alle musiche di Debussy – cadute sotto la scure dell’attivismo woke, specie negli Stati Uniti e in molti paesi di lingua inglese.

Quello su cui forse vale la pena richiamare l’attenzione, però, è quel che, da qualche tempo succede nelle scuole americane, e in particolare nelle biblioteche interne agli istituti scolastici. Qui da alcuni anni si stanno moltiplicando i tentativi da parte di
genitori, loro organizzazioni, ma anche attivisti esterni e autorità politiche locali, di bandire libri considerati “inappropriati”, ma la matrice dominante delle spinte censorie, a differenza di quel che da molti anni succede nelle università e nelle grandi
istituzioni della società americana, non è di sinistra.

La progressione del fenomeno è attentamente monitorata da varie associazioni di difesa del libro e della libertà di lettura. Ad esempio: l’associazione di scrittori Pen America, l’associazione dei librai American Library Association (ALA), Amnesty
International. Ebbene, i dati raccolti negli ultimi anni segnalano una esplosione del numero di libri di cui viene richiesto il bando. Secondo ALA, che raccoglie dati da più di 20 anni, le richieste di censura di libri erano 729 nel 2021, ma erano salite a 1269 nel 2022 (+74.1% in un solo anno). Secondo Pen America, che non lavora sugli anni solari ma sugli anni scolastici, nel 2021-22 le contestazioni erano state 2532, salite a 3362 nell’anno scolastico successivo (2022-23), e a oltre 10 mila nell’anno
scolastico appena concluso (2023-24).

Se si va a vedere di che libri si tratta e quali sono le ragioni delle richieste di bando, si scopre che, pur non mancando esempi paradossali, o difficili da collocare politicamente (la Bibbia, 1984 di Orwell), i contenuti più contestati ricadono in poche
categorie: oscenità e pornografia; violenza, sesso esplicito; storie LGBTQIA+; personaggi di colore; schiavismo e colonialismo.

Scavando più a fondo, emerge abbastanza chiaramente che la matrice delle contestazioni più frequente è di tipo conservatore e anti-woke (anche se non mancano contestazioni di segno opposto), e che non di rado la contestazione poggia su norme
introdotte dall’alto negli stati a maggioranza repubblicana, come Texas, Florida, Iowa, Utah, South Carolina, Tennessee.

Se teniamo conto del fatto che il fenomeno, pur presente da decenni, è decollato nel 2021 e ha preso vigore negli anni successivi, non sembra azzardato leggerlo (anche) come una reazione del mondo repubblicano alla sconfitta di Trump alle elezioni presidenziali del 2020.

Naturalmente ognuno può giudicare come preferisce l’esplosione delle richieste di censura dei libri delle biblioteche scolastiche: inaccettabile limitazione della “libertà di lettura”, o salutare reazione all’indottrinamento woke in atto in tante scuole
americane?

Resta il fatto che, almeno nelle scuole americane, la cancel culture non è più un monopolio della sinistra.

[articolo uscito sulla Ragione il 1° settembre 2024]




Il Monologo del secolo – Talleyrand, Pollyanna, Barbra Streisand e la censura del compitino di Scurati

La difesa pavloviana dal fascismo immaginario ha raggiunto l’apice con il caso del bestsellerista cui si negano milleottocento euro per una comparsata tv. Sabato di resistenza di neostaffette partigiane, e un glorioso cinque per cento di telespettatori (con risposta tombale di Meloni)

Non ricordo qual è stata la prima o la centesima volta che l’ho pensato, in questo lungo weekend in cui i retweet venivano spacciati come lotta partigiana sulle montagne, in cui il senso del ridicolo era più stramorto del solito, in cui è stato chiaro che la curva d’apprendimento è vieppiù piatta. Non ricordo quand’è che ho pensato per la prima o centesima volta: io a vedere la sinistra schiantarsi sempre negli stessi modi non ce la faccio.

I fatti, se beati voi vivete nella capanna di Unabomber e domenica mattina non avete cliccato sulla app di Repubblica trovandoci in apertura quindici tra pezzi, video, ritratti, editoriali, retroscena, su Scurati, di Scurati, per Scurati, tra Scurati. (Il Corriere più moderato solo perché Scurati non è più editorialista suo. Non che nessuno si fosse in questi mesi accorto che era passato dal Corriere a Repubblica, ma non divaghiamo).

Serena Bortone, conduttrice d’un programma da quattro per cento del sabato sera su Rai 3, chiede ad Antonio Scurati – premio Strega, bestsellerista, professionista dell’antifascismo – un monologo da declamare in trasmissione. Lui scrive una paginetta di compitino su Matteotti, e qualcosa va storto.

C’entrano Calboni e Talleyrand? Luca Bizzarri, comico, ha detto che questa è una di quelle occasioni in cui il funzionario Rai smanioso di compiacere il potere eccede in prudenze. Andrea Malaguti, direttore della Stampa, ha ricordato che Talleyrand raccomandava: surtout, pas trop de zèle. Che anche a me pare un buon motto per sintetizzare queste due giornate di resistenza immaginaria, temo per ragioni diverse da quelle per cui lo evoca Malaguti.

Fatto sta che all’autrice e conduttrice di “Chesarà…” viene comunicato l’annullamento della prevista ospitata scuratiana, e lei fa ciò che hanno fatto tutti i Santoro del mondo in questi venticinque anni del format «Censura, puntesclamativo»: invece di risolvere la questione, arma un casino garantendosi un posto fisso nel martirologio (posto già prenotato mesi fa, quando percependosi eroica disse in trasmissione d’essere fiera d’essere antifascista, e il Twitter di Pavlov la acclamò come fosse stata una staffetta partigiana e non una conduttrice fin lì invisibile che aveva trovato il modo di diventare, scusate la parola, virale).

Naturalmente, poiché siamo bravissime a lamentare che ci siano poche donne di potere, ma sia mai che una donna di potere sia disposta a posizionarsi come donna di potere e non come Pollyanna che sbatte le ciglia travolta da una realtà più grande di lei, Serena Bortone – oltretutto protetta dall’essere una giornalista assunta dalla Rai a tempo indeterminato, non un Santoro collaboratore in balìa dei rinnovi contrattuali – scrive su Instagram che lei ha «appreso con sgomento, e per puro caso, che il contratto di Scurati era stato annullato».

Non è quello il momento in cui penso che non ce la faccio; lo so per certo, perché ricordo bene che quello è il momento in cui penso a Corrado Guzzanti che fa Rutelli («a’ Sere’, me fai ammazza’ dalle risate»), e in cui penso: ah, quindi la Bortone ora prende atto di venir trattata come il due di coppe quando briscola è a danari, e dice beh, se neanche mi dicono quando saltano gli ospiti e devo scoprirlo per caso, il programma ve lo fate voi e io torno dignitosamente a lavorare in redazione. Lo so: sono tenerissima.

Bortone, che è più sveglia di me, fa il suo apparentemente sprovveduto post dopo aver scartato l’alternativa che non avrebbe portato gloria a nessuno: far andare Scurati a Roma, insistere coi funzionari Rai, o convincere lui a fare ciò che ha poi fatto lo stesso (rinunciare a fatturare) e, nel caso assai improbabile che venisse messo il veto sulla sua presenza in studio a titolo gratuito, solo a quel punto piantare un casino – mica dodici ore prima, rendendo chiaro che è al casino che miri e non alla soluzione.

Breve inciso. Domenica Il manifesto riportava come non fosse la prima volta che la Bortone fa scrivere un monologo e la Rai le risponde «col cazzo»: sarebbe già accaduto mesi fa con Nadia Terranova, che aveva scritto un monologo mai andato in onda sugli studenti manganellati dalla polizia. Non ricordo, all’epoca, stuporoni pubblici della Bortone e conseguente indignazione dei social e dei giornali. Sarà perché Terranova è meno Strega e meno bestsellerista, o perché la puntata era meno adiacente al 25 aprile e all’antifascismo di Pavlov. Sarà che quel giorno a Bortone non funzionava Instagram. Surtout, sapere in quali casi vale la pena giocarsi la carta dell’indignazione per raccogliere il maggior consenso possibile.

C’è una questione di soldi, a margine della questione Scurati, che dovrebbe costituire come minimo un paio di capitoli nella nuova edizione del manuale delle malattie psichiatriche. Vediamo se riesco a riassumerla.

Il compenso per il compitino su Matteotti sarebbe stato di milleottocento euro. Pochi? Tanti? Medi, direi. La Rai li avrebbe ritenuti tanti e l’ufficio scritture avrebbe quindi bloccato il contratto. L’ufficio scritture della Rai, per capirci, è quello che venticinque anni fa offrì a un premio Nobel trecentomila lire a puntata per presentare Sanremo, giacché per l’ufficio scritture della Rai il Nobel non conta granché, se non hai «il precedente». Cioè un precedente contratto con la Rai che stabilisca il tuo valore monetario. Qual è il precedente di Scurati? Non lo sapremo mai, giacché come tutte le storie italiane anche questa è rapidamente diventata “Rashomon”.

Repubblica sabato pubblica una foto d’una schermata Rai in cui si dice che l’ospitata di Scurati è annullata per «motivi editoriali». Facciamo che ci fidiamo, e che quella è la vera comunicazione interna: servono, a voler fare una lettura non tifosa, i codici per decrittarla. Esiste la possibilità che in una comunicazione interna Rai qualcuno lasci scritto «è troppo esoso»? «Motivi editoriali» è una formula standard come «motivi di famiglia» nelle giustificazioni quando non ci andava di andare a scuola? Dipende da a chi chiedi, come in ogni rashomon.

Nel frattempo, però, sui social succede una cosa stupenda. Poiché il posizionamento antifascista richiede di stare con Scurati senza se e senza ma, il paese che strepita per il danaro altrui sempre e che normalmente non vede l’ora d’indignarsi se qualcuno è pagato coi-nostri-soldi, quel paese lì quei milleottocento euro per il compitino su Matteotti li difende come fossero il salario minimo d’un metallurgico. La gamma di zelanti motivazioni va da «il lavoro va pagato» a «non sono milleottocento per un minuto, sono milleottocento per una vita di studi per arrivare a quel minuto» (no, giuro: sono proprio milleottocento per un minuto, lo so che se lo ammettete vi si rivoltano contro i lavoratori culturali ai quali nessuno dà non dico milleottocento ma neanche centottanta euro al minuto come premio per una vita di dottorati, ma è una buona occasione educativa per ribadire che «quelli capaci la fila non la fanno»).

L’inevitabile protagonista del sabato pomeriggio è l’effetto Barbra Streisand di quando cerchi di occultare qualcosa e finisci per moltiplicare l’attenzione. Scurati dà il testo del suo monologo ai giornali, quelli ovviamente lo pubblicano, le autopercepite staffette partigiane twittano cose come «Linkiamolo tutti, facciamogli vedere che non si può silenziare l’antifascismo», sempre nei toni sobri che hanno generazioni che non hanno mai avuto a che fare con una dittatura e quindi si concedono il lusso di vederne di immaginarie ovunque.

A un certo punto mi appare persino un tweet di Giuliano Ferrara con scritto «La Rai ha pestato una cacca. Viva Scurati e il suo monologo», e piangendo mi viene da ridere. Qual è la differenza tra quando Santoro non doveva rompere i coglioni perché un editore aveva diritto di fare l’editore – cioè di dire: questo va in onda, questo no – e questa bega del 2024? Che la Meloni è meno simpatica a Ferrara di quanto lo fosse Berlusconi e la Bortone gli è meno antipatica di quanto lo fosse Santoro, d’accordo: ma può essere l’unico criterio, superata la quinta ginnasio?

Comunque. Il risultato barbrastreisandizzato è che il monologo è ovunque. Il compitino riassumibile in «Matteotti ucciso, Meloni fascista» – compitino che sarebbe scomparso, morto d’irrilevanza, in un programma televisivo di cui normalmente non s’accorge nessuno – viene diffuso come fosse un gol dei mondiali; finché succedono due cose.

La seconda è che la sera, come fosse appunto un gol dei mondiali, il compitino va a reti unificate, tutti a leggere quel passaggio sulla parola «antifascismo» che «palpiterà sulle labbra riconoscenti», giacché non c’è più differenza di lessico tra vibranti monologhi politici e “50 sfumature” (d’altra parte, se il registro abituale degli intellettuali all’opposizione è «bastardi» e «mentecatta», «palpiterà» è in effetti retorica sofisticata). Gramellini e Vecchioni lo leggono su La7 (almeno così mi dicono: far funzionare la app di La7 è impossibile a me come a chiunque); Serena Bortone lo legge su Rai 3.

Ribadendosi ingenua ragazza senza potere («Ho scoperto del tutto casualmente», «pur avendo passato tutta la sera a telefonare, mandare messaggi, mandare mail, non sono riuscita a ottenere alcuna spiegazione»); non presentando però di conseguenza le proprie dimissioni; ma soprattutto premettendo che «ho letto ricostruzioni fantasiose e offensive, qualche giornale ha scritto addirittura che ci sarebbe stata una questione di soldi, preciso che la reazione di Scurati è stata di regalarmi il testo».

Surtout, ribadire che il denaro è lo sterco del demonio e noialtri lavoriamo per la sola vocazione democratica. Surtout, omettere che milleottocento euro Scurati li incassa con seicento copie di “M.”, e insomma ecco è un sacrificio minore, considerato quante centinaia di migliaia di copie ha venduto quella trilogia (e l’anno prossimo arriva la serie Sky e altro che milleottocento). Ma scusate, non vorrei far sempre la parte della volgare capitalista, mentre scrittori e attori e sindaci e antifascisti tutti declamano in ogni dove il compitino su Matteotti sentendosi parte della resistenza – a titolo gratuito.

Io non ce la posso fare con una sinistra per cui le questioni di soldi sono «offensive», ma questo è un problema mio. Il problema di logica è invece: prerequisito per l’antifascismo è dunque lodare la generosità di Scurati per non essersi fatto pagare dalla Rai un testo che nel frattempo aveva lasciato pubblicare gratuitamente ai cani, ai porci, alle VongolaPartigiana75? (Testo e polemica non sono comunque riusciti a far arrivare Bortone al cinque per cento, d’altra parte era la milionesima replica dello stesso compitino).

La prima cosa che succede nel bel mezzo dell’effetto Barbra Streisand è che a un certo punto del sabato pomeriggio Giorgia Meloni pensa: vi faccio vedere come la gestisce una che ci sa fare con la comunicazione (mi scuso per tutte le volte in cui ho scritto che Meloni era una Ferragni della politica: è evidente che Ferragni ha moltissimo da imparare da lei nella gestione degli inciampi, è evidente che è Ferragni a essere una Meloni d’insuccesso).

Il suo «vi faccio vedere come posta un’italiana» comincia dalla sinistra che monta un caso invece di pensare ai veri problemi del paese, passa per una spruzzata di populismo sui milleottocento euro che un dipendente prende in un mese, plana su lei ostracizzata per una vita che mai chiederà «la censura di nessuno. Neanche di chi pensa che si debba pagare la propria propaganda contro il governo coi soldi dei cittadini».

Surtout, io non ce la posso fare a vedere la Meloni vincere per i prossimi trecento anni, e la sinistra incartarsi sempre negli stessi modi.

La domenica mattina Antonio Scurati le risponde su Repubblica, straparlando della violenza che gli sarebbe stata fatta con un post su Facebook (come sopra: a non avere mai un problema vero, se ne proiettano di immaginari ovunque; è una buona notizia: siamo satolli e sereni, e possiamo dedicarci a usare parole serie per questioni poco serie).

Nella sua risposta, parlando di sé stesso in terza persona, Scurati si definisce «un privato cittadino e scrittore suo connazionale tradotto e letto in tutto il mondo». Ora, non voglio accanirmi sulla costruzione in cui sembra voglia dire che lo scrittore è connazionale del privato cittadino invece che della Meloni; non voglio neanche soffermarmi sul dirsi da soli che ti leggono in tutto il mondo, ché poi si nota che sono invidiosa; voglio solo dire che io non ce la posso fare. È un limite mio, scusate.

[articolo uscito su Linkiesta il 22 Aprile 2024]

Link: https://www.linkiesta.it/

 




Il censore della nostalgia

Commentando il ‘discusso libro’ del generale Roberto Vannacci, Corrado Augias, uno dei terroristi della mente in servizio permanente effettivo sulle colonne di ‘Repubblica’, dopo aver ricollegato Il mondo al contrario al clima di esaltazione delle ‘famigerate SS naziste’, ironizza sulla nostalgia del mondo di ieri che cola dalle pagine del saggio. Rimpiangere l’Italia che fu significa ignorarne l’arretratezza, la diffusa povertà, i diritti civili inesistenti, il divorzio da conquistare a colpi di pistola, il delitto d’onore, l’assistenza sanitaria rudimentale. ‘E’ inutile polemizzare col presente tanto più se si considera la portata rivoluzionaria del passaggio in corso, dalla cultura della carta a quella digitale’. Sono preziose stille di saggezza! E tuttavia, vorremmo chiedere all’onnipresente columnist, è un reato ritenere che l’Italia di Pane amore e fantasia avesse anche positività perdute? Cercare di conservare qualcosa del passato è un reato di lesa modernità? Parlare di “bellezza del nucleo familiare tradizionale” comporta l’esposizione alla gogna mediatica? Forse è ingenuo voler ritornare al mondo pre-68 ma non si vede perché si debba essere obbligati a guardare al passato come a un blocco compatto in cui, ad es., il positivo (assenza di ballo con sballo) era indissolubilmente unito al negativo (l’autoritarismo familiare) e la meritocrazia era unita a una Università che teneva lontane le masse. In ogni caso, i valori legati al passato stanno sullo stesso piano di quelli che guardano al presente e al futuro e, in democrazia, quel che conta è la diversa risonanza che hanno negli animi dei cittadini. Il pluralismo – quello vero di Isaiah Berlin – è proprio questo: abbiamo idee diverse in campo morale, politico, sociale, bioetico, culturale e tali idee vanno rispettate tutte, dal momento che nessuna scienza è in grado di disporle in ordine gerarchico. Se quello che pensa il generale Vannacci è condiviso in tutti i bar d’Italia, Augias se ne faccia una ragione: vuol dire che la maggioranza dei nostri connazionali si riconosce in una etica tradizionale piuttosto che in quella illuministico-cosmopolita degli opinion makers di ‘Repubblica’. Toglieremo il voto ai retrogradi o li sottoporremo a una rieducazione di massa?




Manifesto della Libera Parola

 Chi ha paura della libertà di espressione?

Manifesto della Libera Parola

 

Felici i tempi in cui puoi provare i sentimenti che vuoi, 
e ti è lecito dire i sentimenti che provi
(Tacito)

Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu
(Massimo Troisi)

 

1 – C’è stato un tempo in cui la censura era di destra e la libertà di espressione era di sinistra.
Era logico, perché la cultura dominante era conservatrice, autoritaria, e un po’ bigotta. I film di Pasolini erano considerati pornografia, e un letterato come Aldo Braibanti poteva essere condannato e imprigionato per plagio, mentre il ragazzo da lui “plagiato” poteva venir rinchiuso in manicomio e sottoposto a elettroshock. Era anche il tempo in cui, per gli omosessuali, uscire allo scoperto richiedeva coraggio, molto coraggio. Un coraggio che ebbero in pochi: Pier Paolo Pasolini, Paolo Poli, Angelo Pezzana, e non molti altri.
In quel tempo, che si prolunga fin verso la metà degli anni ’70, la sinistra ufficiale è ancora guardinga, ma l’intelligentia progressista si schiera risolutamente dalla parte della libertà di espressione in tutti i campi: cinema, arte, teatro, stampa, vita privata. I maggiori scrittori, artisti e intellettuali dell’epoca sono quasi tutti dalla parte di Aldo Braibanti, impegnati contro la censura e contro il reato di plagio.

2 – Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, anche grazie al femminismo e alle lotte sull’aborto e i diritti LGBT, le cose cominciano a cambiare. La cultura dominante non è più né bigotta, né conservatrice. Nel 1978 passa la legge sull’aborto, nel 1981 viene abolito il reato di plagio, nel 1982 viene approvata la prima legge che consente il cambiamento di sesso. La stagione delle lotte sociali cede il passo a quella dei diritti civili, le idee progressiste penetrano sempre più nella coscienza collettiva.
E’ in quegli anni che, anche in Italia, prima in modo appena avvertibile, poi in modi sempre più massicci e pervasivi, prendono piede i principi del politicamente corretto.
Essere progressisti comincia a significare, per molti, farsi legislatori del linguaggio. Parte una furia nominalistica che, con ogni sorta di eufemismo e neologismo, si premura di stabilire come dobbiamo chiamare le cose e le persone, in totale spregio del linguaggio e della sensibilità della gente comune.
Solo Natalia Ginzburg, dalle colonne della Stampa prima e dell’Unità poi, avverte del pericolo, con due bellissimi articoli che denunciano l’ipocrisia, e la sopraffazione verso il comune sentire dei ceti popolari, implicite nella pretesa di imporci come dobbiamo parlare e pensare.
Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo (…).
Così accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini sono spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri. Per docilità, per ubbidienza – la gente è spesso ubbidiente e docile – ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino.  Sembra un problema insignificante ma non lo è. Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile fra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo da tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà.
Ma le preoccupazioni della Ginzburg cadono nel vuoto. Ormai il politicamente corretto ha iniziato la sua colonizzazione di tutti i gangli della società. Scuole, università, giornali, istituzioni, associazioni professionali, agenzie pubblicitarie, case editrici, reti radio e tv, aziende private, e negli ultimi tempi gli stessi giganti del web, fanno propri i principi della nuova religione della parola, imponendo codici linguistici e sorvegliando il loro rispetto.

3 – Parallelamente, si moltiplicano le richieste di essere messi al riparo da ogni espressione di idee, sentimenti, convinzioni che possano risultare lesive di qualsiasi singola sensibilità: è l’era della suscettibilità, come la chiama Guia Soncini.
Cresce a dismisura la schiera dei “suscettibili”, dei potenzialmente offesi, di tutti coloro che si sentono vittime di un odio, o anche solo di una trascuratezza o maleducazione, o persino di un’intenzione.
O nemmeno: si vedono intenzioni anche dove non ce ne sono. E se ne scoprono di vecchie, andando a ritroso nello spazio e nel tempo. Le opere d’arte del passato vengono sottomesse ai raggi X delle odierne sensibilità, e spesso tagliate, edulcorate o ritirate dalla circolazione. E’ il trionfo della cancel culture, che pretende di togliere dalla vista qualsiasi opera o manifestazione del pensiero che, con la sensibilità di oggi, possa apparire offensiva per qualcuno. Ed è la Caporetto della satira e dell’ironia, forme del discorso che per essere intese richiedono troppa intelligenza e distacco.

4 – Accade così che l’opposizione al politicamente corretto, troppo costosa e sconveniente negli spazi pubblici ufficiali e nell’interazione face to face, trovi solo sui social lo spazio in cui manifestarsi liberamente, per giunta con la protezione di un presunto anonimato. Ma sui social l’opposizione diventa puro sfogo, i pensieri si immiseriscono in brevi formule ad effetto, le parole si colorano di odio. Trionfano insulti e volgarità, proliferano haters e leoni da tastiera. Tutto questo incendia ancor più gli animi benpensanti dei nuovi progressisti, e finisce per esasperare il politicamente corretto. In un circolo vizioso inarrestabile.
Eppure dovrebbe essere chiaro: i cattivi sentimenti che dilagano sui social sono anche mutazioni, varianti più aggressive (e più trasmissibili!) del dissenso. Se chi non è in sintonia con i canoni del politicamente corretto viene sistematicamente squalificato, delegittimato e sanzionato nei luoghi “seri”, è possibile che una parte di quel medesimo dissenso cambi non solo luogo, ma anche natura, trasformandosi in odio, disprezzo, rivalsa, aggressività.  Odio e disprezzo peraltro ricambiati dai custodi del Bene, ai quali spesso risulta difficile non vedere gli avversari come mostri, destituiti di ogni umanità.

5 – In ogni ambiente si crea un clima di sospetto e paura. Si teme di dire la parola sbagliata, fraintendibile, ambigua: in ogni caso, al di là delle intenzioni effettive, offensiva. O anche solo non in linea, non conforme: quindi non accettabile. E si avvia, più o meno inconsapevolmente, un processo di censura preventiva delle proprie idee e delle proprie parole.
Non solo l’informazione (giornali e tivù) si muove con questa circospezione, ma anche l’arte, da sempre per definizione espressione di libertà. Le nuove opere (in letteratura, teatro, cinema, arte figurativa) si formano in un clima di autocensura, in cui la prima preoccupazione degli autori è schivare ogni possibile accusa di offensività o scorrettezza politica. Così, accanto alla massa delle opere prodotte effettivamente, cresce quella delle opere che non si sono prodotte, e forse neppure pensate, per timore dei nuovi conformismi.
L’impegno diventa una condizione necessaria: cessa di essere una delle tante possibilità dell’arte, per diventare l’arma impropria che assicura un vantaggio (e uno scudo) a chi lo pratica e lo ostenta. Il confronto e lo scontro pubblico – aperto e leale – fra concezioni e sensibilità opposte, diventa semplicemente impossibile.

6 – In questo clima la libertà di espressione declina non tanto perché le suscettibilità offese possono ricorrere alla magistratura, naturalmente sensibile allo spirito del tempo, per punire ogni manifestazione giudicata lesiva della propria sensibilità, autostima, reputazione, onorabilità; ma perché sono le stesse istituzioni pubbliche e private a provvedere motu proprio a sanzionare i reprobi, senza aspettare la condanna della magistratura, sulla sola base della violazione di codici aziendali o etici più o meno espliciti. Al posto della censura classica e pubblica (ma ancora fatta da persone in carne e ossa), che ritira i libri e vieta ai minorenni i film scabrosi, si installa un nuovo tipo di censura, tecnologica e privata, non di rado fondata su algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, incaricati di scovare ogni contenuto o parola potenzialmente lesiva di qualche principio etico assoluto, o di qualche sensibilità – individuale o di gruppo – giudicata degna di protezione. Con un esito paradossale: i codici etici, indispensabili a qualsiasi soggetto che svolga attività di interesse pubblico, rischiano di trasformarsi in strumenti di censura, o di imposizione delle visioni del mondo dominanti.
Il nuovo clima, vagamente inquisitorio e intimidatorio, non tocca solo scrittori, registi, professori, giornalisti, utenti di internet, ma finisce per inquinare le stesse relazioni faccia a faccia tra le persone, a partire dai giovani e dagli studenti. Lo ha denunciato con forza la femminista libertaria Nadine Strossen:
Gli studenti hanno paura persino di discutere argomenti importanti e delicati come quelli del razzismo, della violenza sessuale e dell’immigrazione, per timore di essere fraintesi, di dire involontariamente qualcosa che possa essere considerato “insensibile” (o peggio), e di diventare oggetto di azioni punitive – che possono andare dal linciaggio sui social alla perdita di opportunità di lavoro. Per troppi giovani negli Stati Uniti sono state ritirate le ammissioni al college a causa di isolati post sui social pubblicati quando erano adolescenti. In breve, temo per la “cancellazione” delle opportunità future, così come dell’attuale libertà di espressione, proprio in nome delle persone oggi più impotenti e vulnerabili.
Anche in ambiti ben più circoscritti e privati, ad esempio a una cena tra amici, succede che si abbia paura di parlare dei temi scottanti del momento (migranti, omofobia, sessismo). Se lo si fa, se si decide di esprimere comunque le proprie idee o anche solo usare le proprie parole in dissonanza con le idee e le parole imposte dal clima circostante, si paga un prezzo, anche molto caro: il gelo immediato degli astanti, il litigio, la rottura definitiva di legami sociali e anche affettivi, l’esclusione futura da ogni cena o incontro, nonché da eventuali rapporti di lavoro, incarichi, carriere e finanziamenti.

7Ed ecco il punto. In un’epoca nella quale l’ideologia fondamentale del mondo progressista è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment, non stupisce che la censura di ogni espressione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra, e la lotta contro la censura una insperata occasione libertaria per la destra.
Ma è un errore in entrambi i casi. Silenziare, oggi, chi viola il politicamente corretto non è più nobile di quanto lo fosse, ieri, silenziare chi offendeva “il comune senso del pudore”. Le idee e gli atteggiamenti che non ci piacciono si combattono con altre idee e modi di essere, non impedendo agli altri di esprimersi.
Una società moderna, aperta e non bigotta, non può lasciare a una sola parte politica l’esclusiva della difesa della libertà di espressione. Perché la libertà non è né di destra né di sinistra, ma è il principio supremo del nostro vivere civile.

I LiberoParolisti si impegnano affinché la libertà di idee, sentimenti e parole sia sempre e ovunque salvaguardata, affermata, e difesa con forza.

 

Pubblicato su La Ragione del 2 giugno 2021

 

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