Cultura e stili di vita centrati sul presente, sindrome del nostro tempo

Uno dei più grandi giuristi del nostro tempo Ernst Wolfgang Boeckenfoerde, in uno scritto ripreso in Diritto e secolarizzazione (ed. it. Laterza 2010), si chiedeva «in quale misura i popoli riuniti in uno Stato possono vivere soltanto della garanzia della libertà del singolo, senza un vincolo unificatore preesistente a questa libertà?». I singoli in virtù del processo di secolarizzazione, che in sostanza estrometteva Dio dalla politica, «dovettero cercare una nuova comunanza e omogeneità, se non volevano che lo Stato cadesse in preda alla disgregazione interna, che porta poi con sé un cosiddetto totale controllo esterno». Nel XIX secolo «una nuova forza unificatrice subentrò a quella antica: l’idea di Nazione. L’unità della Nazione prese il posto dell’unità religiosa e fondò una nuova omogeneità, sia pure orientata in senso più esteriore e politico». Sennonché la Nazione – e lo Stato nazionale – ha perso da tempo la sua «efficacia formativa» e non solo in molti Paesi europei.

Le parole di Boeckenfoerde fanno venire in mente uno degli scritti più ispirati di Rosario Romeo, il principe della storiografia italiana della seconda metà del Novecento, Nazione (1979) pubblicato nell’ “Enciclopedia del Novecento” (e ripreso poi nella raccolta Italia, mille anni ( Ed. Le Monnier). Nella nostra epoca, sosteneva l’Autore, «sono così diffuse e presenti nella cultura di tutto il mondo le tentazioni e i rischi di una concezione e di uno stile di vita tutto risolto nel presente e non più in grado di conferire all’esistenza degli uomini quel senso e significato che viene dalle grandi concezioni storiche e religiose». La causa veniva riportata alla crisi dello Stato nazionale che ha coinciso con un drastico abbassamento della vita culturale. «Quale può essere, si chiedeva Romeo, il livello della vita collettiva in un Paese che ha di fatto rinunciato a decidere in modo autonomo dei propri destini, limitando la propria realtà essenzialmente alla buona amministrazione e alla corretta gestione dell’economia, e rinviando invece ad altre potenze, di altro rango e statura internazionale, le decisioni relative dai grandi problemi della sicurezza e della pace nel contesto mondiale?». La grande potenza diventava, così, condizione necessaria (ma non sufficiente) di responsabilità, di elevazione culturale, di etica pubblica, di senso profondo della dignità del cittadino. Non a caso nel corso universitario tenuto su Richelieu, lo storico legava il ruolo internazionale acquisito dalla Francia grazie al cardinale, all’egemonia che la lingua francese esercitò per due secoli sul vecchio continente, alla grande letteratura, al teatro, all’arte, alle scienze che trovarono a Parigi stabile dimora.

A rileggere le pagine di Boeckenfoerde e di Romeo sembra di trovarsi in un altro pianeta. In particolare la critica mossa dal secondo alle teoriche federaliste (che attribuivano allo stato nazionale la responsabilità di tutte le guerre e dei tutti i crimini), le riserve (già di Benedetto Croce) sul Tribunale di Norimberga, la denuncia della divisione della Germania, l’assenza di retorica occidentalista nel racconto della seconda guerra mondiale sono polpette avvelenate per la mensa del “politicamente corretto”. Quest’ultimo non comprende solo il buonismo universalista ma il ripudio stesso della storia, vista illuministicamente, come un catalogo di violenze insensate, di sopraffazioni, di negazione dei diritti più elementari alla libertà, alla dignità, al rispetto. La cancel culture è il lievito spirituale di quella contraffazione del liberalismo classico che è il moderno libertarismo di ispirazione nordamericana. Quest’ultimo riprende e assolutizza tematiche della grande scuola austriaca degli Hayek e dei Mises, fa a pezzi, nella galleria della “società aperta”, le statue di Immanuel Kant, di John Stuart Mill, di Alexander Hamilton di Max Weber, di Benedetto Croce. La sua filosofia politica è molto semplice: dove c’è stato, c’è nazione, dove c’è nazione, c’è fascismo.

Per il filosofo del diritto, Carlo Lottieri, autore dell’agile manuale Liberali e non. Percorsi di storia del pensiero politico ( Ed. La Scuola 2013) John Stuart Mill – l’autore di On Liberty – si colloca al di fuori del liberalismo non avendo compreso come «le potenzialità negative della ricchezza e delle idee» fossero «una minaccia alla libertà solo indirettamente, quando si alleano con la politica», ovvero con lo Stato moderno, che si è abbattuto sul povero genere umano facendo più vittime delle dieci piaghe d’Egitto. Non lo sfiora neppure l’idea del rapporto libertà individuale/statualità: la fine dell’ordine medievale, con la sua «logica policentrica» è per lui l’inizio del grande arretramento del diritto che nasce dal basso, dal rapporto di persone concrete che stipulano accordi circoscritti e l’ascesa del Leviatano che tutto spiana al suo passaggio. Se ne deduce che il passato – con le sue glorie, con i suoi monumenti civili, con le sue culture impensabili senza i grandi conflitti di civiltà – va rimosso come un incubo che ancora grava sulle nostre vite. Che senso ha idealizzare la regina Vittoria, imperatrice delle Indie, erigere monumenti ai grandi zar modernizzatori, a Giuseppe Mazzini, reo di ritenere che senza la dimensione collettiva e nazionale gli Italiani saranno sempre i paria tra le nazioni, ai grandi re che fecero la Francia – soffocando come riteneva Proudhon l’anima delle singole regioni?

Che si possa fondare una “scuola di pensiero” su queste idee, su questa visione del mondo, si può comprendere. Dovremmo però essere consapevoli che esse creano una frattura insanabile nella cultura liberale. Il liberalismo classico (non quello di Lottieri) nasce dalla profonda meditazione sulla storia, da una critica del razionalismo fondata non su un astratto giusnaturalismo – i diritti individuali assoluti che lo Stato moderno mette in forse – ma sullo scetticismo classico, anch’esso, inteso come senso della relatività delle opinioni, che si traduce in bargaining, in compromesso tra i valori politici in conflitto affidato all’arte politica.

Pubblicato su Il Dubbio del 28 novembre 2020




Legge e ordine non è uno slogan trumpiano ma uno dei capisaldi di ogni democrazia

In un articolo impeccabile pubblicato sul Foglio del 1° settembre, Perché se dici che legge e ordine sono il presupposto della democrazia ti prendi del fascista, Paola Peduzzi cita Andrew Sullivan che su Weekly Dish mostra il pericolo rappresentato da Black Lives Matter per la democrazia in America.

Se parlo di «assolutismo nelle strade, delle macerie che vengono spazzate via ogni mattina in molte città americane dove ci sono proteste ininterrotte e violente, se segnalo i video in cui i negozianti raccolgono pezzi delle loro vetrine e implorano di smetterla perché l’assicurazione non paga più nulla, contribuisco anch’io a far vincere Trump?» si chiede Sullivan che, amaramente, richiama il principio (hobbesiano) che senza legge e ordine non può esserci libertà politica.

«Le sommosse e l’assenza della legge sono un male – scrive – Ogni autorità che permette, tollera o sminuisce la violenza, i saccheggi e i disordini nelle strade si spoglia di ogni legittimità. Senza ordine non c’è spazio per altre questioni. Il disordine sempre e ovunque richiama altro disordine; nel momento stesso in cui le autorità sembrano tollerare la violenza, questa violenza è destinata a crescere. E se i liberali non difendono l’ordine, lo faranno i fascisti». Come lo fecero in Italia, ce ne ricordiamo bene, quando la borghesia liberale volse le spalle a Giovanni Giolitti che aveva tollerato l’occupazione delle fabbriche.

Non mancano anche nel nostro paese analisti consapevoli della gravità della situazione americana e che – a differenza di Riccardo Barlaam (Il Sole- 24 Ore) o di Gianni Riotta (La Stampa) non attribuiscono le violenze nelle strade all’inquilino della Casa Bianca che getta benzina sul fuoco.

Penso, ad esempio, a Federico Rampini (La Repubblica) che ricorda come Portland sia «diventata il simbolo di una protesta anti-razzista di Black Lives Matter che è sfuggita di mano, ha creato delle zone proibite di fatto alle forze dell’ordine, dei ghetti dove si sono allargate le gang, moltiplicando i reati».

E tuttavia anche professionisti seri e realisti come Sullivan e Rampini, a mio avviso, non colgono fino in fondo il significato epocale delle sommosse statunitensi. Lo coglie, invece, il sociologo Antonio Bettanini – uno dei protagonisti intellettuali della stagione craxiana – in un articolo inviato all’Avanti. Vale la pena citarne un lungo brano. La diagnosi pessimistica di Bettanini è ineccepibile: «La mia ipotesi è che ci troviamo  di fronte ad una espressione di neo-totalitarismo ideologico – favorito dai meccanismi strutturali che presiedono al racconto dei media –  i cui tratti riconosciamo forse con difficoltà (e con prudenza) anche a giudicare dalla cautela con cui si sono poi  decisi a scendere in campo 150  rappresentanti autorevoli dell’universo intellettuale angloamericano in difesa della libertà di espressione e contro la “cancel culture” degli anti-razzisti. Un campanello d’allarme (su Harper’s Magazine) sulla deriva e sulla tirannia che un certo mondo delle minoranze sembra poter esercitare sull’opinione pubblica. La “novità” sta nel fatto che questa attività (di comunicazione) per quanto esercitata, in principio, in nome di un universalismo di valori (declinato però negativamente: la lotta al razzismo), sembrerebbe appoggiarsi sulla distruzione di tutto quanto, sotto forma di memoria collettiva, celebri il mondo colpevole della bianchitudine. Una leva di propaganda che ricorda il fondamento distintivo (l’arianesimo, l’appartenenza di classe) sul quale i due grandi totalitarismi del ‘900 formarono la loro identità ed il loro principio di esclusione. Qui la lotta al razzismo si accompagna sia ad una prepotente richiesta di risarcimento dei torti subiti (le forme ed i contenuti della disuguaglianza), sia ad un’opera di “igiene della memoria” indifferente alla complessità dei diversi contesti storici.  Si tratta di riscrivere la storia alla luce della sensibilità dell’oggi. Ecco che allora il sindaco democrat di Columbus decide per l’abbattimento della statua di Colombo così che: “Noi non vivremo più all’ombra del nostro brutto passato”».

Lo spettro del totalitarismo si aggira davvero nell’area euro-atlantica. E tuttavia, a mio parere non si può ridurre la partita che si sta giocando in questi ultimi tempi a quella tra minoranze, infettate dal virus totalitario, e maggioranze (ancora) legate alle vecchie istituzioni e ai vecchi valori. Per adoperare un termine impegnativo, non ci troviamo, temo, dinanzi a una crisi di modelli sociali economici e politici “che perdono colpi” ma a un’eclisse della civiltà occidentale che sembra realizzare davvero l’incubo di Oswald Spengler.

In parole povere, abbiamo creato società civili che traevano la loro legittimità dalle catastrofi soprattutto morali causate da “forme di governo” che contrapponendosi violentemente al binomio democrazia/mercato e azzerando l’uno o l’altro – o entrambi – avevano scatenato l’inferno sulla terra, in forma di Lager o di Gulag. Sennonché, ricacciati i demoni nell’Ade, non si è riusciti a radicare forme di convivenza civile soddisfacenti per tutti. È come se al collante sociale fornito dal terrorismo totalitario si fosse sostituito l’indebolimento, fino all’estinzione, di qualsiasi altro legame tra individui, gruppi, territori. Insomma, masse sempre più numerose di cittadini “non si trovano bene”, non si riconoscono nei valori del sistema, nei suoi simboli storici, nel suo “sacro”, per citare un filosofo dimenticato come il neo-hegeliano Eric Weil.

Questo sottoproletariato interno, straniero indipendentemente dall’appartenenza etnica, non rispetta nulla: né la proprietà, né le leggi, né i monumenti a Colombo o a Jefferson personaggi lontani anni luce dal loro vissuto quotidiano. Cosa vogliamo farne?

Reprimerlo brutalmente, come chiedono i conservatori trumpiani?

Assecondare la sua furia iconoclastica, in nome della “tolleranza” e della “comprensione” come vorrebbero i buonisti di tutto il mondo uniti?

Purtroppo non si intravedono vie di uscita.

Pubblicato su Il Dubbio del 5 settembre 2020




La triste fine della Hume Tower. I nuovi bigotti

E’ di pochi giorni fa l’ennesima capitolazione, da parte di un’autorità (se così si può ancora definire) accademica britannica, di fronte alla tirannia del politicamente corretto. Si tratta stavolta delle pretese di diverse centinaia di persone (in prevalenza attivisti studenteschi) le quali, con una petizione online, hanno insistito affinché venisse cambiato il nome di un edificio appartenente all’università di Edimburgo, la David Hume Tower. Il filosofo scozzese, una delle figure di punta dell’illuminismo europeo, viene infatti accusato di avere professato opinioni razziste “che giustamente sono oggi causa di grave turbamento” e di non meritare perciò un edificio che porti il suo nome: ignorando bellamente il fatto che le opinioni contestate erano state espresse nel Settecento, cioè in un secolo in cui erano condivise praticamente da tutti, intellettuali compresi, e che è assurdo giudicare idee di tre secoli fa con il metro attuale.

Ormai però questo tipo di reazione del corpo accademico, il suo cedimento all’illogicità, all’incapacità di storicizzare personaggi e comportamenti, allo strisciante terrorismo intellettuale, sembra essere prassi consolidata e quasi obbligata nel mondo anglofono (e, vista l’attuale supremazia culturale di questo mondo, in altri paesi occidentali sono percepibili le prime avvisaglie di questa mentalità). Sempre più le università inviano segnali che vanno contro quella che dovrebbe essere la loro vocazione: trasmettere conoscenze, spirito critico, voglia di dibattere senza preconcetti e senza scomuniche. Sempre più, ad essere considerata prioritaria è l’esigenza di non turbare la cosiddetta sensibilità (per meglio dire: fragilità psicologica e intellettuale) degli studenti. Anziché aiutarli a maturare, l’università sembra fare di tutto per infantilizzarli. Anziché aiutarli ad apprendere, sembra fare di tutto per incoraggiare l’ignoranza e l’approccio isterico e irrazionale ai problemi.

Il fenomeno della cosiddetta “cancel culture” naturalmente non si limita all’ambito accademico, ma mette ormai a repentaglio la libertà di espressione nell’editoria (libri “politicamente scorretti” rifiutati dagli editori, opere del passato messe al bando da scuole e biblioteche perché considerate razziste: valga per tutti, negli Stati Uniti, il caso del capolavoro di Mark Twain, Huckleberry Finn), nei rapporti di lavoro (non si contano più i casi di licenziamenti minacciati o messi in atto perché il dipendente aveva usato un linguaggio o espresso opinioni bollate come disdicevoli, anche in ambito privato), e anche e soprattutto sui cosiddetti “social”, che sarebbe forse meglio definire “antisocial media”. Sconfortante in tale contesto è poi constatare come la resistenza si riduca a poca cosa e come i presunti colpevoli scelgano quasi sempre di umiliarsi pubblicamente con formule di scusa che ricordano le autocritiche dei “nemici del popolo” durante la rivoluzione culturale cinese; non solo, ma nel caso delle università è quasi scontato che il corpo accademico obbedisca senza fiatare ai diktat più assurdi: come nel caso, appunto, della David Hume Tower.

Un recente, e purtroppo raro, esempio di ribellione ai nuovi inquisitori si è visto nello scorso mese di luglio, quando sulla rivista americana Harper’s Magazine è stata pubblicata una lettera, firmata da 150 autori ed accademici di fama (come JK Rowling, Noam Chomsky, Margaret Atwood, Salman Rushdie, Gloria Steinem) in cui si deplorava la crescente intolleranza nei confronti delle opinioni considerate politicamente scorrette. L’appello però sembra avere raccolto successivamente ben poche nuove adesioni, anzi, a far parlare è stato soprattutto il successivo “backlash”, con critiche spesso feroci rivolte da più parti agli autori.

In tutti questi casi, a colpire sono, da un lato, la pusillanimità delle autorità accademiche, che sembrano disposte veramente a tutto pur di non venire turbate nelle loro importanti attività quotidiane (nonché nelle loro prospettive di carriera …), e dall’altro il comportamento, altrettanto vile ed opportunistico, di editori e altri soggetti economici che mostrano di temere come il fuoco il boicottaggio dei loro prodotti da parte degli attivisti digitali. Qui bisogna essere chiari: se le persone cui stanno a cuore il pluralismo di idee e la cultura non si mobilitano con la stessa energia e prontezza di cui si sono dimostrati capaci i loro nemici, finiremo per vivere in un deserto intellettuale in cui le opinioni (o anche soltanto le parole) non conformi potranno soltanto essere bisbigliate fra amici e ogni ambito del sapere dovrà fare i conti con la censura di libri, personaggi, interpretazioni. La vicenda della David Hume Tower ha ora indotto diversi esponenti del mondo accademico britannico ad esprimere in merito posizioni molto critiche; se questo tipo di reazione dovesse estendersi, se i responsabili delle università venissero sistematicamente messi di fronte alla stupidità delle loro azioni, forse comincerebbero a farsi qualche domanda e a chiedersi se vale la pena di perdere la propria credibilità per dare retta ad una manica di bambini viziati di cui tutto induce a pensare che rappresentino solo se stessi.

Stesso discorso per i prodotti editoriali e d’altro genere, di cui gli attivisti minacciano regolarmente il boicottaggio. Anche in questo caso sorge il sospetto che le imprese si lascino prendere dal panico e sopravvalutino di molto il rischio di una perdita economica: rispetto al grande pubblico, che di fronte a certe controversie non ha mai mostrato di voler rinunciare in massa all’acquisto di certi prodotti, gli attivisti digitali fanno la figura di tigri di carta, e sarebbe interessante mettere alla prova l’efficacia delle loro minacce. Per dirne una: il libro di Woody Allen A proposito di niente, che la casa editrice Hachette aveva rinunciato a pubblicare, non sembra aver sofferto oltre misura delle reazioni negative provenienti dall’establishment politicamente corretto (in Italia si è addirittura piazzato subito in cima alla classifica delle vendite online). Proviamo dunque a mostrare ai nuovi bigotti che la censura nelle varie sue forme può essere non solo inutile, ma spesso anche controproducente. Perfino la Chiesa cattolica l’aveva già capito quando, nel lontano 1966, abolì l’Indice dei libri proibiti …. dove dal 1761 figuravano tutti gli scritti di David Hume!