Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 2. Effetto desiderabilità sociale

La distorsione provocata dal ricercatore nel momento in cui si accosta al suo oggetto di studio viene sovente indicata con la formulazione proposta dallo psicologo americano Labov nel 1972, quella del cosiddetto paradosso dell’osservatore. L’obiettivo dell’osservatore è infatti quello di osservare un fenomeno così come esso si presenta nel momento in cui nessuno lo osserva: un evidente paradosso irrisolvibile. Appare dunque chiaro come il sapere sociale non potrà mai essere esente dalle alterazioni provocate dall’osservazione stessa, dalla presenza cioè del ricercatore, ovvero dell’intervistatore.

Il suo compito sarà dunque quello di sforzarsi di agire quasi in punta di piedi, silenziosamente, in modo tale da modificare il meno possibile l’oggetto della sua ricerca. Perché più il soggetto che si sta studiando è cosciente della presenza di chi lo studia, meno il suo comportamento o la sua dichiarazione di opinione risulterà libera dalle distorsioni provocate dal ricercatore. Se pensiamo ad esempio ad un qualsiasi “reality show” televisivo, comprendiamo molto chiaramente come chi sta davanti alle telecamere non si comporti esattamente come se fosse a casa sua, quando nessuno lo osserva.

Oppure ancora, se intervistiamo un hater della Rete, molto difficilmente otterremo delle risposte sincere sulle sue attività online; egli si adeguerà a fornire risposte che risultino accettabili dall’intervistatore, che è in quel momento una sorta di rappresentante della società nel suo complesso. È questo il classico tema della cosiddetta desiderabilità sociale.

Nelle interviste, per alcune domande particolarmente delicate (i cosiddetti “dati sensibili”, come le preferenze sessuali o lo stato di salute), gli strumenti “caldi” (dove è presente il fattore umano) provocano a volte distorsioni molto rilevanti nelle risposte. Più in generale la presenza di un intervistatore, al telefono e più ancora di persona, ha come effetto l’accentuazione di atteggiamenti condizionati dalla desiderabilità sociale: se viviamo in una società dove, ad esempio, la pena di morte è mal giudicata dalla collettività, sarà più difficile esternare il proprio accordo con questo tipo di condanna davanti ad un’altra persona, un po’ più facile rispondendo ad un questionario anonimo auto-compilato. Ma anche in questo caso, la distorsione rimane, benché a livelli più contenuti.

In una recente ricerca comparata, si sono poste alcune domande rispetto al comportamento abituale di un campione di cittadini, attraverso tre strumenti: un’intervista face-to-face, una telefonica e un questionario auto-compilato via web. Le risposte ottenute indicavano la presenza di un bias decrescente passando dagli strumenti più caldi a quelli più freddi. La quantità di ore quotidiane trascorse davanti alla TV, ad esempio, faceva registrare una media di 1,5 ore nell’intervista personale, di 2 ore in quella telefonica e di 3 ore nella web-survey. Il dato più oggettivo, certificato dall’Auditel, ci dice che la media degli italiani è pari invece a 4 ore al giorno. Evidente l’effetto della desiderabilità sociale: trascorrere molto tempo davanti allo schermo televisivo non è ben giudicato dalla società, e gli intervistati (consciamente o meno) si adattano nelle loro risposte a ciò che la società trasmette loro.

Paolo Natale

Estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 




Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 1. Effetto “bandwagon”.

In senso letterale il termine inglese bandwagon indica il carro che trasporta la banda musicale in una parata. Salire sul carro della banda è dunque gratificante poiché permette di condividere il centro dell’attrazione del pubblico. Salire sul carro (del vincitore) è una delle principali conseguenze del cosiddetto clima di opinione politico-elettorale, che ha avuto un notevole successo negli ultimi anni per analizzare l’orientamento e il comportamento di voto anche nel nostro paese.

L’idea di fondo è che il clima abbia un certo effetto anche sulle opinioni di voto espresse da (alcuni) degli intervistati, soprattutto da quelli indecisi, che tenderebbero nei sondaggi pre-elettorali ad indicare (mentendo) il partito o la coalizione che gode di maggior appeal, oppure a sottacere il loro futuro appoggio al partito “perdente”. Si tratta di una sorta di “spirale del silenzio demoscopico” per cui alcuni elettori, condizionati appunto dal clima di opinione elettorale prevalente, non osano dichiarare apertamente la propria scelta minoritaria nelle interviste, salvo poi farlo nel segreto della cabina elettorale.

Nei sondaggi post-voto accade a volte l’esatto opposto: elettori non completamente convinti della propria scelta elettorale, tendono a dichiarare (mentendo) di aver votato il partito o il candidato vincente, salendo in pratica “sul carro del vincitore”.

Il concetto di clima di opinione elettorale ha subìto una ripresa di interesse nell’ultimo decennio in Italia soprattutto per due motivi.

Il primo è legato alla progressiva perdita di rilevanza delle appartenenze politico-sociali, che caratterizzavano la sostanziale stabilità e polarizzazione dell’elettorato italiano nel secondo dopoguerra. Le motivazioni di voto erano attribuibili per una vasta quota di elettori al cosiddetto “voto di appartenenza”, demarcato per questo da un forte livello di fedeltà, una “fedeltà pesante” frutto del radicamento delle tradizionali sub-culture cattolica e social-comunista.

Durante gli anni del successo di Berlusconi, a questa si è sostituita una sorta di “fedeltà leggera”, cioè da un tipo di vicinanza politica (e fedeltà di voto) legata allo schieramento bipolare (pro o contro Berlusconi). Ma anche questo nuovo tipo di fedeltà è terminata, lasciando il posto, da almeno un decennio, ad una inedita volatilità elettorale, scelte piuttosto superficiali veicolate dalle sensazioni collettive del momento, dai discorsi dei leader politici, alle quali si può presto rinunciare senza per questo sentirsi un traditore (l’elettore liquido ben descritto da Bauman).

Il secondo motivo riguarda la capacità di questo concetto di ben adattarsi alla trasformazione delle antiche campagne elettorali nelle attuali campagne permanenti, in cui l’impatto delle dinamiche di opinione – continuamente sollecitate dal rapporto sondaggi-consenso come fattore decisivo sia per l’esercizio della leadership che per le decisioni di governo – tende ad assumere un peso rilevante sia di medio ma perfino di breve periodo, favorendo la costruzione di “micro-cicli di opinione”, che rappresentano a volte un punto di riferimento essenziale per lo stesso comportamento elettorale della popolazione. Non contano più dunque le appartenenze, o i più stabili atteggiamenti, contano le emozioni del momento, nell’elettore liquido, conta il clima di opinione sempre più fluido e intercambiabile, cui il cittadino provvisoriamente si adatta.

Una volta che un particolare clima d’opinione si è diffuso all’interno del paese, l’elettore interrogato nel corso di un’indagine demoscopica si trova in alcuni casi quasi “in imbarazzo” a dichiarare la propria preferenza per il partito, il candidato o la coalizione che pensa non godano delle simpatie del resto della popolazione elettorale. Si rifugia in questi casi all’interno di quello che ho definito come “spirale del silenzio demoscopico”, preferendo cioè tacere il suo reale appoggio per quella forza politica, salvo poi votarla nel segreto dell’urna. Molti sondaggi sono pervasi da questa dinamica, che non permette di ottenere stime corrette del reale orientamento di voto di una parte significativa degli intervistati

Paolo Natale

Estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

 




Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi*

*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

Maneggiare con cura: questo dovrebbe esserci scritto o sottolineato chiaramente, prima della presentazione dei risultati di qualsiasi indagine demoscopica. Purtroppo, questo avviene solo sporadicamente. Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Oggi, perfino una procedura come il Censimento della popolazione viene effettuata attraverso un sondaggio campionario, producendo un vero e proprio ossimoro: se utilizziamo un campione di cittadini, il risultato non potrà mai definirsi un censimento, e anzi produrrà delle stime affette, come vedremo, dal cosiddetto “errore di campionamento”.

Sono proprio i risultati di indagini demoscopiche quelli che prendiamo come attendibili in molti campi, e che ci raccontano lo stato del nostro paese, come fa il Censis nel suo rapporto annuale sullo stato della società italiana. E pochi sanno ad esempio che i dati che ci vengono forniti dall’Istat, sui quali si basano le scelte anche strategiche del mondo politico e imprenditoriale, sull’andamento economico-occupazionale del paese e sulle forze-lavoro (tasso di occupazione, ecc.) non sono altro che il frutto di un sondaggio trimestrale, effettuato certo interrogando un campione molto vasto, 200mila individui all’interno di circa 120mila famiglie, ma pur sempre un campione.

Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, almeno dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai risultati che emergono da una indagine demoscopica.

Da lunedì prossimo 4 luglio, con cadenza giornaliera, nei giorni feriali (dunque dal lunedì al venerdì) verranno presentate e discusse le dieci più importanti distorsioni di cui sono “vittima” tutti i sondaggi, in particolari quelli politico-elettorali, delle quali dovremmo tenere conto quando ci accingiamo a leggere i suoi risultati, pubblicati sui media.

Paolo Natale