Sinistra, tolleranza zero?
Adesso che tutto è passato, il Salone del Libro di Torino è finito, la “mobilitazione antifascista” ha raggiunto il suo obiettivo (impedire a un piccolo editore che si proclama fascista di esporre i suoi testi, fra i quali un libro-intervista al ministro dell’interno Matteo Salvini), forse è possibile provare a parlare di quel che è accaduto con un minimo di pacatezza. Perché una cosa credo non si possa negarla: l’episodio di Torino un problema lo solleva, e si tratta di un problema grosso come una casa.
È giusto impedire l’esercizio della libertà di espressione a chi ha idee politiche che si richiamano al fascismo? Può una democrazia, che si proclama tollerante e aperta al diverso, comportarsi come una dittatura nei confronti di determinate persone e di determinate idee?
Come si sa, sul piano giuridico la questione si riduce a interpretare in modo più o meno severo le due leggi che si occupano del tema (la legge Scelba del 1952 e la legge Mancino del 1993), specie nei casi in cui lo zelo antifascista può entrare in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, che tutela la libertà di pensiero: “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Ma sul piano politico e civile?
Su questo piano, a me pare che l’episodio di Torino non sia un buon segnale di salute della nostra democrazia. E lo credo per due ragioni, che si intrecciano fra loro. La prima riguarda le anime belle che hanno proclamato di non essere disposte a partecipare al Salone in quanto indignate, offese, turbate, imbarazzate dalla mera presenza fisica di una casa editrice il cui proprietario ha idee che le anime belle stesse considerano deprecabili. Ebbene quelle idee le trovo pessime anch’io, ma penso che dovremmo sempre distinguere fra le opinioni espresse in modi che non ledono alcun diritto e le opinioni espresse in modi che possono ledere diritti individuali (è il caso delle intimidazioni, dell’istigazione alla violenza, delle ingiurie), o addirittura costituire concreta minaccia all’ordine democratico (era questa l’ispirazione della legge Scelba, ed è questo l’orientamento della legislazione antinazista in Germania).
Mi si permetta di dirlo in modo provocatorio: il turbamento ideologico di qualcuno non può mai essere un buon motivo per tappare la bocca a qualcun altro, finché questo “qualcun altro” si limita a esprimere un punto di vista, senza minacciare, offendere, esercitare violenza o prevaricazione. Né si pensi che il problema riguardi solo la politica: la pretesa di far valere la propria personale sensibilità (o i propri pregiudizi) sta già mettendo in crisi alcuni insegnamenti universitari negli Stati Uniti, dove può accadere che a un professore venga proibito di leggere un canto di Dante perché alcuni versi turberebbero la sensibilità di qualche individuo, gruppo o minoranza. Del resto succede anche da noi, quando una maestra ritiene che un bambino di religione islamica possa sentirsi turbato dalla vista del presepe. Di questo passo dovremmo arrivare a imporre il velo o il burqa alle ragazze occidentali, per non turbare la sensibilità dei maschi di culture meno libertine della nostra!
Per non parlare del problema speculare rispetto a quello del fascismo, quello dell’apologia del comunismo. Quanti milioni di persone si sentono ancora comuniste? Quanti sacerdoti dell’industria culturale sono stati comunisti o lo sono ancora? Ma che cosa diremmo se un perseguitato dal regime sovietico, o un intellettuale fuggito dalle prigioni cinesi, si rifiutasse di partecipare al Salone del libro perché offeso dalla presenza fisica di autori o case editrici che simpatizzano per il comunismo? Cosa potremmo replicare se ci dicesse che, ospitando certi stand, noi diventiamo moralmente corresponsabili delle terribili torture che lui ha subito in un lager comunista?
Credo che gli diremmo che non può sentirsi offeso dalla presenza di persone che, del comunismo, apprezzano ancora alcuni aspetti, e comunque lo fanno in modo civile e democratico, senza mettere a repentaglio la libertà di nessuno. Se si sente personalmente offeso, al punto da non poter partecipare a un incontro perché cinquanta metri più in là c’è uno stand che espone l’opera completa di Lenin, è un problema suo, solo suo. Ci mancherebbe altro che, in piena democrazia, dovessimo denunciare e cacciare tutte le case editrici che simpatizzano con il comunismo.
C’è però anche un’altra ragione per cui l’episodio di Torino mi ha rattristato, una ragione che, a suo modo, ha evocato anche l’editore Giuseppe Laterza in una bella intervista a “La Stampa”. Sotto quell’episodio, temo, c’è anche una malattia brutta dell’élite progressista in Italia: la sua incapacità di confrontarsi con quel pochissimo di dissenso culturale che ancora esiste nel nostro paese. Se provate a fare una lista dei pochi intellettuali, pensatori, scrittori, giornalisti difficili, in quanto in perenne dissenso con le idee che dominano nel mondo della cultura e dello spettacolo, non ne troverete quasi nessuno nel programma del Salone. Più che un’arena in cui si confrontano lealmente concezioni forti e contrapposte (come giustamente auspicava Laterza, editore di sinistra che ha pubblicato Marcello Veneziani), la festa del libro è ormai diventata essenzialmente una occasione di conferma reciproca, di autocelebrazione, di rassemblement della grande famiglia di quelli che hanno le idee giuste.
Il che solleva una ovvia domanda: ma se le idee sono così giuste, così democratiche, così aperte e tolleranti, perché tanta paura di confrontarsi con chi la pensa in modi radicalmente diversi?
E poi, forse, anche una meno ovvia: non sarà proprio per la sua incapacità di ascoltare il dissenso, di misurarsi con gli avversari politici e i critici non autorizzati, che la sinistra ha perso ogni contatto con la realtà? E non sarà proprio questo arroccamento nel proprio mondo di autocompiaciuti giusti ad averla irreparabilmente separata dai ceti popolari?