Cacciari filosofo superiore?

6 Maggio 2024 - di Alfonso Berardinelli

In primo pianoPoliticaSocietà

Vogliono mettersi fuori di sé stessi e allontanarsi dall’umano. La loro è una follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie, invece di innalzarsi si abbassano (…) Abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. Anche sul più alto trono del mondo, non siamo seduti che sul nostro culo

Montaigne

Con quell’empirica saggezza inglese detta anche common sense, il poeta Wystan H. Auden ha detto una volta che quando ci si dedica alla critica si dovrebbe, per onestà e chiarezza, dichiarare le proprie personali preferenze a proposito del mondo nel quale si vorrebbe vivere. Il critico dovrebbe dirci quale tipo di paesaggio, di clima, di governo, di architettura, di mezzi di trasporto e di comunicazione vorrebbe nel suo mondo ideale. Auden umoristicamente eccede per quantità di dettagli richiesti. Eppure la sua britannica stravaganza ha qualche utilità.

Avendo deciso di dedicarmi a giudicare Metafisica concreta di Massimo Cacciari, pubblicato nella Biblioteca Filosofica Adelphi (che contiene quaranta volumi di cui ben ventiquattro solo di Heidegger e Severino) sento il concreto bisogno di adottare almeno in parte il metodo di Auden. L’eventuale lettore di questo articolo potrà perciò farsi un’idea della distanza che c’è fra le singolari predilezioni filosofiche di Cacciari, professore e cultore della materia, e le mie preferenze filosofiche di dilettante. Mentre il professor Cacciari, ex sindaco di Venezia e ex deputato del Partito Comunista Italiano, ha una passione per la metafisica più astratta e per una politica personale piuttosto concreta, i miei saltuari e non professionali interessi vanno invece alla filosofia della conoscenza o gnoseologia, e alla filosofia morale, o teoria delle virtù e studio dei comportamenti. In fondo, più che la filosofia pura, mi attira la storia delle idee, meglio se un po’ mescolata con la storia sociale. La metafisica, intesa come “filosofia prima”, la considero viceversa una filosofia seconda o secondaria, che rischia sempre di trasformarsi in una illusoria immaginazione o in una truffa verbale, dato che si sottrae all’uso di concetti empirici. Della metafisica, in particolare quella eventualmente praticata oggi a imitazione degli antichi, credo che si debba diffidare fortemente a causa dei problemi gnoseologici e morali che crea, o dovrebbe presupporre. Che genere di conoscenza è quella proposta dal discorso metafisico? Su quale esperienza si fonda? Esiste, è possibile una conoscenza metafisica in forma filosofica? O invece la sola via di accesso alla metafisica è una via puramente contemplativa, più precisamente una gnosi supermentale e sovrasensibile?

Quanto alla filosofia politica, non ha o non dovrebbe avere nessuna autonomia, ma essere considerata solo un ramo e uno sviluppo della filosofia morale. Una vita politica giusta è concepibile solo come risultato di comportamenti individuali moralmente giusti. Le cosiddette virtù politiche, una volta separate dalle virtù morali, producono soltanto astuzie e sopraffazioni, passione per il comando e inganni. Personalmente diffido del tipo umano del politico. Non pochi geniali politici sono stati dei dittatori, dopo essere stati leader carismatici.

Volendo essere precisi, una metafisica può e dovrebbe essere considerata reale, più che concreta. Un principio metafisico può avere, in quanto causa, degli effetti concreti, ma non è concreto, trascende le dimensioni spazio-temporali e sensibili: può essere razionalmente, ma non empiricamente concepibile. Cacciari e la Biblioteca Filosofica Adelphi hanno scelto di ignorare la tradizione della filosofia inglese e americana, cioè l’illuminismo empirista di Locke e Hume, l’utilitarismo di Mill e il pragmatismo di James e Dewey. Come si fa a essere “concreti” se si cancellano i pensatori morali da Montaigne in poi e i filosofi che hanno studiato forme e limiti sia dell’intelletto umano che della natura umana? L’ontologia del “Dasein” di Heidegger è una filosofia di fantasmi inventata per eludere l’esistenza come esperienza conoscitiva e attiva.

Interessante, per chi fosse interessato alla carriera del Cacciari filosofo, è il suo punto di partenza, il cosiddetto “pensiero negativo” degli antihegeliani Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, nonché il suo punto di arrivo teologico-metafisico. La passione di Cacciari per il lessico greco e tedesco infesta e polverizza il suo linguaggio rendendolo lessicalmente asfittico. Da grandi saggisti come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche e dal loro antihegelismo non ha imparato niente. In ognuno di loro sono chiare le ragioni personali del filosofare. Ma del perché Cacciari ci parli di metafisica non si viene a sapere niente. La sua non è una prosa filosofica vera e propria. Mentre i tre suddetti pensatori negativi erano anzitutto filosofi morali e per loro Hegel e Schelling erano ipocriti sofisti e impostori, Cacciari ha per la filosofia morale una specie di fobia, teme il moralista proprio perché potrebbe smascherare il suo filosofismo. Evidente è in lui la miseria linguistica della filosofia, usata come una solenne maschera geroglifica che nasconde il puro esibizionismo, l’inconsistenza argomentativa e l’ingorgo citazionistico. La sua prosa è senza forma né misura né ritmo né tono.

Una citazione a caso anche se esemplare (il libro infatti procede a caso): “Il Logos che parla in verità e che perciò ci è dato comprendere e comunicare senza tradirlo, questo è il Logos dell’Età presente, di questa Ora che non sa concepirsi come destinata a passare, Aiòn, Età che sempre più dichiara insuperabili e fino alla fine del tempo stesso, forme e significati della propria vita. Questo è Logos giudicante poiché esso discrimina chi sa da chi ignora, poiché a Lui, fin dall’origine, che lo si intenda trascendente, en archei, o immanente e agente in ogni momento del cosmo, tutto il Divino è stato comunicato. Senza il suo manifestarsi, il Divino continuerebbe a restarci ignoto, mentre ora possiamo goderne in verità. Gaudio, letizia che possono venire soltanto dal saperci nella sequela del Logos, dal sentircene membri, espressione necessaria della sua stessa sostanza, ‘guariti’ dal dubbio, forti di un credere inconfutabile, un credere che diviene irresistibilmente fede riposta nella potenza dello stesso sapere (…) È intorno a questo problema, più che a qualsiasi altro, che occorre intendere il dramma del nesso tra Atene e l’Europa o Cristianità” (pp. 12-13).

Qual è il problema? Il problema non è uno, sono almeno due: 1) il modo di scrivere di Cacciari, fatto per ostacolare se non impedire la lettura, e 2) la scelta della metafisica come tema inesauribile perché inaccessibile. Proprio quello che Cacciari cerca per non darsi una regola espositiva e una misura.

Poco rispettoso della filosofia accademica e del suo rimuginare su una tradizione plurisecolare, una volta Max Horkheimer disse che la metafisica è come il chewing-gum, che si può masticare all’infinito senza ricavarne né sapore né nutrimento. Nel caso di Cacciari c’è poi il fatto che il parlare di metafisica permette di non costruire una sintassi di concetti e di argomentazioni. La prosa dell’intero libro non è neppure una prosa, tantomeno una prosa filosofica. Oltre a essere una modalità del pensiero e della conoscenza (non l’unica), la filosofia è anche un genere letterario. In Italia se ne accorse e se ne fece un dovere Giacomo Leopardi all’inizio dell’Ottocento, curando la sua Crestomazia della prosa italiana e scrivendo le Operette morali. Antimetafisico e antiplatonico come era, nella sua affinità con David Hume, il più radicale degli empiristi, Leopardi vedeva e praticava la filosofia in forma di filosofia morale, di riflessione sulla forma del vivere individuale e sociale. Secondo lui la cultura italiana aveva bisogno di una buona e nuova prosa filosofica, senza la quale è impossibile una buona filosofia. Per Schopenhauer era metafisica niente di meno che la volontà di vivere, il rapporto con il proprio corpo e la sua energia cieca. Per Kierkegaard erano filosofici anche il suo amore per Regina Olsen e il suo disprezzo per il vescovo Mynster. Nel suo frullato di autori, di problemi, argomenti e terminologie, Cacciari tira avanti il libro per più di quattrocento pagine senza fare un passo né avanti (si può fare a meno della metafisica?) né indietro (dobbiamo tornare alla mistica?). Il suo solito metodo è evitare di fare citazioni abbastanza ampie da commentare e su cui riflettere: le sue sono soprattutto criptocitazioni da tutto e da chiunque. Riscrive e si appropria, non permettendo a chi legge di distinguere tra quello che Cacciari pensa e quello che cita o ruba, spezzetta e riusa. La sua è una specie di dislessia citazionistica che continuamente echeggia gran parte dell’intera tradizione filosofica: escludendo naturalmente gli ultimi secoli di pensiero antimetafisico, dall’umanesimo scettico all’illuminismo empiristico e materialistico, alle vere filosofie dell’esistenza e dell’esperienza, di cui Heidegger si è appropriato svuotandole di contenuto reale con i mantra del suo gergo ontologico. Metafisica concreta è un tentativo non riuscito di prendersi e tenersi tutto, l’astratto e il concreto, l’intuizione ontologica e una impropria teologia razionale, o meglio sonoramente raziocinante. Secondo il metodo di Socrate, si dovrebbe exetazein ton logon, cioè esaminare il discorso, il linguaggio di chi parla, come Cacciari, di un oggetto paradossale e insieme inconsistente come una metafisica che sia fuori di spazio e tempo, come ogni metafisica, ma nello stesso tempo sia dotata di contingenza e di attributi accessibili all’esperienza. Ma questo può accadere solo nella mistica, in cui un’esperienza concreta supermentale della metafisica la fa non essere più metafisica.

Cacciari punta tutto su una inguaribile dissipazione parafilosofica. Quando parla di politica, per quel tanto che conta, Cacciari si fa capire abbastanza. Quando entra invece nell’habitat filosofico perde la testa, si inebria, non connette più, o connette tutto con tutto, cita ed esalta perfino, non so perché, i Cantos di Ezra Pound, il più clamoroso e penoso fallimento poetico del secolo scorso. Più che un mistico in estasi sembra un professore intossicato di lessico filosofico. Mastica e rimastica ciò che cerca di dire e non dice. Ma l’indicibile è impossibile dirlo, si può solo sperimentarlo e non comunicarlo attraverso le parole.

Il problema è qui uno solo: perché il professor Cacciari sceglie la metafisica per fare filosofia? Perché si presenta come chi va oltre i confini della filosofia? Vorrebbe essere o apparire una mente così superiore da non poter abitare se non in un linguaggio che sfugga alla comprensione? La passione predominante di Cacciari è per la “filosofia prima”, teologia nonché escatologia o dottrina delle cose ultime. Si tratta insomma di quel forsennato e ridicolo snobismo culturalistico che aspira solo a frequentare i piani più alti e inaccessibili della realtà e del pensiero, lì dove abita solo Dio. Purtroppo però Cacciari non parla mai della sua fede in Dio e neppure del nesso che c’è fra metafisica e gnosi mistica. Quello della metafisica è un sapere assolutamente speciale che si fonda non sulla logica e sul discorso ma su un’esperienza supermentale. Si tratta di un sapere supremo raggiungibile solo da individui sommamente dotati di virtù contemplativa. Una filosofia dell’essere puro in quanto essere non è più una filosofia logica, ma il culmine di una filosofia morale, moralmente ascetica. Per “toccare” mentalmente l’essere, che non è un concetto ma una super-realtà, c’è almeno bisogno di essere onesti. Invece Cacciari manca proprio di onestà filosofica. In Occidente la metafisica è stata messa in discussione e onestamente respinta dai filosofi dell’Illuminismo, soprattutto da quello empiristico inglese, e infine da Kant. Se il termine “metafisica” viene da Aristotele, la sua origine concreta non è filosofica, è (come ha spiegato Giorgio Colli) dei “sapienti” presocratici, in particolare Parmenide, al quale il professor Emanuele Severino, rivale e simile di Cacciari, ripeteva che fosse necessario tornare, allo scopo di salvare l’Occidente dalla sua “follia”, la fede nel divenire. Solo che il divenire non è una fede, come diceva Severino, è un’esperienza.

Come si può intuire dagli stessi titoli dei suoi tre libri più ambiziosi, Dell’inizio (1990), Della cosa ultima (2004) e questo conclusivo Metafisica concreta, le ambizioni di Cacciari sono sia smisurate che vane. Il suo stile dell’eccesso copre un vuoto, una “vanità” filosofica, dato che presuppone un sapere dell’alfa e dell’omega, una conoscenza assoluta di un oggetto assoluto: l’impensabile essere in quanto essere. Dell’inizio e della cosa ultima, di una metafisica che sia anche concreta, non sapremo filosoficamente mai nulla, e la pretesa di farne una filosofia dell’impossibile peggiora ulteriormente la situazione di Cacciari. Il quale ha da giocare una sola carta: il mito di sé stesso come filosofo superiore e in quanto tale non socializzabile. Ecco, questo dell’essere o sentirsi o mostrarsi superiore è la caratteristica che lo accomunò a Roberto Calasso e gli aprì le porte della Adelphi, trasformando il seguace dell’operaista gentiliano Mario Tronti in una specie di allievo di Elémire Zolla. Cosa che mi fa pensare non tanto a grandi metafisici o a mistici dell’antichità e del Rinascimento, ma piuttosto a un intellettuale del Novecento che Cacciari ha molto caro, cioè Carl Schmitt, giurista nazista, o per essere più concreti presidente dell’associazione dei giuristi del Terzo Reich. Dopo la caduta del regime hitleriano, Schmitt fu arrestato, processato e assolto, ma comunque costretto a ritirarsi a vita privata. Il fatto che avesse teorizzato come fondamento della Costituzione il Fuhrer lo rendeva infatti sospetto anche come eventuale docente di diritto e dottrina dello Stato. Quando Schmitt, al processo di Norimberga, fu interrogato come testimone dalla Pubblica Accusa, si espresse così:

“Sentendomi superiore, intendevo dare un senso mio personale al termine nazionalsocialismo”.

Pubblica Accusa: “Hitler aveva un nazionalsocialismo e lei ne aveva un altro?”.

Schmitt: “Mi sentivo superiore”.

Pubblica Accusa: “Si sentiva superiore ad Adolf Hitler?”.

Schmitt: “Infinitamente, dal punto di vista intellettuale. Il personaggio è così privo di interesse che preferisco non parlarne”.

Dire che Hitler è il fondamento dello Stato e dire nello stesso tempo che di Hitler è preferibile non parlare, ritrae alla perfezione l’ipocrita “uomo superiore” Carl Schmitt. Lo fa anche assomigliare molto a un altro idolo filosofico di Cacciari e della Adelphi: Martin Heidegger. Il quale, sentendosi anche lui superiore, si rifiutò sempre di nominare il nazismo e Hitler, pur avendolo fin dall’inizio esaltato come fondamentale evento storico nel destino della Germania. Schmitt e Heidegger sono le ombre sinistre che sembrano avere insegnato la superiorità a Cacciari; una superiorità astratta, vuota, metafisica e pure concreta. Altro che maestri del “pensiero negativo” come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, filosofi passionalmente autobiografici e in quanto tali ben presenti nelle loro opere. Nei libri di Cacciari l’autore pensante, l’io Massimo, non c’è, è assente e mai concreto. Troppo oltre per essere presente. Invece di essere onestamente presente nelle pagine della propria filosofia preferisce recitare da impaziente uomo superiore nei talk show.