Harakiri antifascista

C’è sempre stato un che di poco simpatico, nella richiesta perentoria di dichiararsi antifascisti. Chi la formulava, lo faceva nella presunzione di essere immacolatamente antifascista, e perciò stesso nella posizione di giudicare-assolvere-condannare l’interlocutore. Al di là di questo lato sgradevole, però, un tempo era del tutto naturale dichiararsi antifascisti, perché per la stragrande maggioranza degli italiani l’antifascismo era una sorta di ovvietà: rifiuto del fascismo, gratitudine verso i partigiani, fiducia nella democrazia. Il 25 aprile, è vero, era una festa egemonizzata dalla sinistra, ma non per questo cessava di essere una festa di tutti.

Poi le cose cominciarono a cambiare. Il primo cambiamento mi si palesò in Consiglio di Facoltà nella primavera del 1994, esattamente 30 anni fa. Il nostro preside, eminente studioso della Resistenza, si presentò in Aula Magna con il viso scuro, annunciandoci – con l’aria di chi aveva per le mani una notizia sconvolgente – che in Italia stava tornando il fascismo. In effetti Berlusconi aveva vinto le elezioni. Passarono pochi mesi e Umberto Eco, dagli Stati Uniti, ritenne di dover rincarare la dose: il fascismo non era mai scomparso, anzi era eterno perché i suoi 14 (quattordici) tratti fondamentali si ripresentavano e combinavano in varie configurazioni anche dopo la sconfitta del fascismo storico. Da allora gli allarmi si sono ripetuti migliaia di volte, con particolare frequenza quando al governo c’era la destra, e con ossessiva solerzia da quando Giorgia Meloni ha avuto l’ardire di vincere le elezioni. Da quel momento qualsiasi atto del nuovo governo, dalla politica migratoria al premierato, viene interpretato dagli antifascisti-doc o come manifestazione di tendenze autoritarie e illiberali, o come prodromico alla rinascita del fascismo, ovviamente in una edizione nuova e più consona ai tempi.

Questo modo di vedere le cose si presenta in due forme principali, una teorica e l’altra

pratica. Della forma teorica, il massimo esponente è il prof. Luciano Canfora, per il quale il “nòcciolo” del fascismo è il “suprematismo razzistico”, che starebbe alla base delle politiche migratorie del governo. Della forma pratica, sono da molti anni espressione i gruppi che, per lo più in nome dell’antifascismo, tolgono la parola a chi ha idee diverse dalle loro. Ne sono ricorrente testimonianza le contro-manifestazioni e contestazioni che, puntualmente, provano a impedire fisicamente le manifestazioni altrui, che siano cortei o altri eventi sgraditi, quali presentazioni di libri, convegni, dibattitti: i 18 mesi del governo Meloni ne hanno visto un campionario impressionante.

In breve, l’antifascismo ha poco per volta cessato di essere quel che era – un rito della memoria che celebra la Resistenza e riafferma il valore supremo della democrazia – per trasformarsi in un’arma impropria che una parte politica agita contro la parte avversa, talora accusandola di preparare il fascismo che verrà, talora accusandola di essere essa stessa, già ora, quel fascismo che credevamo di aver debellato per sempre.

Ecco perché oggi, oltre ad essere poco simpatica, la richiesta di dichiararsi antifascisti sta diventando irricevibile per ragioni logiche. Se un governo democraticamente eletto viene considerato compromesso con il fascismo, come potranno gli italiani che lo hanno votato proclamarsi antifascisti? E se così spesso, in nome dell’antifascismo, si usa la forza per togliere la parola agli avversari politici, come potranno proclamarsi antifascisti i liberali e più in generale quanti credono nella libertà di espressione e nel pluralismo delle idee?

Insomma, a me pare che, specie con le ultime manifestazioni dell’8 marzo e del 25 aprile, così piene di odio e intolleranza, l’antifascismo abbia fatto harakiri. D’ora in poi nessuno potrà chiedere a noi antifascisti normali se siamo antifascisti. Saremmo noi, semmai, a dover chiedere ai custodi dell’antifascismo storico che cosa aspettano a prendere le distanze dal nuovo antifascismo, violento e intimidatorio, e a restituire un po’ di rispetto a quella parte del paese che ha più fiducia nella destra che nella sinistra.

Ma non lo faremo. Perché a noi antifascisti normali le abiure non piacciono. Ognuno è responsabile delle sue idee, ma nessuno è titolato a ergersi a giudice delle idee altrui. La democrazia è anche questo, qualsiasi cosa ne pensino le autonominate vestali dell’ortodossia antifascista.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 maggio 2024]




La mente (inconsapevolmente) totalitaria di Noemi Di Segni

Confesso un profondo sconcerto quando leggo, sulle più importanti testate italiane, che il governo di Giorgia Meloni stenta ancora a riconoscere il fascismo come male assoluto. Anche una persona squisita come Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche in Italia, in un’intervista a ‘La Stampa del 21 aprile u.s., ha dichiarato che “ Giorgia Meloni e gli altri esponenti del governo devono capire che il fascismo ha fatto cose gravissime a partire dalle leggi razziali e devono capire che è stato un male assoluto per tutte l’Italia. Giorgia Meloni ha detto che le leggi razziali sono state un abominio ma ha mancato di dire che le ha fatte un governo fascista. Le leggi non nascono da sole, qualcuno le ha volute e le ha firmate”. Ancora una volta si chiede alla destra al governo di dichiararsi antifascista, non bastando la professione di fede democratica (che per un liberale comporta poi sia l’antifascismo che l’anticomunismo).

 Tra l’altro, nell’intervista, Di Segni adopera il termine ‘revisionismo’ come ‘un peccato contro lo Spirito’, per dirla con Croce, ignorando che il revisionismo è l’imperativo metodologico di ogni storico serio: se i racconti del passato fossero ‘veri’ come sono vere le leggi delle scienze naturali, che senso avrebbe  sottoporli alla critica della ragione storica? In realtà, la political culture ,in cui si riconosce l’intervistata–e con lei quasi tutti gli intellettuali impegnati del nostro paese—da qualche tempo ha dichiarato una guerra spietata a ogni tipo di revisionismo storiografico: ormai a dirci cosa realmente  fu il fascismo sembrano essere rimasti l’Anpi e  Gianfranco Pagliarulo. La ‘vulgata antifascista’—da cui vent’anni fa rifuggivano anche gli storici di sinistra– è diventata una verità di Stato e persino la più alta carica della Repubblica ha messo in guardia contro la tentazione di ripetere che il fascismo ha fatto anche cose buone. E’ il pensiero unico che celebra i suoi trionfi e che, se fosse coerente, dovrebbe porre al bando l’intervista sull’antifascismo che un politico e studioso comunista del calibro di  Giorgio  Amendola rilasciò a Piero Melograni (Ed. Laterza 1976): Il ‘Secolo d’Italia’ scrisse che i riconoscimenti tributati al regime superavano quelli che si potevano leggere nell’Intervista sul fascismo di Renzo de Felice. Ma ormai chi si ricorda più del  maggiore storico del fascismo del nostro tempo, di Augusto Del Noce, il geniale filosofo politico che alle diverse forme di totalitarismo dedicò le sue riflessioni più profonde? Chi cita più i grandi storici e scienziati politici d’oltralpe e d’oltreoceano che sul fascismo, sul nazismo, sul comunismo hanno scritto pagine fondamentali ma che oggi sembrano ignorate?

 Meloni e altri esponenti della sua area politica e culturale hanno condannato le leggi razziali e l’alleanza col Terzo Reich? Per le Vestali della Liberazione non basta: avrebbero dovuto dire che quelle pagine nere del regime fascista erano iscritte tutte nel suo DNA ideologico: insomma avrebbero dovuto scavalcare a sinistra studiosi come A. James Gregor o Ernst Nolte, elaborando una teoria dei crimini commessi dai fascisti che li presentasse come effetti naturali di cause autoevidenti. Davvero una strana pretesa, questa,  che riporta in auge quelle che un tempo si chiamavano ‘filosofie della storia’ ,intese come visioni del mondo in cui tutto era concatenato, tout se tient.

  Sennonché le ‘filosofie della storia’ sono un prodotto tipico dell’ideologia intesa come falsa coscienza che appende a un chiodo—il Valore, o il Disvalore, posto a fondamento di una politica—tutto il seguito positivo o negativo che si fa discendere da una scelta originaria o da un’idea che abbia trovato delle baionette, per dirla questa volta con Napoleone. Così per un tradizionalista doc (ce ne sono ancora) la presa della Bastiglia è all’origine del regicidio, del Terrore, delle guerre napoleoniche della finis Europae. E, analogamente, per un laicista ateo e razionalista, dalla religione cristiana discendono tutte le brutture che hanno segnato nei secoli il vecchio continente: dalle crociate ai roghi dell’Inquisizione etc.. In Controstoria del liberalismo (Ed. Laterza 2005), lo storico della filosofia, il compianto, Domenico Losurdo scriveva, della tradizione di pensiero liberale, che “Nessun’altra più di essa si è impegnata a pensare a problema decisivo della limitazione del potere. Epperò, storicamente, questa limitazione del potere è andata di pari passo con la delimitazione di un ristretto spazio sacro: maturando un’autocoscienza orgogliosa ed esclusivistica, la comunità dei liberi che lo abita è spinta a considerare legittima la schiavizzazione ovvero l’assoggettamento più o meno esplicito, imposti alla grande massa dispersa per lo spazio profano. Talvolta si è giunti perfino alla declinazione e all’annientamento. E’ dileguata del tutto questa dialettica in base alla quale il liberalismo si trasforma in un’ideologia del dominio e finanche in un’ideologia della guerra?”. Per il marxista Losurdo non c’era nessun dubbio che razzismo e colonialismo fossero iscritti nell’ideologia liberale. Ne costituiva una riprova la storia degli Stati Uniti.” |…| La Costituzione additata come modello consacra la nascita del primo Stato razziale, mentre l’autogoverno qui osannato garantisce ai proprietari di schiavi del Sud il legittimo godimento della loro proprietà senza interferenze da parte del governo federale”. Va detto che Losurdo, uno studioso sempre molto documentato e autore di libri che si leggono ancora oggi con profitto, al di là del dissenso teorico, era molto più serio del collega antichista romano, Antonio Capizzi, che scrisse un saggio degno dell’inquisizione stalinista—il titolo dice tutto– Alle radici ideologiche dei fascismi. Il mito della libertà individuale da Constant a Hitler (Roma, Savelli, 1977) per dimostrare la continuità profonda tra il Discorso  di Constant sulla libertà dei moderni comparata a quella degli antichi col Mein Kampf di Adolf Hitler.

 A mio avviso, uno storico—liberale o meno che sia—non può sottoscrivere nessuna delle due interpretazioni del liberalismo ma il problema non è questo, bensì è quello di stabilire se una comunità politica, che si ispiri ai valori della società aperta debba esigere che i suoi cittadini si riconoscano nel racconto ufficiale della storia predisposto dallo stato democratico o debba limitarsi a esigere l’assoluta fedeltà alla Costituzione e codici di cittadinanza in linea coi suoi valori. Per fare un’ipotesi non del tutto irreale, se un regime comunista o un partito comunista non si accontentasse della conversione marxleninista di un cittadino già militante in una formazione democratica borghese ma esigesse da lui il riconoscimento di aver militato in passato nell’area ideologica che teorizzava e praticava lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il genocidio, la colonizzazione non sarebbe una riprova della mens totalitaria del comunismo? E se l’esaminando dicesse: lascio il mondo capitalista, borghese, liberale non perché era il male assoluto ma perché non ha mantenuto le sue promesse, non ha risolto il problema della giustizia sociale non ha eliminato lo sfruttamento del proletariato interno ed esterno, potrebbe egualmente ottenere  la tessera del PCI o del PCUS?

 I  veri numi tutelari della ricerca storica non sono i santi dell’Inquisizione—cattolica o laica—ma i grandi scettici, come Michel de Montaigne o David Hume. Essi insegnano che la storia non è un processo necessitato in cui ogni casella, ogni momento del suo divenire, si colloca al posto giusto ma è un sistema aperto, dove può sempre accadere di tutto, dove ciò che poi accade realmente trova una sua spiegazione logica ma poteva non accadere.

 Quando si dice che il fascismo è il male assoluto e se ne vuol fare una verità di fede per tutti i cittadini non ci si ispira ai valori alti  dell’Occidente ma all’ideologia del Grande Fratello sempre più esigente che non può certo accontentarsi    della condanna senza appello delle leggi razziali e dell’esecrazione del Patto d’Acciaio che distrusse non solo le nostre città ma indebolì, forse irreparabilmente, lo stesso sentimento d’amor patrio. Se non si dice che  fin dall’inizio il fascismo fu quanto di peggio e di più pestilenziale avrebbe potuto abbattersi sull’Italia, non ci si può accostare al fonte battesimale della democrazia. Resta, pur sempre, il problema della   maggioranza dei nostri connazionali che gli assicurarono un ampio consenso–a cominciare dagli intellettuali, dagli imprenditori, dalle autorità ecclesiastiche, dalla ‘gente meccanica e di piccolo affare’. Come va considerata? Come ‘massa damnationis’ i cui residui storici attendono una bonifica integrale?

 La Meloni viene da ambienti ‘che ci hanno creduto’, da persone che, in buona fede, videro nelle camice nere il movimento e poi il governo che salvarono il paese dall’anarchia e realizzarono non poche significative riforme sociali, facendole pagare—beninteso–con la perdita delle libertà statutarie (perdita per noi inaccettabile ma non per gli Italiani del tempo, stanchi di guerre civili e di violenze, come ben riconobbero, storici non certo reazionari da Angelo tasca a Federico Chabod, da Renzo de Felice a Roberto Vivarelli). . Sono proprio tenuti i ‘postfascisti’ a qualificarsi come ‘antifascisti’, a buttare nella spazzatura della storia idealità in cui hanno creduto in buona fede e che, semmai hanno visto tradite, a partire dalle leggi del ‘38 e dall’entrata in guerra del 1940 (le vide tradite, ad esempio, una figura di intellettuale di grande onestà e cultura come Giano Accame, amico personale di Giampiero Mughini, che pure volle la sua bara avvolta nella bandiera della RSI)? Non esito a dire che non potrei avere nessuna stima per Giorgia Meloni se , per compiacere l’assordante canea degli antifascisti in servizio permanente effettivo, si proclamasse ‘finalmente’ antifascista: a parte il fatto che non convincerebbe nessuno dei suoi nemici politici –direbbero che è stata dichiarazione tardiva e imposta–, sarebbe per lei ammettere che nel fascismo storico ci sono state solo ombre e nessuna luce– nell’Erebo può dominare solo il buio pesto—e che la sua milizia politica passata è stata un’imperdonabile peccato di gioventù. Ci manca solo che si pretenda da lei, a questo punto,  di prendere posizione a favore di Claudio Pavone nella durissima polemica che l’oppose al salveminiano  Roberto Vivarelli, autore di un testo esemplare, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (Il Mulino, 2013), in cui lo storico, rievocando la sua giovanile adesione alla Repubblica Sociale,  la spiegava con le circostanze in cui era avvenuta, e, quel che è peggio, scriveva che non ne era affatto pentito della sua scelta.

 Debbo aggiungere, però, che non avrei nessuna stima ,altresì, di un dirigente o di un intellettuale di sinistra che oggi si definisse anticomunista. Il comunismo, come ormai è acclarato, fece più vittime del nazismo e di ogni altro regime golpista della storia contemporanea messi insieme, ma perché non riconoscere a quanti hanno creduto nelle sue ‘promesse’ una buona fede, attestata, tra l’altro, dalla disponibilità a dare la vita per la’causa’, a sacrificare una tranquilla vita borghese in difesa di idealità nobilissime, come l’eguaglianza e la giustizia sociale? Dovrei chiedere ai tanti amici comunisti, che ho conosciuto, frequentato e apprezzato per il loro impegno civile, di considerare il ‘socialismo reale’ come l’altro Male assoluto del XX secolo, come riteneva il presidente Reagan?

 Il pensiero egemone, in Italia, per citare i versi di Trilussa, sta “sprecanno troppe cose belle in nome della fede”: forse è il segno inequivocabile della nostra decadenza.




Il martedì di Capaneo a Dio spiacente e a li nimici sui

Il Presidente della Vulgata

Gettano un’ombra di tristezza nell’animo degli italiani pensosi e alieni da ogni tipo di retorica (ce ne sono e sono la maggioranza) gli interventi di Sergio Mattarella sul 25 aprile e prima ancora sul giorno della memoria. Era doveroso ricordare, nelle scuole e sui media, il giorno in cui fu abbattuto un regime che, portando il paese nel baratro, aveva causato la ‘morte della patria’ ma, ricordando una pagina che Benedetto Croce scrisse nel 1918 (forse il documento spirituale più alto del 900 italiano), quando gli arrivò la notizia della fine della guerra, ci si chiede: far festa perché? Se in un incidente stradale si perde la gamba destra invece di perdere la vita, se fuor di metafora, l’Italia è stata bombardata, dilaniata dalla guerra civile, ferita nei suoi monumenti storici e nei suoi ricordi e, in tal modo, ha potuto evitare il peggio del peggio, ovvero il destino di satellite del Terzo Reich, c’è proprio materia di festeggiamento? E non sarebbe stato meglio, invece delle adunate antifasciste alle quali l’ANPI ha invitato i resistenti palestinesi (dimenticando, lo ricorda Fabrizio Cicchitto sul ‘Tempo’ che «in quegli anni le autorità religiose islamiche simpatizzavano per il nazismo e nessun gruppo ad essi ispirato partecipò alla Resistenza»), non sarebbe stato meglio, dicevo, deporre corone di fiori nei cimiteri di guerra inglesi, americani, polacchi che della Liberazione furono i veri non retorici artefici?

 Mattarella non ha avuto nessun dubbio nel ripercorrere le strade del fascismo, che sulle sue discutibili ricostruzioni della storia d’Italia apponeva il sigillo delle verità ufficiali: allora il dissenso comportava una condanna penale, oggi (per fortuna) comporta solo un’esecrazione morale—quella che manda in visibilio Ugo Magri, il Mario Appelius della ‘Stampa’, che, dinanzi alle esternazioni del Presidente, commenta ammirato: «Un’ammissione così esplicita mai si era udita finora sul Colle».

Colpisce non poco che, tranne qualche eccezione, Mattarella abbia fatto a pezzi il revisionismo storiografico del più grande studioso del fascismo, Renzo De Felice, senza suscitare la benché minima reazione da parte di studiosi e di pubblicisti che pure continuano a richiamarsi alla lezione dello storico reatino. Il fascismo fu una bieca tirannide che tenne per vent’anni gli italiani schiavi di una dittatura implacabile, sanguinaria, spietata con «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini asserviti». E gli ‘anni del consenso’, al quale era dedicato il più importante volume dell’opera monumentale di De Felice che quarant’anni fa scatenò la reazione dei retori dell’antifascismo ma di cui, di lì a poco, si sarebbe riconosciuto da tutti il valore storico (a cominciare dal Giorgio Amendola dell’Intervista sull’antifascismo)? Cancellati dalla retorica quirinalizia! Dire che il fascismo ha lasciato opere pubbliche ed enti assistenziali importanti, ricordare che alle une e agli altri si interessò molto Franklin D. Rooosvelt che incaricò una Commissione di studiare le ricette fasciste per la crisi, significa diventare complici del nazifascismo (v. la pioggia di insulti caduta sul povero Tajani). «La storia non si riscrive!» ha sentenziato Mattarella: il fascismo è stato quello che ci hanno detto l’ANPI e gli storici partigiani, punto e basta! De Felice, scrive Francesco Perfetti, «contesta duramente la qualifica di ‘secondo Risorgimento’ per la lotta di liberazione degli anni 1943-1945: questa gli appare storicamente inconsistente perché gli ‘ideali civili’ (sintesi di ‘nazione’, ‘patria’, ‘libertà’) del Risorgimento e le forze politiche che ne erano state protagoniste erano, in gran parte, diversi da quelli che caratterizzarono il cosiddetto ‘secondo Risorgimento’». A Mattarella non potrebbe interessare meno: parlare di ‘Secondo Risorgimento’ significa infatti—per lui come per l’establishment culturale di sinistra– che la Resistenza non fu una mera ‘restaurazione democratica ’(come la definì—‘riduttivamente’?— Panfilo Gentile), ma una vera e propria rifondazione della comunità politica che non doveva limitarsi a disinfestare la casa occupata dall’invasore nazista  ma costruire un nuovo edificio, ispirato alla ‘democrazia progressiva’—la formula escogitata da Togliatti per far dimenticare lo stalinismo del PCI e mettere in piedi un’alleanza di tutte le forze antifasciste, dai cattolici ai soupirants azionisti.

Ognuno è libero di pensare e di dire quel che crede—anche il Presidente della Repubblica, anche il Presidente del Parlamento europeo— ma ci si chiede sommessamente: l’opinione pubblica—su cui si fonda la democrazia, quel ‘banale conteggio delle teste’—conta qualcosa o no? E se l’opinione pubblica non vede nella dittatura fascista (almeno fino alle leggi razziali, che secondo Mattarella, noto studioso dell’antisemitismo e del razzismo, erano connaturate all’ideologia di Mussolini) l’inferno in terra,  se non vuol saperne di democrazia progressiva, come dimostrò nel 1948 con la sconfitta del Fronte popolare, se sente così poco il 25 aprile—Festa in piazza, ma i partigiani sono pochi, ha scritto Ettore M. Colombo sul QN— da tenersi lontana dalle cerimonie ufficiali, come  reagirà il Colle? Potenziando l’ANPI, moltiplicando le iniziative tipo la storia in piazza, esigendo dai professori di storia contemporanea l’impegno solenne a non riscrivere la storia? La libertà non si baratta con l’ordine ma neppure col ‘politicamente corretto’, Signor Presidente!

Pubblicato il 30 aprile su L’Atlantico



La sinistra e l’identità/Antifascismo e ius soli due capriole all’indietro

Ci sono, nella vita, segni abbastanza inequivocabili: se hai 40 di febbre c’è, nel tuo corpo, qualcosa che non va. Anche in politica ci sono segni piuttosto chiari: se, nell’anno di grazia 2017, in occidente, un partito di destra rispolvera l’anticomunismo, vuol dire che non sta troppo bene. Non perché il comunismo non sia un’ideologia nefasta, che ha prodotto decine di milioni di morti, e tolto la libertà a un paio di miliardi di abitanti di questo pianeta. Ma per una ragione molto semplice: il comunismo non è, attualmente, nei paesi occidentali, una minaccia concreta all’ordine democratico.

Lo stesso discorso vale per i partiti di sinistra: se un partito di sinistra, oggi, in un paese occidentale, rispolvera l’antifascismo, vuol dire che non sta troppo bene. Di nuovo, non perché il fascismo non sia a sua volta un’ideologia nefasta. Ma per la stessa ragione di prima, perché il fascismo non è una minaccia attuale: non ha senso prendere un vaccino contro una malattia che non c’è più.

Eppure, a pochi mesi dalle elezioni, il principale partito della sinistra proprio questo sta facendo: con la legge Fiano, già passata alla Camera e in procinto di passare al Senato, intende rendere ancora più severe le norme che già impediscono, non solo la ricostituzione del partito fascista, ma la propaganda delle idee del fascismo (legge Scelba, del 1952; legge Mancino, del 1993). D’ora in poi, se la legge dovesse essere approvata, saranno punibili (da 6 mesi a 2 anni di carcere) persino il saluto romano, la vendita e la diffusione di immagini e gadget reminiscenti del passato regime; il tutto con pene aumentate se il canale di diffusione è internet.

Eppure il Pd dovrebbe sapere che le norme proposte sono a palese rischio di incostituzionalità, in quanto in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Soprattutto dovrebbe sapere che, sul punto, la Corte Costituzionale si è già espressa ripetutamente in passato, chiarendo che la possibilità di perseguire la manifestazione del pensiero e la propaganda di matrice fascista vige solo se sussiste un pericolo concreto per le istituzioni democratiche. Un orientamento che, peraltro, non è solo della suprema corte italiana ma anche della giurisprudenza tedesca riguardo al passato nazista. Non tutti sanno che, da più di mezzo secolo (dal 1964), esiste in Germania un minuscolo partito, la NPD, che, a differenza della temutissima Alternative für Deutschland di Alice Weidel, si richiama esplicitamente ai valori del passato nazista. Ebbene, nonostante ciò, la Corte Costituzionale tedesca ha sempre respinto le richieste di metterlo fuori legge, in quanto per sciogliere un partito non basta che esso persegua obiettivi incostituzionali ma occorre che costituisca una minaccia concreta per le istituzioni democratiche.

Un requisito, questo della concretezza della minaccia, che oggi pare più facile rinvenire in determinate espressioni del fondamentalismo islamico, che non nelle spiagge che esibiscono il ritratto di Mussolini (che paiono esistere, ma di cui non ho avuto esperienza diretta), o nelle case del popolo in cui troneggia il ritratto di Stalin. Anni fa mi è capitato di ammirare un ritratto di “Baffone” nella casa del popolo di un delizioso paesino del Levante ligure, ma non mi sono mai sognato di invocarne la rimozione: perché vietare a dei vecchi comunisti di venerare il loro eroe? In fondo, la loro ammirazione per un dittatore è già di per sé uno spot contro il comunismo, e un potente segno della superiorità della civiltà liberale.

Ecco perché mi chiedo: come mai il Pd si è imbarcato in un’avventura tanto fuori tempo? Quali sono le ragioni che spingono un partito, che sul tema se ne è stato quieto quieto per un’intera legislatura, a rispolverare improvvisamente la clava dell’antifascismo?

La prima risposta che viene in mente è che, sfortunatamente, sui temi che interessano davvero i ceti popolari, ovvero lavoro e sicurezza, la sinistra ha ormai poco da dire. Il reddito di inclusione è poca cosa rispetto alla dimensione che, in questi 10 anni, hanno raggiunto la povertà e la disoccupazione. Vorrei ricordare che, se l’occupazione è quasi tornata ai livelli pre-crisi, è solo perché 1 milione di nuovi posti di lavoro conquistati dagli immigrati hanno compensato altrettanti posti di lavoro persi dagli italiani, che ancor oggi sono ben al di sotto dei livelli occupazionali pre-crisi. Quanto alla sicurezza, l’altro grande tema che sta a cuore ai ceti popolari, il bilancio di questa legislatura è drammatico: mai gli sbarchi hanno toccato i livelli del quadriennio 2013-2016, mai la macchina dell’accoglienza ha operato in tanto disordine. Ecco perché, se deve dire che cosa ha fatto o ha tentato di fare, la sinistra è costretta a snocciolare il rosario dei temi leggeri, ossia di quegli interventi – talora sacrosanti, talora discutibili o illiberali – che Marx avrebbe definito “sovrastrutturali”: testamento biologico, femminicidio, reato di tortura, codice anti-mafia, doppio cognome, eccetera. A quanto pare l’identità della sinistra è così fragile sulle cose che contano, da costringerla a continue trasfusioni di sangue identitario dal vasto universo dei temi che infiammano solo le élite e i ceti medi.

C’è però anche un’altra risposta, non incompatibile con la prima. Il Pd, nonostante tenti faticosamente di cambiare, resta un partito i cui militanti (ma vale anche per non pochi elettori), hanno un pessimo rapporto con il senso comune. Mi è già capitato di ricordare l’incredibile lapidazione morale subita da dirigenti che, recentemente, hanno adottato posizioni di puro buon senso: Deborah Serracchiani, che dice che lo stupro compiuto da un ospite è particolarmente riprovevole; il sindaco di Firenze Dario Nardella, che mette in guardia gli studenti americani dai pericoli della movida; o il ministro Marco Minniti, che pone fine alla politica dell’accoglienza senza regole e senza limiti.

Ora a questa catena di reprobi, la cui unica colpa è di non aver completamente rinunciato a ragionare come le persone normali, si aggiunge Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, reo di aver respinto la richiesta di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini, conferitagli nel lontano 1924. Una posizione che non deriva certo da simpatie fasciste (Gori è iscritto a Pd) ma dalla capacità di distinguere fra la storia, di cui il fascismo e i suoi simboli fanno parte (esattamente come il comunismo e i suoi miti), e i conflitti politici dell’oggi. Conflitti che una sinistra un po’ più attenta alle richieste dei ceti subordinati, duramente provati dalla crisi e dalla globalizzazione, renderebbe assai più concreti e utili al Paese.

Ma forse la risposta vera, quella che rende conto della strana tempistica del neo-antifascismo del Pd, va ricercata nelle difficoltà che la sinistra incontra a far passare la legge sullo ius soli anche al Senato. Che cosa c’entra lo ius soli con l’antifascismo? Niente, per le persone normali. Ma può c’entrare se alla sinistra riesce di far passare la difesa degli immigrati come una battaglia antifascista. Un’eventualità che in realtà si sta già delineando. Visto che Casa Pound e diverse formazioni di destra sono impegnate in una battaglia contro lo ius soli, ecco pronta e servita su un piatto d’argento l’opportunità di cui la sinistra ha più che mai bisogno: impedire che la gente pensi che la destra ormai se ne fa un baffo del fascismo e si occupa di temi ben più attuali, come immigrazione e sicurezza, e far credere al proprio elettorato che anche lo ius soli rientri nella eterna e imprescindibile lotta contro il fascismo e i suoi rigurgiti.

Pubblicato su Il Messaggero  il 7 Ottobre 2017