Giovani: vittime e viziati
In primo pianoSocietàQuel che mi ha colpito, da quando è iniziata la protesta degli studenti “attendati” davanti alle università, è la forte presenza di reazioni non convenzionali, o in qualche modo inattese. Contrariamente a quel che accade su quasi tutto il resto, sulle “tende” destra e sinistra non appaiono compattamente schierate l’una a favore (la sinistra), l’altra contro (la destra). Ho ascoltato più volte parole di comprensione da parte di esponenti della maggioranza, ma anche parole di grande perplessità nel mondo progressista. Una parte della destra ammette che il problema è reale (oltreché antico), una parte della sinistra si chiede se, dare agli studenti un alloggio vicino all’università che frequentano, sia davvero una priorità.
Questa incertezza di giudizi ha una base logica più che comprensibile. Da un alto la mancanza di alloggi a prezzi accessibili è sicuramente un fattore che limita il diritto allo studio, ma dall’altro non si può ignorare il fatto che, comparati al vasto mondo dei lavoratori pendolari, gli studenti universitari – in media – costituiscono un segmento relativamente privilegiato (all’università accede circa 1 giovane su 2).
E tuttavia credo vi sia anche una ragione più profonda per cui, quando il discorso cade sulla condizione giovanile, è difficile assumere una posizione netta, e tantomeno sparare giudizi intransigenti o inappellabili. Il fatto è che, sulla condizione giovanile, convivono in Italia due racconti apparentemente opposti, ma entrambi fondati.
Il primo racconto osserva che in nessuna altra epoca è stato così alto il numero di giovani che possono permettersi di non fare nulla: né studio, né lavoro, né addestramento a un lavoro. In nessuna epoca del passato è stato possibile posticipare così a lungo l’ingresso nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet). Nessuna generazione precedente è stata allevata da genitori così protettivi, né da insegnanti così indulgenti. Di qui scaturiscono gli stereotipi classici, che dipingono i giovani come bamboccioni (Padoa Schioppa, 2007), schizzinosi o choosy (Elsa Fornero, 2012), sdraiati (Michele Serra, 2013). E, più recentemente, come fannulloni viziati dal reddito di cittadinanza. O come protagonisti della cosiddetta great resignation (gli autolicenziamenti di massa dopo il Covid, alla ricerca di un migliore equilibrio fra tempo di lavoro e tempo libero). O come generazione snowflake (fiocco di neve), fragile e incapace di affrontare le difficoltà, di gestire gli insuccessi, di misurarsi con le opinioni altrui.
Il secondo racconto osserva che mai, nella storia repubblicana, sono state così poche, e così inadeguate alle aspirazioni, le occasioni di lavoro. Troppi posti di lavoro sono precari o sottopagati. Troppo incerte e modeste sono le possibilità di avanzamenti. Troppo forte è la tentazione di cercare all’estero quel che non si riesce a trovare in Italia. Di qui nascono i contro-stereotipi che descrivono i giovani nel registro vittimistico: sfruttati, emarginati, precarizzati, derubati del futuro.
Il fatto interessante è che entrambi gli stereotipi, quello di una generazione viziata e quello di una generazione vittima, posseggono qualcosa di più che un semplice “fondo di verità”. Certo, come tutti gli stereotipi semplificano e generalizzano incautamente, ma entrambi colgono un lato essenziale della condizione giovanile, e in questo senso sono non liquidabili. Si può inclinare verso l’uno o verso l’altro, ma non si può – se non si è accecati dall’ideologia – respingere totalmente una delle due semplificazioni come palesemente falsa. È qui, verosimilmente, l’origine dell’incertezza, della circospezione, talora dell’ambivalenza, con cui un po’ tutti ci accostiamo alla questione giovanile.
Ma c’è di più. I due stereotipi non solo sono entrambi a loro modo veritieri, ma sono strettamente connessi, perché hanno una radice comune. Se i giovani non trovano lavoro e (in tanti) possono permettersi di non cercarlo è anche perché, negli ultimi 60 anni, le generazioni immediatamente precedenti hanno radicalmente cambiato i propri modelli culturali. Al posto dell’etica del lavoro, del risparmio, dei sacrifici, dell’emancipazione attraverso la cultura, si sono affermati modelli di vita opposti, basati sul consumo, il tempo libero, il primato dell’autorealizzazione, l’iper-protezione di figli e allievi, il diritto al successo formativo. Tutto lecito, e forse auspicabile. Ma non privo di conseguenze, tutte ampiamente prevedibili: minore offerta di lavoro, distruzione della scuola e dell’università, progressivo deterioramento del “capitale umano”, rallentamento e poi arresto della formazione di posti di lavoro pregiati. Se ora i giovani non cercano lavoro, o non trovano il lavoro dei loro sogni, o quando lo trovano si scoprono inadeguati, è anche perché i loro padri e nonni a un certo punto hanno scelto di cambiare rotta. Hanno preferito raccogliere i frutti, piuttosto che continuare a seminare.
È questo che, a un certo punto, ha fermato la crescita. È questo che ha bloccato l’ascensore sociale. È per questo che i due stereotipi, quello del giovane viziato e quello del giovane vittima, non sono l’uno vero e l’altro falso, ma facce della medesima identica medaglia.