Il muro tra Buoni e Cattivi
Mi piacerebbe intervenire nel dibattito, scottante, sui migranti. Dire come la penso, tra amici, conoscenti, vicini di casa, magari a una cena, o nell’atrio di un cinema, o durante una passeggiata al mare, in montagna.
Ma non lo faccio quasi mai. Mi sembra di avere un muro davanti, dove non riesco a trovarmi un varco. Un muro di frasi fatte, parole d’ordine, formule precostituite. Mi sembra che le persone ormai girino con questo muro attorno, senza accorgersene. Almeno, le persone che mi capita d’incontrare, di frequentare maggiormente. Dovrei dire le persone che fanno parte del mio mondo, ma che non saprei bene come definire. I ceti abbienti? Gli istruiti? I benestanti, i professionisti? Sì, un misto di tutto ciò, e altro, anche gente non così istruita e non così benestante, più media. E anche le punte estreme, intellettuali, scrittori e studiosi e giornalisti, noti e meno noti. Non so. Dovrei dire “ceti medi riflessivi”, per usare l’espressione di Ginsborg, che mi sembra la migliore ma comunque non mi soddisfa.
Di queste persone mi disturba il partito preso, l’appartenenza aprioristica, il disprezzo per l’altro, il parlare per formule, le parole d’ordine con cui riconoscersi a vicenda: se le usi, bene, appartieni allo stesso reggimento e vieni incluso, apprezzato, vezzeggiato. Se non le usi, sei fuori: appartieni ipso facto all’esercito nemico.
E quali sarebbero, poi, questi due eserciti? Credo che non esistano. Credo che esista una sola parte, che si è creata l’altra. Un po’ come, in Fichte, l’Io oppone a sé il Non-io. Voglio dire che emerge una sola rappresentazione delle cose, ed è la rappresentazione che la minoranza che si sente eletta ha dato, una volta per tutte e fin dall’inizio. In questa rappresentazione unica e univoca ci sono due schiere contrapposte. Ma in realtà ce n’è una sola, che ha costruito l’altra. Così, da una parte, per dirla in breve, ci sono i buoni dell’accoglienza-tolleranza-solidarietà; e dall’altra i cattivi della morte, desolazione, disuguaglianza, egoismo, sopruso, disprezzo della vita umana. E le due parti sono drasticamente definite: nella prima schiera intellettuali, scrittori, giornalisti, professionisti d’ogni genere paladini del Bene: i pochi, “illuminati”; e nella seconda il popolo bruto e rozzo dei sentimenti ignobili: i molti, dunque per contrapposizione, “bui”.
“Uomini e no”, così una recente copertina dell’”Espresso”.
Dovrei appartenere, in quanto scrittrice, alla prima schiera. Per mestiere e per cultura, dovrei stare con gli Illuminati. Ma vorrebbe dire riconoscermi in un pensiero pre-stabilito, consegnarmi agli automatismi ideologici, usare la retorica dei buoni sentimenti. Non ce la faccio. Mi vergogno delle parole dolciastre e ipocrite, e anche del compiacimento sottile di esibire le virtù, civiche, umanitarie, solidali. L’autocompiacimento azzera ogni eventuale virtù. E mi sembra troppo facile e tranchant spostare il discorso dal campo della politica alla morale, è qualcosa che taglia ogni possibile confronto, e ogni analisi. Azzera le parole. E noi ora abbiamo bisogno non solo di immagini crude e dolenti che “scuotono le coscienze” (come ci offre tanto giornalismo del cuore), ma anche, e soprattutto, di parole il più possibile chiare e oggettive, che illustrino e spieghino con esattezza le cose come stanno, e che si spingano a prospettare qualche possibile soluzione.
Penso ci siano molte persone normali, e anche diversi intellettuali non arruolati, che vorrebbero parlare ma non lo fanno, intimiditi dal muro di voci sicure e giudicanti. Persone perbene, che non hanno voglia di esporsi alla pubblica gogna, di vedere le loro idee, appena nate e magari incerte e titubanti, stritolate dai Maestri del Bene. E scelgono di tacere. Parlare vorrebbe dire essere subito etichettati tra coloro che pensano cose che è bene non pensare; o che non pensano esattamente le cose che è bene pensare. Anche se il loro pensiero fosse estremamente dubbioso e pieno di interrogativi, per il solo fatto di non mostrare le certezze granitiche dei Buoni, verrebbero collocati tra i Cattivi.
C’è una specie di costrizione al silenzio, all’astensione, alla reticenza. O meglio, non tanto una costrizione quanto una pressione, una… induzione: si è indotti, dal clima intorno, a stare zitti. Non è vigliaccheria, o timidezza. È piuttosto una rassegnazione malinconica, venata di senso dell’inutilità. Il fatto grave è che questo silenzio aiuta l’egemonia degli altri, l’affermarsi del loro unico pensiero, e il dilagare della loro retorica sdolcinata.
È su questo silenzio coatto che bisognerebbe interrogarsi. Se tutti coloro che non sono Cattivi, non vogliono la morte dei migranti in mare, né le ruspe e i rastrellamenti, ma nello stesso tempo non si riconoscono nel semplicismo delle soluzioni dei Buoni né nella loro arroganza morale, nell’esibire le virtuose formule della loro superiorità; se costoro rompessero il silenzio e si convincessero a parlare, forse i muri che ci troviamo davanti cadrebbero.
E i cosiddetti intellettuali (studiosi, professori, scrittori, artisti, attori, registi e affini…)?
Noi scrittori, per esempio. Annaspiamo, mi sembra. Ripetiamo stanche formule, mantra ideologici sopravvissuti. Interveniamo ogni tanto, sui giornali, alla radio, in tivù, sui social. Lanciamo slogan, promuoviamo manifestazioni, oppure compiamo (o annunciamo che compiremo) gesti simbolici eclatanti (e subito mediatici). E firmiamo appelli. Perché continuiamo imperterriti a firmare appelli (sempre più scarni e ignorati, peraltro)? Perché questi esibizionismi verbali, vistosi e inutili (e a costo zero!), che inducono al sospetto di una mera autopromozione?
E poi, perché gli scrittori dovrebbero avere voce in capitolo, oggi? Perché più di altri, quali sarebbero i loro meriti? Perché gli scrittori e non i medici, gli psicanalisti, gli architetti? E perché non i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai, gli imbianchini? O si dà per scontato che questi ultimi, non avendo studiato, parteggerebbero di sicuro per i Cattivi, rozzi, brutali, amorali e incivili?
Mi chiedo quale dovrebbe essere oggi il ruolo dell’intellettuale, ammesso che debba averne uno. Domanda molto novecentesca, e abusata. Non so proporre un ruolo chiaro, ma credo che non debba ridursi a questo schierarsi così retorico e prevedibile, a questa stucchevole aria di voler sempre salvare il mondo da catastrofi imminenti e apocalittiche. Catastrofi a volte addirittura auspicate, invocate, perché risulti meglio la cattiveria dei Cattivi e la bontà degli eroici custodi del Bene…
Il primo compito, mi viene da dire, sarebbe quello di rinchiudersi da qualche parte e riflettere, informarsi e studiare. E, per un certo tempo almeno, tacere. Stare a vedere. Pensare. Considerare gli aspetti più nascosti, meno ovvi, più controversi. E poi, semmai, porre interrogativi, provare a scardinare schemi, a vedere la scena da più di un angolo visuale. Aiutando a individuare un possibile itinerario… Essere scomodi, certo, sempre. Ma con tutti! Con il nemico, ma anche con chi la pensa come noi. Meglio ancora, stabilire dopo chi è con noi e contro di noi, non a priori, e non con questo sprezzante senso di superiorità.
Amos Oz, in una recente intervista al Tg1: “I nemici non si amano. Ma si deve dialogare, con i nemici”. Dialogare, non urlare formule contro il nemico. Sembra che abbiamo bisogno di un nemico, per esistere. Preferiamo esibire un nemico, più che un pensiero.
Siamo tutti frastornati e confusi, inutile proclamarsi per principio i migliori, unici detentori della Verità. Più utile parlarsi davvero, gli uni con gli altri, consapevoli che forse le scelte che saremo chiamati a compiere, in questa fase storica che forse si chiamerà Estinzione della civiltà europea, sono difficili, persino tragiche, e non si lasciano ridurre alla comoda opzione fra arruolarsi nell’esercito del Bene o in quello del Male.
Se proprio devo scegliere, io sto con i contadini, i panettieri, gli idraulici, gli operai e gli imbianchini.
Mi stanno a cuore anche le ragioni di questi cosiddetti “cattivi”, che tanto dispiacciono a noi intellettuali. Mi capita di parlare con qualcuno di loro, a volte, anche solo superficialmente, ma quel tanto che basta per accorgermi che la loro “cattiveria”, poi, non è altro che una massiccia dose di buonsenso e disperazione. Non credo che, se manifestano paure, siano paure vigliacche, colpevoli. Mi chiedo piuttosto se non siano anche loro vittime, insieme ai poveretti degli sbarchi. Vittime almeno quanto i migranti che “accogliamo” nei containers per poi farli diventare schiavi e servi, braccianti della raccolta dei nostri pomodori e badanti dei nostri anziani. Parlo dei ceti più deboli, degli italiani che faticano a sopravvivere e abitano in quartieri periferici o degradati, dove subiscono spesso furti e aggressioni. Hanno paura ogni sera di tornare a casa, si sentono stranieri nelle loro città, nei loro quartieri, nella propria casa, nelle classi dei loro figli, accerchiati da altre lingue, altri costumi, altre religioni. Mai protetti, e per giunta additati come razzisti, ignobili, ingenerosi. Sono vittime anche loro. Ma vittime nostrane, italiane, “bianche”: troppo simili a noi, troppo poco esotiche?
La fragilità appartiene a tutti. “Di che reggimento siete/ fratelli?/ Parola tremante /nella notte/ Foglia appena nata/ Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/dell’uomo presente alla sua fragilità/ Fratelli”.
Chi firma appelli saturi di retorica, chi fa girare video edificanti sui social, chi lancia i suoi anatemi sui novelli nazisti, spesso non ha idea di come viva la maggioranza della gente. Abita nelle sue “isole” lontane e lussuose, e predica un’accoglienza che di fatto non sa cosa sia. Accoglienza è una parola meravigliosa. Ma non dovrebbe rimanere solo una parola, tanto meno una metafora. Sono stupita di quanto poco sia intesa in senso letterale, concreto, presso i ceti medi riflessivi. Mi sembra il solito “Armiamoci e partite”. Indigniamoci e accogliete.
Bisognerebbe dare il buon esempio. Fare un gesto vero, letterale, di accoglienza. Ne vedo ben pochi, di questi gesti, nel mondo della classe agiata: com’è possibile? Allora meglio dismettere l’enfasi e la retorica, astenersi dal predicare, e dal giudizio sprezzante.
Sto leggendo Buzzati, Il reggimento parte all’alba, ora ripubblicato nelle bellissime edizioni Henry Beyle. Non l’avevo mai letto. È un inno alla nostra ineluttabile mortalità, al fatto che tutti nasciamo per morire, che a tutti compete questa partenza, un giorno.
“Tutti senza eccezione nella città e anche fuori nelle campagne, valli, rive del mare, per quanto è esteso il mondo, tutti in certo modo appartengono a un reggimento e i reggimenti sono innumerevoli, nessuno sa quanti sono, e nessuno sa neanche quale sia il suo reggimento (…). Però, quando un reggimento parte, chi gli appartiene, pure lui deve partire.
Altri dicono invece che si tratta di navi. Ciascuno è iscritto come passeggero di una nave senza sapere dove sia né il nome. E sono navi strane capaci di salpare dal centro di un arido deserto o dalla precipitosa gola di una montagna. Ma reggimento o bastimento è lo stesso, il fatto è che un bel giorno ciascuno di noi deve partire”.
Ecco, anche Buzzati parla di navi. Bastimenti. Andar per mare. E morire. Ma così come ne parla lui, nessuno è buono o cattivo. Scompaiono gli eserciti, le fazioni, i Giusti e gli Sbagliati, gli Illuminati e i Bui. Di colpo, siamo su un altro piano, pacificato. Nulla di più… egualitario.
Per fortuna ci sono i libri. Soprattutto i libri che non abbiamo letto, che ci sono sfuggiti, nella vita, e che quindi troviamo a un certo punto, inaspettati, sorprendenti. Dovremmo dedicarci a scovarli, e leggerne il più possibile, prima che la nave arrivi, invece di blaterare le formule del Pensiero Dominante. Leggere è da sempre il modo migliore di non lasciarci dominare.