Honey Money

Come sociologo, da anni sono diventato un ammiratore di Catherine Hakim. Nata a Beirut nel 1948, è vissuta in Medio Oriente fino all’età di 16 anni, per poi intraprendere una brillante carriera soprattutto nel Regno Unito. Il suo merito maggiore, per come la vedo io, è di avere studiato a fondo i meccanismi del successo femminile, trattando il tema con spregiudicatezza e lucidità.

Il contributo che l’ha resa famosa è il saggio Erotic capital, pubblicato nel 2010 sulla prestigiosa “European Sociological Review”. Altrettanto importanti sono altri suoi lavori, come il libro Honey Money (parafrasi del titolo di una famosa canzone di Elvis
Presley) che si occupa dei modi di coltivare il capitale erotico, o i suoi lavori sulle scelte di vita delle donne e sul sex deficit degli uomini.

Perché sono importanti i lavori della Hakim?

Beh, in primo luogo perché parlano di argomenti che la sociologia ufficiale teme come la peste. Ad esempio le diseguaglianze che è difficile combattere, perché – come nel caso del “capitale erotico” – sono fondamentalmente innate, anche se possono essere attenuate con la cura di sé. Oppure lo squilibrio fra la domanda di sesso da parte degli uomini e quella da parte delle donne.

In secondo luogo, perché illuminano la vicenda Boccia-Sangiuliano. Osservata con le discutibili ma perspicaci lenti della Hakim, la storia non si presta ad essere classificata né come un caso di banale seduzione, né come un caso di puro arrivismo. Non è seduzione classica, perché con tutta evidenza l’obiettivo della nostra eroina non era di diventare la compagna o la partner del ministro. Ma non è nemmeno puro arrivismo, perché – secondo Hakim – l’uso del capitale erotico per affermare sé stesse è, a suo modo, una declinazione possibile del femminismo. Non a caso, al tempo dell’uscita del libro Honey Money, la giovane e brillante giornalista del Daily Telegraph che lo recensì si ebbe a esprimere così: “il libro dovrebbe esser letto ad alta voce alle ragazze perché afferma che puoi essere una femminista, puoi essere forte, indipendente e intelligente, e nello stesso tempo indossare un bell’abito e portare i tacchi alti”.

In breve, il libro auspica uno sfruttamento intensivo del capitale erotico come legittimo mezzo di autorealizzazione, autoaffermazione, o ‘empowerment’, come è diventato di moda dire.

La cosa interessante è che è proprio in questa chiave, né moralista né celebrativa, che la maggior parte dei commentatori sta parlando dei comportamenti di Maria Rosaria Boccia. Nessuno si sente di trattarla come una astuta sgualdrina, ma nemmeno le più acerrime nemiche di Giorgia Meloni se la sentono di farne una brillante femminista in lotta con il patriarcato ministeriale.

Eppure la realtà è abbastanza semplice: la dott.ssa (o signora?) Boccia è una fedele esecutrice dei principi accuratamente esposti da Catherine Hakim nelle sue disincantate analisi della condizione femminile. Con un elemento in più, che le ricerche della Hakim non menzionano perché allora non c’era, o meglio stava compiendo i suoi primissimi passi: la possibilità di usare sistematicamente internet per gestire e affinare il capitale erotico, ma soprattutto per moltiplicare la propria rete di conoscenze, relazioni, contatti, quello che Pierre Bourdieu definiva il capitale sociale. Che poi, in una carriera, è la sola cosa che conta veramente, perché è da lì – non certo da un incarico ministeriale retribuito – che scaturisce la possibilità di fare soldi.

Money Honey, canterebbe Elvis Presley.

[articolo uscito sulla Ragione il 10 settembre 2024]




La linea d’ombra dell’esperienza

A proposito della mania attuale dell’ “autorealizzazione”, e delle riflessioni di Luca Ricolfi sulla volontaria sequestrata in Kenya (Silvia Romano), vorrei aggiungere qualcosa. 

Anzitutto una premessa. Può darsi che da quella scelta derivassero alla ragazza gratificazioni  particolari, e che da essa venisse nutrito il suo narcisismo. Per rispetto verso Silvia Romano bisognerebbe però riconoscere una cosa. Il solo fatto di far coincidere autorealizzazione e altruismo, piacere e sacrificio di sé, abnegazione e vanità, mi sembra comunque una conquista altissima, che evita tra l’altro qualsiasi approccio moralistico alla morale (la benevolenza è almeno altrettanto naturale e “gratificante”dell’ aggressività).

Mi soffermo però sull’aspirazione universale –  che caratterizza il nostro presente –  alla felicità personale e appunto all’autorealizzazione (a tutti i costi),  sulla ossessione della creatività. Si ritiene infatti che esista un diritto alla creatività e al talento: tutti poeti, come volevano i surrealisti! Tutti romanzieri! Tutti virtuosi del clarinetto! E invece il talento è distribuito in modo disuguale. Dio è tendenzialmente di destra. Dunque quella aspirazione, essendo perlopiù disattesa, genera frustrazione e invidia. In altre epoche e in altre civiltà si accoglie serenamente il proprio destino, si accetta la parte –  sia pure essa “mediocre” –  che il caso ci ha assegnato. Non ci si sente tutti artisti incompresi, vittime di qualche complotto. Che fare? Dobbiamo auspicare  l’amor fati degli stoici o magari una rassegnazione   alla provvidenza, come la Lucia manzoniana? Suggerisco due risposte possibili.

La prima è tentare di vedere la “creatività” là dove uno di solito non la cerca,  magari in una nostra attività anonima, silenziosa, fuori dai riflettori. Una volta Borges dichiarò di essere orgoglioso non dei libri che aveva scritto ma di quelli che aveva letto!  Non sarà ricordato nelle storie letterarie per questo. Eppure era orgoglioso dei libri letti. Bisognerebbe contribuire a diffondere modelli diversi di creatività.  Rivalutare la creatività che si manifesta come passività ricettiva, come attività  appartata,  ad esempio come gusto di un lavoro ben fatto, di una soluzione ingegnosa a un problema pratico, etc. (anche senza che ci siano spettatori o testimoni). E passo al secondo punto, che riguarda l’esperienza.

Nella Linea d’ombra di Conrad il giovane al suo primo comando scopre che la “realtà” non si trova lì dove se l’aspettava. L’esperienza vera non è infatti sfidare tifoni e tempeste – e passare alla Storia -, esponendosi  intrepidamente a qualche prova eroica (un po’ troppo pianificata e in fondo “letteraria”), ma sopportare 21 giorni di imprevista, prosaica  bonaccia, senza cedere alla follia. L’esperienza vera non coincide tanto con l’avventura spettacolare, con l’Impresa di Fiume,  quanto  con la esperienza della nostra sostanziale impotenza di fronte alla realtà. La maturità per Conrad consiste precisamente in questo: accettare la noia, l’opacità  e il vuoto che sono parte dell’esistenza (senza perdere la testa),  elaborare volta a volta strategie adattive  di fronte agli eventi, saper attendere e  soprattutto però tenersi pronti, cogliere l’occasione che anche la situazione più sventurata può implicare.




Il non detto delle buone cause

Il caso della giovane volontaria rapita e sequestrata in Kenya riapre antiche ferite nell’opinione pubblica italiana. Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima. Chi ha buona memoria, o non è troppo giovane, ricorderà sicuramente il caso delle “due Simone”, che tante polemiche suscitò 14 anni fa (estate 2004), regnante Berlusconi e in piena guerra in Iraq.

Ma perché tanto si discute e tanto ci si divide quando accadono drammi di questo tipo? Perché non ci limitiamo a sperare che qualcuno, sia esso il nostro governo o quello del paese dove è avvenuto il rapimento, riesca a riportare a casa la persona che è stata rapita?

La ragione di fondo è che, di fronte ai sequestri di volontari impegnati in una causa umanitaria, scattano due reazioni opposte, talora entro la medesima persona. La prima è un sentimento di ammirazione per chi spende i suoi anni migliori per aiutare soggetti fragili, siano essi bambini, donne, malati, poveri. La seconda, più che una reazione, è una sorta di stato di perplessità e di dubbio, che si manifesta attraverso un groviglio di domande.

Queste perplessità, più o meno confusamente, poggiano su vari ordini di pensieri. Ma c’è un elemento comune che li attraversa tutti, ed è l’idea che, quando si parla di questo genere di scelte di vita, ci sia un non detto, un pezzo di verità che resta troppo spesso in ombra.

Un tipico non detto sono i costi delle scelte più imprudenti. Costi che per i paesi che, come l’Italia, sono usi pagare riscatti, sono di molti tipi, non solo economici. Le operazioni di liberazione degli ostaggi possono costare la vita ai liberatori, come accadde nel 2004, quando per liberare la giornalista Giuliana Sgrena, in Iraq per un reportage di guerra, perse la vita il nostro agente del SISMI Nicola Calipari. Il denaro del riscatto può essere usato per organizzare nuove operazioni terroristiche, che faranno altri morti innocenti. E proprio il buon esito della transazione può incentivare nuovi sequestri, tanto più probabili verso i cittadini dei paesi inclini alla trattativa (è questo il motivo per cui i governi americano e inglese non trattano). Per non parlare di quel che gli economisti chiamano il costo opportunità di ogni nostra scelta: se metto le mie energie in una cosa, le sottraggo a un’altra. Osservazione che può sembrare sottile o capziosa, ma cessa di esserlo quando ci si chiede perché, con tutti i drammi che abbiamo in patria (dalla povertà alla non autosufficienza), così pochi giovani si sentano attratti dall’affrontarli, e preferiscano esercitare le loro virtù in teatri lontani e spesso rischiosi.

E qui veniamo al non detto più insidioso, quello che riguarda i benefici dell’altruismo. Ciò che, a una parte dell’opinione pubblica non torna, è la retorica del racconto delle gesta umanitarie, per lo più descritte nel registro dell’altruismo, dell’abnegazione, del sacrificio di sé, e così raramente colte nel registro sociologicamente più plausibile, ovvero come strategie di autorealizzazione e di costruzione dell’identità (un tratto, sia detto per inciso, che spiega la sottovalutazione dei rischi: è proprio perché così cruciali nella costruzione del sé, che le imprese in teatri pericolosi non suscitano il timore che meriterebbero).

Ecco perché siamo combattuti. Da un lato l’ammirazione per una gioventù che, come ha scritto ieri Massimo Gramellini, non è fatta né di “lamentosi” vittimisti né di indolenti “sdraiati”.  Dall’altro la sensazione che, alla “meglio gioventù” di oggi, un po’ più di lucidità e consapevolezza non farebbero male.

E’ diventato normale, in tutte le società occidentali, che la stella polare di ognuno, giovane e meno giovane, sia la felicità individuale, la cosiddetta autorealizzazione. Una meta per lo più perseguita con determinazione, costi quel che costi, e che crea non pochi problemi nuovi, anche di natura diversissima fra loro: dalla rottura precoce delle unioni sentimentali alla mancanza di elettricisti (e di decine di altre categorie di lavoratori).

Che cosa c’entrano le separazioni con gli elettricisti? C’entrano eccome, perché alla base di entrambe c’è l’enorme, incontenibile, indomito bisogno di autorealizzazione che pervade le società moderne, e conduce a rompere un legame appena se ne presenta uno più promettente, ma anche a rifiutare una carriera solida ma prosaica (elettricista) appena se ne intravede una più incerta ma gratificante (blogger, conduttore televisivo, cantante). Con enormi conseguenze, individuali e collettive: la moltiplicazione delle diadi madre-figlio (più raramente padre-figlio), con uno dei genitori volato a più lieti lidi, la crescente difficoltà delle imprese di trovare le maestranze che servono.

Ecco perché dicevo che, forse, un po’ più di consapevolezza non guasterebbe. Chi usa il suo tempo a favore degli altri merita innanzitutto ammirazione. Ma nel vasto mondo di coloro che perseguono buone cause, merita una speciale ammirazione chi è impegnato in cause umili, che non dànno né visibilità, né speciali gratificazioni. E, soprattutto, non mettono a repentaglio la vita altrui, come accade ogni volta in cui la causa che abbiamo scelto può farci trovare in situazioni drammatiche, da cui solo gli altri ci potranno tirare fuori. Non di rado a prezzo della loro vita, come la storia di Nicola Calipari ci ricorda.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 23 novembre 2018